Il contributo di Nancy Fraser al dibattito su un nuovo socialismo democratico.
Per un inquadramento critico.
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di Giorgio Fazio
Non sembra esserci tempo più propizio di quello che stiamo vivendo in questo passaggio storico eccezionale, per tornare a riflettere – con serietà, realismo e alla luce di prospettive teoriche e politiche rinnovate – sul tema che dà il titolo all’intervento di Nancy Fraser: che cosa può significare socialismo nel XXI secolo.
Più volte è stato osservato in questi ultimi mesi: come tutte le emergenze che interrompono bruscamente lo svolgimento delle nostre routine sociali, economiche e politiche, la pandemia da Covid-19, investendo inesorabilmente per ondate successive i quattro angoli del pianeta, ha avuto il potente effetto rivelatorio di riportare alla luce, senza più diaframmi, le soglie critiche su cui è sospesa la nostra contemporaneità globalizzata. Soglie critiche di varia natura – sanitaria, ecologica, economica, democratica, sociale, razziale, etc. – eppure tra loro strettamente intrecciate, poichè tutte in qualche modo riconducibili al modello di capitalismo finanziarizzato e deregolamentato che si è imposto su scala globale negli ultimi decenni. Crisi che, tuttavia, la normalità sospesa nei mesi di emergenza epidemica tendeva a rimuovere dal centro dell’agenda politica, mentre ora, dopo e dentro questa emergenza, si ha l’impressione che quel rimosso ripresenti il conto e non possa essere più facilmente relegato sullo sfondo.
L’approccio di Fraser alla questione del socialismo si presenta come una pista di riflessione particolarmente idonea ad aiutarci a leggere “contropelo” questo passaggio storico e ad offrirci strumenti di orientamento politico. E questo per due ragioni fondamentali.
La prima di queste ragioni è che la sua riflessione su una rinnovata idea di socialismo democratico ruota fin dall’inizio attorno al tema della crisi. Addestrata ad una critica del sospetto nei confronti di un’idea di socialismo come ricettacolo di «ricette per l’osteria dell’avvenire» (Marx), la teorica statunitense imposta il suo discorso partendo dall’analisi di ciò che si dà e, quindi, innanzitutto, dal negativo: dalla lettura delle tendenze autodestabilizzanti del capitalismo contemporaneo, dalla messa in luce delle sue forme di ingiustizia strutturale e di mancanza di libertà, dal loro sfociare periodicamente in crisi manifeste di varia natura. Solo muovendo dall’analisi di questo rovescio negativo della normalità capitalistica, secondo Fraser, è possibile comprendere l’esigenza – ma anche l’impellenza – di aprire un discorso di ampio respiro su un’ipotesi di trasformazione radicale dell’organizzazione istituzionale delle nostre società. Il socialismo si presenta, secondo questa impostazione, quindi, come un punto di convergenza prospettico di tutte le soluzioni che è possibile escogitare, in uno spirito di ricerca cooperativo e sperimentale, ai mali strutturali delle nostre società. D’altra parte, queste soluzioni assumono piena pregnanza politica solo in quanto dimostrano di essere, a propria volta, non delle semplici applicazioni di modelli astratti, quanto piuttosto realizzazioni di potenzialità emancipatorie già inscritte nel presente, che tuttavia sono ostacolate nella loro attuazione dall’organizzazione istituzionale complessiva delle nostre società.
La seconda ragione per la quale l’approccio di Fraser al socialismo è particolarmente prezioso per noi oggi è che esso non si limita a riproporre, con piccoli aggiustamenti, il tipo di teorizzazione sociale di grande dimensione associato tradizionalmente al marxismo. Se per un verso, l’idea di una futura società socialista deve germogliare dall’analisi delle crisi e delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo, così come dai potenziali di emancipazione che in queste crisi emergono in controluce – e in questo senso sono scartate in partenza ipotesi “socialdemocratiche” che si limitino a gestire a valle questioni di distribuzione e di riconoscimento, senza intervenire a monte sulle matrici istituzionali delle nostre forme di vita iper-capitaliste – per altro verso crisi, contraddizioni e potenziali emancipatori non sono più interpretati al modo in cui lo faceva la teoria marxista tradizionale, come la chiama Fraser. Detto diversamente: se il socialismo deve essere ripensato a partire da una teoria della crisi del capitalismo, ciò va fatto congedandosi definitivamente da ogni schema concettuale meccanicistico, deterministico, economicistico, funzionalistico, teleologico. Questo cambio di prospettiva vuol dire tre cose fondamentali.
