Presentazione del dibattito sul socialismo di Filosofia in Movimento .

A partire dal paper di Nancy Fraser.

di Antonio Cecere

Negli anni quaranta del secolo scorso ci fu un intenso dibattito intellettuale intorno al ruolo dello Stato e alle prospettive delle democrazie liberali alla luce della tragedia della seconda guerra mondiale. In modo particolare, ricordo l’attività di una rivista che animò, tra il 1944 e il 1947, un intenso dialogo internazionale al fine di offrire una riflessione del socialismo dopo la bomba atomica, mirante in primo luogo e innanzitutto a criticare le forme d’irrigidimento dei pensieri e delle pratiche del socialismo. Un gruppo d’intellettuali dell’ala radicale newyorkese, su impulso di Dwight Macdonald, fondò il periodico Politics, il quale, per rispondere all’esigenza di un ripensamento della società del dopoguerra, ebbe l’idea di estendere il dialogo ad intellettuali di tutto il mondo occidentale. Visto che le dimensioni del conflitto avevano coinvolto l’intero pianeta, la riflessione non poteva più restare un esercizio dialettico  chiuso dentro i confini di una sola nazione. Bisognava dialogare a livello globale, cominciando proprio dagli intellettuali di quell’Europa che era stata il palcoscenico della tragedia più sanguinosa che l’umanità avesse mai messo in scena. Macdonald riuscì a coinvolgere, oltre ai pensatori più radicali della cultura libertaria nordamericana, tra i quali Paul Goodman, Lewis Coser e Charles Wright Mills, anche intellettuali europei come George Orwell, Nicola Chiaromonte, Andrea Caffi, Albert Camus, Simone Weil. Intorno al dibattito di Politics si aggiungeranno anche le voci di Hannah Arendt e Vaclav Havel e la risonanza di questo breve, ma intenso dialogo, fu l’inizio di un processo di ripensamento della civiltà occidentale quale autocritica del modello di società capitalista.

Non è mio intento approfondire qui le vicende di Politics [ref] Per un approfondimento della storia della rivista, e leggerne i migliori e più significativi articoli, rimandiamo ad Alberto Castelli, Politics e il nuovo socialismo, Marinetti, Genova –Milano 2012. [/ref], né di storicizzarle mostrando ad esempio come oggi, a differenza di allora, il problema non sia più quello di criticare il socialismo, ma piuttosto quello di «inventare» un «nuovo» socialismo, seguendone le tracce che     nella realtà ne affiorino. D’altra parte, neanche voglio attribuire al nostro lavoro una comune discendenza da questa rivista o un debito essenziale verso di essa, poiché molteplici per la verità sono le ispirazioni ideali e culturali cui si rifanno, in una bella convergenza di diversi, gli intellettuali che lavorano per «Filosofia in Movimento»; ma personalmente mi sento di osservare come il dibattito che qui apriamo con la filosofa statunitense Nancy Fraser, e con molti colleghi e amici europei, possa rappresentare, simbolicamente, una sorta di ripresa dei dibattiti di quel vecchio periodico, rispetto all’urgenza di ripensare il socialismo dopo un’altra catastrofe che rischia di cambiare la nostra vita, in un’epoca in cui ogni conflitto e ogni crisi si impongono immediatamente come mondiali, e i giovani sono sempre i primi interessati alle nuove idee. Il lavoro che ci siamo posti, nel dialogo tra la Fraser e una parte degli studiosi di Filosofia in Movimento, con il coinvolgimento della rivista MicroMega e la partecipazione di Castelvecchi editore, è stato quello di rispondere alla sollecitazione della filosofa americana che, nella sua conferenza di Roma [ref]Presso il MACRO Asilo di Roma il 01/10/2019 Nancy Fraser ha discusso con Giorgio Fazio la sua relazione «Che cosa significa Socialismo nel XXI secolo?» , con una presentazione critica di Cristina Guarnieri, nell’ambito del progetto di seminari internazionali «Ripensare la Comunità», a cura di ‘Filosofia in Movimento’ e Castelvecchi Editore.[/ref], ha posto una domanda essenziale per il dibattito che qui presentiamo: «che cosa significa o dovrebbe significare ‘socialismo’ ai giorni nostri?». La studiosa precisa che «ai giorni nostri» è necessario che, «partendo da un concetto più largo di capitalismo, abbiamo bisogno di una concezione ampliata di socialismo, che superi gli stretti economicismi propri della sua classica accezione». Poiché la Fraser afferma che il «socialismo deve fare di più che trasformare la dimensione della produzione», abbiamo intavolato un dialogo su molti aspetti del rapporto fra questa idea politica e la complessità della realtà della società capitalistica. Il dibattito di Politics aveva già mostrato, come in un incunabolo, la necessità di ampliare le basi assiologiche e pratiche del socialismo, mettendo in primo piano alcuni elementi di criticità dell’idea socialista rispetto alla barbarie delle guerre mondiali e della prova che lo Stato sovietico stava dando della realizzazione del comunismo nella prassi politica.