In primo luogo, è necessario congedarsi dall’assunto consolatorio secondo cui esiste una logica sistemica dell’economia capitalistica che tende necessariamente al crollo del sistema, per cui sarebbe giustificata un’attitudine attendista – e forse oggi qualcuno direbbe “accelerazionista” – che alla fine rifluisce nella stasi e nella paralisi politica. È necessario invece fare i conti con la capacità che il capitalismo ha dimostrato, nel corso della sua storia, di risolvere (temporaneamente) le proprie crisi, reinventandosi in forme sempre nuove, capaci di addensare attorno a sé anche consenso ideale e ideologico.
In secondo luogo, non si può più assumere che la crisi del sistema capitalistico produca necessariamente un’acutizzazione della lotta di classe o dei conflitti sociali in generale e, soprattutto, che questi tendano, secondo una necessità storica, ad una risoluzione emancipatoria. Bisogna piuttosto fare i conti con l’eventualità che le crisi di sistema non producano conflitti sociali corrispondenti, o anche che i conflitti sociali che scoppiano in concomitanza con le crisi non procedano in una direzione emancipatoria, ma invece imbocchino strade regressive e anti-democratiche – eventualità questa che del resto, guardando indietro nella storia, sembra più la regola che l’eccezione.
In terzo luogo, non si può più pensare la crisi del capitalismo in termini meramente economicistici, assumendo la sfera economica quale sede della «contraddizione primaria» e centrale, e quale unico e principale campo delle lotte per la realizzazione di una società socialista. Al contrario, bisogna concettualizzare «la crisi come un processo sociale in cui l’economico è mediato dalla storia, dalla cultura, dalla geografia, dalla politica, dall’ecologia e dal diritto» [ref] N. Fraser, Tra mercatizzazione e protezione sociale: risolvere l’ambivalenza femminista, in: Fortune del femminismo, Ombre Corte, Verona 2014, pp. 267-268. [/ref], di modo che, anche una risposta emancipatoria alla crisi capitalista deve abbracciare un’intera gamma di questioni, di orientamenti normativi, di strumenti di lotta sociale, che interrogano il rapporto dell’economico con il politico, con il giuridico, con il sociale, con l’ambiente, su una scala locale, nazionale, regionale, globale.
Tutto questo risulta familiare ai settori più avvertiti della teoria critica contemporanea. Guai a ritenere ancora che le lotte contro il razzismo, il sessismo, l’imperialismo, così come le lotte per la democrazia e per i diritti, siano manifestazioni di contraddizioni secondarie o addirittura di “falsa coscienza”, che sviano dall’unico terreno autenticamente decisivo della produzione e della lotta di classe. Se è vero che queste lotte sociali si accendono lungo assi di dominio non immediatamente riducibili a quello dei rapporti di classe, tuttavia queste lotte sono tra loro intrecciate, perché intrecciati sono gli assi di dominio che sono radicati nella struttura del capitalismo contemporaneo.
Vale la pena notare che, in relazione a questi tre assunti di fondo, Fraser può essere accostata ad altri autori che tentano oggi, nel dibattito internazionale, di ripensare un socialismo democratico per il XXI secolo: un socialismo cioè che per un verso prenda sul serio la questione della democrazia e dei diritti di libertà fondamentali, e per altro verso si sottragga alla secca alternativa, su cui si sono consumate generazioni di teorici e di militanti nel Novecento, tra mercato capitalistico autoregolato, da una parte, e pianificazione statale centralizzata sperimentata nei regimi comunisti di tipo sovietico dall’altra, ancora in larga misura attuale nel settore pubblico cinese. A questo proposito, ci si può limitare qui a menzionare il recente studio del filosofo tedesco Axel Honneth, L’idea di socialismo, o l’ancora più recente Capitale e ideologia di Thomas Piketty, dedicato in larga parte all’elaborazione di un’idea di «socialismo partecipativo» e democratico. Ma su questo torneremo [ref] A. Honneth, L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016; T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020.[/ref].
L’approccio di Fraser al tema della crisi capitalistica ha comunque degli elementi peculiari e originali che meritano di essere messi a fuoco. Per giungere ad una lettura non economicistica del capitalismo e delle sue crisi, infatti, Fraser attinge alle intuizioni del femminismo, dell’ecologismo, del postcolonialismo, ma soprattuto all’apporto teorico di un autore che sta giocando un ruolo decisivo in tutti i tentativi oggi in circolazione di ripensamento del socialismo democratico: ossia Karl Polanyi.
Un approccio neo-polayiano al capitalismo
Non è forse quella proposta da Polanyi in La grande trasformazione (1944) una visione allargata, di lungo periodo e non economicistica della crisi capitalista?
Come è noto, la tesi fondamentale di questo testo tornato in auge negli ultimi anni, è che in tutta la storia umana i mercati sono stati sempre incorporati nelle istituzioni sociali. È solo a partire dal XIX secolo che i fautori del progetto liberista hanno per la prima volta puntato a costruire un mondo in cui il mercato fosse svincolato dalla società. Per creare mercati pienamente autonomi e autoregolati – presuntivamente capaci di tendere da sé all’equilibrio generale e all’utilità sociale – i liberisti hanno puntato a trasformare anche il lavoro, la terra, il denaro, ossia le basi fondamentali della società, in «fattori della produzione». Gli effetti di questa mercificazione – «fittizia», perché applicata a beni che non possono essere interamente ridotti a merci vendute sul mercato – sono stati talmente distruttivi degli equilibri naturali, della tenuta umana dei lavoratori, dei legami sociali, degli equilibri tra produzione e finanza, da innescare ogni volta contro-movimenti volti a proteggere la società dal mercato. L’esito finale di questo «doppio movimento a spirale» tra i fautori del mercato e i protezionisti sociali è stato alla fine il fascismo e la seconda guerra mondiale: quindi tutt’altro che un happy end.
Negli ultimi anni, in una serie cospicua di interventi e di saggi, Fraser ci ha invitato a leggere il neoliberismo come una «seconda grande trasformazione» che ha mirato a liberare i mercati dai regimi normativi internazionali e nazionali, istituiti dopo la Seconda guerra mondiale. Anche oggi ci confrontiamo con un’altra «crisi poliedrica»: non solo economica, ma anche sociale, democratica, ecologica. E anche oggi si mobilitano contro-movimenti per la giustizia economica, così come per la protezione delle comunità, del lavoro, della natura, della finanza globale, tutti diretti contro le devastazioni del mercato autoregolato e globalizzato.
Polanyi costituisce quindi un termine di riferimento teorico fondamentale per Fraser. Tuttavia, per la teorica statunitense, Polanyi va anche corretto e integrato. In modo convincente, Fraser ha riportato alla luce come il racconto polanyiano della «grande trasformazione» si regge implicitamente su una valutazione troppo rosea delle società da difendere dal liberismo e su una visione troppo negativa dei processi di estensione del mercato. A mancare, in altre parole, è il riconoscimento dell’ambivalenza di questi processi, come si manifestano tuttora, in forme mutate, nel nostro presente.
Su questo punto, viene in soccorso a Fraser il femminismo. Proprio il femminismo, infatti, ha posto l’accento sul fatto che le comunità al cui interno tradizionalmente i mercati erano integrati, erano – e sono tuttora – luoghi di dominazione patriarcale che impedivano alle donne pari partecipazione all’interazione sociale. Per altro verso, i processi che hanno scorporato i mercati dalle tutele oppressive delle comunità hanno contenuto, per le donne, anche un momento emancipatorio, nella misura in cui, in alcuni casi, hanno aperto loro l’accesso a diritti che sono i presupposti per la partecipazione paritaria alla vita sociale. Fraser pensa qui a diritti come la libertà religiosa, il diritto di istruzione, il diritto di voto, ma anche ai diritti connessi specificamente con la personalità giuridica, quali il diritto di proprietà, di firmare i contratti, di controllare i salari, di praticare le professioni, di ricevere la stessa paga degli uomini, etc.
La tesi di Fraser è dunque la seguente: senza fare intervenire il criterio dell’emancipazione, elaborato dal femminismo ma poi estendibile a tutte le «lotte contro la dominazione» (lotte anti-casta, lotte anti-razziste, lotte del movimento LGBT, etc), è impossibile differenziare forme di re-incorporamento del mercato regressive e autoritarie, come quelle promosse dal fascismo nel Novecento e oggi dai populismi autoritari e xenofobi, da forme di re-incorporamento del mercato democratiche, come quelle promosse per esempio dalla politica roosveltiana. Di nuovo, quindi: l’apertura al tema dei diritti di libertà fondamentali, accanto ad una visione non interamente negativa dei mercati, costituiscono due presupposti fondamentali per ripensare oggi un socialismo democratico per il XXI secolo, così come per leggere politicamente le attuali crisi del capitalismo. Questo “nuovo socialismo” dovrebbe essere capace di riunire, come due lati della stessa medaglia, la lotta per l’uguaglianza radicale delle opportunità di partecipazione alla vita sociale, in tutte le sue articolazioni, con la lotta per le libertà fondamentali degli individui: le une e le altre intese quali condizioni per ripensare forme di comunità realmente solidali e democratiche. E dovrebbe riuscire ad aggregare e orientare, in termini progressivi, i vari movimenti sociali che emergono sul bordo delle diverse crisi prodotte dalle dinamiche pervasive del capitalismo contemporaneo.