Ci sono alcuni punti interessanti del dibattito di allora che sono ancora centrali per la nostra riflessione. E anzi, lo sono forse ancora di più oggi, quando, con il passar del tempo, i problemi si son fatti più acuti: dalla dimensione delle nuove tecnologie alla centralità della globalizzazione finanziaria. La questione del «collettivismo», retto da burocrazie tecniche e politiche, del sostrato opaco iscritto al fondo di società che pur si dicevano, orgogliosamente e polemicamente, individualistiche, liberali e democratiche, costituiva allora, tra altre cose, la scoperta della trasformazione degli Stati-nazione (entro un’alleanza strettissima di economia e politica) in un sistema che tendeva a irreggimentare i cittadini in un quadro di comportamenti conformi, sotto il comando di ristrette élites tecniche ed economiche, o governative e  politiche; mentre, ciò che era più nuovo e inquietante, era il fatto che ciò avveniva persino in un quadro  «democratico», accompagnato da floride condizioni di vita e di consumi, quelle stesse che, alla fine degli anni ’60, l’economista americano J. Galbraith chiamerà la società opulenta o del benessere (The Affluent Society). Caffi e Goodman notarono che le continue crisi economiche e le guerre avevano abituato i popoli occidentali a ubbidire alle decisioni di governi cresciuti nello stato d’eccezione. Goodman [ref] Sul pensiero di Paul Goodman si veda V. Giacopini, P. Goodman, Educazione e rivoluzione-per diventare persone, ed. dell’asino, Roma 2010. [/ref], con uno spirito d’osservazione acuto e penetrante, descrisse una tendenza che oggi chiamiamo abitualmente consumismo, quando parlò del capitalismo come di un’organizzazione economico-sociale che offre, in modo capillare, consumi standardizzati, indotti da una pervasiva e persino imbarazzante pubblicità, e un’organizzazione «totale» della vita del cittadino, capace di scoraggiare scelte autonome e modi di vivere diversi da quelli insistentemente proposti, come l’american way of life. Certo, si deve stare bene attenti – com’è accaduto, a sinistra, da parte di correnti femministe – a non scambiare questa posizione critica sul conformismo sociale, sui consumi indotti e sulle «occupazioni» capitalistiche degli ambiti di vita e di un’intera società, con la condanna delle protezioni che, in senso largo, costituiscono il Welfare. La mano pubblica dovrebbe piuttosto servire, mentre provvede ai bisogni comuni e più urgenti, necessari alla vita e alla «buona» vita, a liberare le creative energie dell’azione e delle scelte individuali.

Le preoccupazioni per l’ingente sistema di controllo sociale, della burocratizzazione, della seduzione «totalizzante» del capitalismo sulle masse sempre più tese a indebitarsi, ad esempio, per ottenere consumi voluttuari, era la prima evidenza di un capitalismo capace di portare la maggioranza del popolo dalla sua parte e spegnere sul nascere qualunque dissenso organizzato. La critica, d’altra parte alla violenza e alle spese militari costituiva il secondo ambito di riflessione dove riconoscere un problema rispetto a cui oggi il socialismo, e i partiti di sinistra, dovrebbero condurre un’autocritica seria e profonda. Il rapporto fra scienza e progresso tecnologico, un campo che per Macdonald aveva un interlocutore privilegiato nell’illustre pensiero di John Dewey, si ripresentava in tutta la sua acutezza; e così si ritrovava la verità delle vecchie critiche di Tolstoj quando si diceva scettico riguardo al presunto automatismo fra nuove scoperte scientifiche e miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo. Temi questi che nel dopoguerra parevano problemi di un orizzonte a venire, ma che per noi oggi rappresentano un lascito storico di drammatica e urgente analisi.

V’è comunque un punto su cui sento la responsabilità, in questo dialogo, di raccogliere la sfida di Politics, quando i suoi studiosi posero in evidenza la volontà di ripensare il Socialismo a partire da «valori assoluti», ovvero la capacità di confrontare la politica con i grandi concetti della modernità: conoscenza, giustizia, equità, libertà. Raccogliere, insomma, il carico di ripensare la comunità; un compito non facile perché presuppone la prospettiva di delineare una possibile ricomposizione della moderna frattura fra individuo e comunità: con una critica perciò, al tempo stesso, sia alle forme di una forzata socialità e sia dell’assenza di libertà – secondo il vecchio cruccio di Max Weber – in sistemi sociali organizzativi che pur continuano a dirsi liberi e liberali.

A nome di Filosofia in Movimento sono così lieto di presentare – dopo l’incoraggiante prova, per qualità e numero di accessi, della discussione che di recente abbiamo tenuto intorno a un testo sugli effetti del corona virus di Alain Badiou – il dibattito, a partire dalle tesi di Nancy Fraser, sui possibili modi di dire oggi il socialismo, ringraziando gli autori che subito l’hanno animato e quelli che in seguito faranno sentire la loro voce. Da un lato s’è avvertito il bisogno, dati i tempi, di dare un contributo in qualche modo comune; dall’altro, proprio la dilatazione oggi dei mezzi di comunicazione telematici ci ha spinto a meglio usare, se ci siamo riusciti, lo strumento stesso della nostra associazione.