“Mercato-protezione sociale-emancipazione” è dunque il trinomio attorno a cui ruota l’intero ragionamento neo-polanyiano di Fraser, la quale è ben consapevole, però, che i rapporti tra questi tre elementi possono entrare in fatali risonanze, in dangerous liaison. Si è detto della relazione pericolosa tra protezione sociale e dominio patriarcale in funzione anti-mercato, ma che dire allora della relazione pericolosa tra mercato ed emancipazione, in funzione anti-protezione sociale? Fraser ha battuto negli ultimi anni proprio su questo punto: ossia su come questo secondo corto circuito è stato alla base dello sbandamento culturale della sinistra liberale socialdemocratica della Terza Via (ma anche delle ambivalenze di un certo femminismo e di un certo anti-razzismo delle pari opportunità), che ha finito per cadere nell’errore altrettanto ideologico di pensare che il mercato produca di per sé emancipazione. Mentre il futuro del socialismo è consegnato alla sfida di pensare insieme protezione sociale ed emancipazione, subordinando alcuni delimitati spazi di libero mercato all’obiettivo di promuovere obiettivi di giustizia, di democrazia, di cura ambientale, di promozione di tempi e spazi di libertà intersoggettiva e di felicità pubblica.
Nel libro che ha scritto a quattro mani con Rahel Jaeggi, Capitalism. A Conversation in Critical Theory [ref] N. Fraser, Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi, Meltemi, Milano 2019.[/ref],
Fraser ha generalizzato gli schemi teorici ricavati dal suo confronto critico con Polanyi, con il marxismo contemporaneo, con il femminismo, con l’ambientalismo, con la critica post-coloniale. Per mettere a fuoco i compiti del socialismo del futuro, a suo avviso, è utile distinguere una «visione ristretta del capitalismo», ricavabile dal marxismo, da una «visione ampliata del capitalismo», ricostruibile a partire da un Polanyi rivisitato. Si può notare en passant che queste due versioni del capitalismo, in realtà, non sempre appaiono perfettamente integrabili, così come non sempre sono facilmente sovrapponibili le prospettive di Marx e di Polanyi, un punto questo che forse meriterebbe ulteriori riflessioni.
Ad ogni modo, la visione ristretta del capitalismo ci aiuta a identificare i mali che sorgono nel cuore del processo della produzione economica: ingiustizie sistemiche, come la mercificazione e lo sfruttamento del lavoro, e la conseguente tendenza costante dei detentori di capitale a concentrare nelle loro mani la ricchezza socialmente prodotta; irrazionalità, come le crisi periodiche di sovrapproduzione di beni e di sovraccumulazione di capitale, con i conseguenti processi di disoccupazione strutturale e di finanziarizzazione speculativa; assenza di libertà, come la mancanza di democrazia nei luoghi di lavoro.
In una prospettiva ampliata e neo-polanyiana, però, il capitalismo appare non solo come l’insieme delle attività legate al mondo della produzione, ma come un complessivo “ordine sociale istituzionalizzato” che abbraccia l’intero spettro delle diverse sfere sociali. Questo ordine sociale è caratterizzato dalla tendenza a dividere istituzionalmente la sfera della produzione dalla riproduzione sociale, dalla politica e dall’ambiente naturale, a disconoscere il fatto che i processi extra-economici scorporati dall’economia continuano a costituire la condizione di possibilità nascoste della produzione, e infine a destabilizzare questi stessi processi extra-economici, nella misura in cui essi vengono trattati come riserve illimitate da cui il capitale può attingere liberamente e che può mercificare a piacimento, senza curarsi della loro riproduzione, rigenerazione e sostenibilità. Questa visione ampliata del capitalismo ci aiuta a cogliere altri mali strutturali del capitalismo che sorgono al confine tra l’economia e le sue condizioni di possibilità non economiche.
Nel testo Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? Fraser elenca in dettaglio quali sono questi altri mali. Essi sono innanzitutto le ingiustizie sistemiche generate dalle divisioni strutturali del capitalismo. Per esempio: la subordinazione dei lavori di cura alla produzione di merci fa sì che i primi, storicamente assegnati alle donne, siano non retribuiti e svalorizzati rispetto al lavoro salariato, alimentando le subordinazioni delle donne e il binarismo di genere. La divisione strutturale tra lavoratori liberi e persone non libere, espropriabili e senza diritti, nelle periferie del capitalismo (fuori e dentro l’Occidente), avalla l’oppressione razziale, l’imperialismo, l’esproprio ai danni degli indigeni e il genocidio.
Inoltre, il capitalismo, inteso in senso ampio, genera altre forme di irrazionalità, oltre a quelle strettamente economiche. Queste coincidono con le crisi che nascono dalla tendenza del capitale ad erodere o distruggere i propri stessi presupposti di sopravvivenza. Non ha forse avuto origine l’epidemia da Covid-19 da uno spillover, da un salto di specie del virus dagli animali selvatici agli organismi umani, che non è altro, in fin dei conti, che uno degli effetti del modo in cui la natura reagisce alla violenza estrattiva e predatoria che le attività umane esercitano sul resto del vivente, anche sul resto degli animali? E ancora: se il capitalismo globalizzato acutizza la rapina delle popolazioni razzializzate, esso genera reazioni che inceppano la stessa tenuta delle nostre società: il pensiero qui corre alle rivolte in corso negli Stati Uniti di Black Lives Matter. Se il capitalismo svuota di risorse i poteri pubblici degli Stati questi alla lunga non possono più assicurare quelle funzioni di ordine e di stabilità, oltre che di benessere e di protezione sociale, che permettono lo svolgimento delle stesse attività economiche. Non si è radicalizzata forse la pandemia da Covid-19 a causa dello smantellamento della sanità pubblica perpetuato negli ultimi anni di furiose privatizzazioni ed esternalizzazioni delle prestazioni pubbliche del Welfare State?
Da ultimo, secondo Fraser, una visione allargata del capitalismo permette di prendere visione di un’assenza di democrazia ampia e profonda, che scaturisce dal fatto che tutte le decisioni politiche fondamentali – anche quelle relative ai rapporti tra economia, società, ambiente, politica – tendono ad essere sottratte alla deliberazione politica democratica.
Un’idea di socialismo ampliata?
Prospettive e problemi
Da tutto quanto si è detto si capisce come i compiti che Fraser affida al socialismo per il XXI secolo, in quanto progetto volto al superamento del capitalismo, siano realmente ampi e di vasta portata. La tesi di fondo di questo progetto è ormai chiara: «il socialismo deve fare di più che trasformare la dimensione della produzione».
Non si tratta “solo” di lottare per la giustizia economica, per una radicale redistribuzione del reddito e delle risorse, per un accesso universale garantito a «beni pubblici» in grado di soddisfare bisogni essenziali: qui Fraser elenca la casa, il vestiario, l’alimentazione, l’educazione, la sanità, i trasporti, le comunicazioni, l’energia, il tempo libero. Oltre a ciò, si tratta anche di esigere giustizia tra i generi, giustizia razziale, giustizia ambientale.
Non si tratta “solo” di de-mercificare il lavoro e di democratizzare le imprese, ma anche di risarcire, economicamente e socialmente, tutto il mondo extra-economico dei lavori di cura, della tutela dell’ambiente, delle pratiche di una democrazia partecipativa ed espansiva.
Non si tratta solo di sottoporre le scelte economiche generali a processi decisionali e di pianificazione collettiva gestiti democraticamente, ma anche di estendere i processi democratici a tutte le decisioni che riguardano la relazione dell’economia con il suo contesto di condizioni di possibilità nascoste: riproduzione sociale, natura non umana, forme non capitalizzate di ricchezza e potere pubblico.
Le concrete proposte che Fraser fa, in Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? per riempire di contenuti la sua idea di socialismo democratico rimangono, come lei stessa ammette, ad uno stadio iniziale, sono più indicazioni per ulteriori ricerche che vere e proprie formulazioni programmatiche. Molti temi risultano ancora bisognosi di ulteriore chiarificazione. Mi limito qui a nominarne tre.
Non è chiaro il modo in cui Fraser concepisce il rapporto tra socialismo democratico e democrazia costituzionale e pluripartitica: è un rapporto interno o esterno? Tutto fa pensare che per Fraser il socialismo deve riuscire a conquistare un’egemonia dentro la democrazia costituzionale e attraverso le sue procedure, non fuoriuscendo da essa, ma anzi vivificandola e inverandone le promesse. Ma in che modo? E poi: sono davvero sufficienti quelle procedure oppure bisogna pensare a qualcosa di nuovo? Su questo punto decisivo Fraser non chiarisce molto. Afferma solo che per produrre un consenso egemonico attorno ad un programma socialista, è necessario immaginare una fase transitoria che punti sulle capacità di mobilitazione e di coordinamento tra movimenti sociali diversi, sprigionate da un populismo progressista. Qui lei ha in mente la politica dei Democratic Socialists of America, Bernie Sanders e Ocasio Cortez, l’esempio di Jeremy Corbin. Ma certo, proprio questi esempi dimostrano quanto l’obiettivo di costruire consenso politico attorno ad un’agenda politica radicale sia (ancora?) tutt’altro che dietro l’angolo o di facile realizzazione. Inoltre, si tratta pur sempre di progetti limitati dentro i confini di stati nazionali, mentre oggi una delle sfide centrali per
reincorporare democraticamente l’economia è quella di ripensare le forme della democrazia su scala transnazionale.
Fraser parla di pianificazione collettiva gestita con metodi democratici di tutte le scelte che concernono la destinazione del surplus sociale e gli orientamenti di fondo di politica economica. Anche qui, non è chiaro cosa ha in mente. Il modello roosveltiano di interventismo statale rientrerebbe nel suo discorso? E se no, verso quali altri modelli dirigere la nostra fantasia istituzionale?
Fraser si dichiara favorevole a forme di socialismo di mercato, ma anche su questo punto si limita più che altro ad un accenno. Mentre l’approfondimento di questo punto conferirebbe certamente maggiore pregnanza a tutto il suo progetto.
Su tutte questioni, più strutturata appare la proposta di socialismo partecipativo, democratico e decentralizzato, delineata recentemente da Piketty nel già citato volume Capitale e ideologia. In questo testo sono presentate tutta una serie di proposte di riforma radicale che comprendono, per esempio: nuove forme di proprietà sociale, condivisione dei diritti di voto e di partecipazione al processo decisionale nelle aziende; sostituzione del concetto di «proprietà privata permanente» con quello di «proprietà temporanea», attraverso una tassazione fortemente progressiva dei grandi patrimoni, che permetta di finanziare una dotazione universale di capitale; proposte di modifica della tassazione del reddito e del reddito di base; garanzia di equità nei sistemi di istruzione; riforma degli istituti della democrazia su scala sovranazionale [ref]T. Piketty, Capitale e ideologia, op. cit., pp. 1091-1177. [/ref].
Rimane aperto in realtà, anche nel caso di Piketty, il problema dei concreti passaggi politici da compiere, degli attori sociali su cui far leva, delle alleanze da articolare sul piano sociale e politico, nella costruzione di una «forza controegemonica» capace di guidare una transizione verso il socialismo democratico. Tuttavia, si può dire che l’importanza di piste di riflessione come quelle di Fraser e di Piketty, così come di Honneth e di altri autori, non sta forse tanto nella loro capacità di “reggere“ per intero rispetto a test che valutino l’immediata fattibilità politica delle loro proposte, quanto nella loro capacità di sollecitare un campo di immaginazione politica: di rianimare le nostre essiccate culture politiche. Come è da tempo evidente, infatti, l’origine della crisi della sinistra post-’89 sta soprattutto nella perdita di culture politiche di riferimento, in grado di orientare l’azione politica concreta, di indicarle un senso e una direzione di lungo periodo, di strutturare un campo di identificazione simbolica, di mobilitare impegno, passioni e immaginazione, così come di dare forma e rappresentazione a interessi negati, bisogni non articolati, istanze di emancipazione paralizzate e spezzate.
La proposta di Fraser sul socialismo democratico non è che una voce, autorevole e originale, di un dibattito che si sta ampliando di anno in anno. La speranza è che in questa discussione si affinino sempre di più gli strumenti teorici per alimentare con nuove idee, con nuove prospettive, con nuove proposte, tutti i differenti movimenti sociali che oggi si battono, su scala locale, nazionale e globale, per superare la crisi capitalistica in corso – che è soprattutto una crisi di civiltà – in un’ottica di giustizia sociale, di democrazia, di libertà sociale, cooperazione e solidarietà.