La disciplina politica durante un‘epidemia. Commento all’intervento di Alain Badiou sull’attuale situazione mondiale

di Giorgio Cesarale. Badiou – Considerazioni critiche #2

di Giorgio Cesarale

Nel suo intervento sulle cause e le conseguenze della diffusione della Covid-19, meglio detta SARS-CoV-2, Alain Badiou offre un quadro chiaro, persino scabro si potrebbe dire, della situazione mondiale che ne è scaturita. Rigettando ogni ebbrezza mistica o apocalittica così come l’alternanza, cui così spesso soggiace il pensiero gauchiste oggi, fra pessimismo catastrofista e ottimismo palingenetico, Badiou tenta anzitutto di fissare le coordinate generali del fenomeno. In questa opera di chiarificazione “cartesiana”, come egli giustamente la definisce, spiccano due moduli concettuali di cui egli si è largamente valso in precedenza:

1) la questione dell’invarianza o delle invarianti. Solo che qui non abbiamo a che fare con le “invariants communiste” discusse nel libro scritto con François  Balmès, De l’idéologie (1976), e richiamate in De quoi Sarkozy est-il le nom? (2007), e cioè con l’“eterna” attrazione delle masse popolari per le proposizioni egualitarie. Qui le invarianti sono date dai modi attraverso cui un contagio si diffonde, all’incrocio fra determinazioni naturali e storico-sociali. Ma un’invariante, dice Badiou con classico gesto marxista – derivato dall’esame, condotto da Marx nel cap. VIII del I libro del Capitale, della legislazione introdotta in Inghilterra per regolare e ridurre la giornata lavorativa –, è anche la reazione dello Stato borghese di fronte a ogni emergenza (sanitaria o bellica) che ne metta in pericolo l’esistenza. In questo caso, la semplice “rappresentanza” degli interessi di classe non basta più. Per garantire la continuazione del processo di produzione e riproduzione sociale, lo Stato deve, paradossalmente, ma non troppo, coincidere con la sua promessa normativa, deve occuparsi di tutti i cittadini, compresi i lavoratori e le lavoratrici. Heideggerianamente, si potrebbe sostenere che nel momento in cui anche i borghesi sono assoggettati alla “decisione anticipatrice”, all’esser-per-la-morte, lo Stato stesso deve ri-totalizzarsi, deve riguadagnare una prassi universalistica. Il che ci riporta bensì all’essenza tanatopolitica dello Stato, ma per ragioni molto diverse da quelle riflesse nella biopolitica di Michel Foucault e, soprattutto, di Giorgio Agamben e Achille Mbembe. La relazione fra sovranità e vita naturale non è una relazione di bando, nella quale l’ultima sia abbandonata alla vitae necisque potestas, al potere di morte della prima. Qui, la sintesi disgiuntiva nasce piuttosto dal fatto, colto da Hegel, per cui in tanto un’autorità politica può dimostrare la sua stabile “potenza” (Filosofia del diritto, § 146) in quanto sormonta l’accidente naturale, che è tale proprio perché prima spezza la normale e indisturbata cinghia di trasmissione fra l’individuo e le condizioni generali della sua riproduzione e poi riconduce violentemente il primo alle seconde. Lo Stato è politico quando interrompe questa interruzione, quando respinge, dell’accidente naturale, sia lo iato fra universalità e particolarità sia la loro successiva e forzata conciliazione, e la filosofia di Badiou, descrivendo complessivamente il diagramma dei mutamenti che intervengono fra ciò che è “individuo”, con il corredo delle sue prerogative naturali, e ciò che è “soggetto”, in quanto trasceso in una più ampia verità, si muove senz’altro e proficuamente lungo questa direttrice. 

2) la questione del rapporto fra tradizione e modernizzazione. L’ultimo Badiou vi si sofferma ampiamente, per esempio nel suo dialogo con Marcel Gauchet, Che fare? Dialogo sul comunismo, il capitalismo e il futuro della democrazia, tradotto in “Micromega”, 1/2016. In quella occasione, Badiou ricordava che “il mondo è ovunque attraversato dalla […] tensione fra tradizione e modernità, che si manifesta in tutta una serie di fenomeni disparati ma convergenti: il riemergere dell’estrema destra in Europa, le frange estremiste come il Tea Party negli Stati Uniti, una parte della situazione palestinese, il terrorismo islamico, il buddismo privo di freni in India, l’autoisolamento paranoico, addirittura psicotico, della Corea del Nord, dove qualsiasi riferimento al comunismo è stato tolto dalla Costituzione in favore di un’ottica ultranazionalista eccetera […]. Il problema fondamentale consiste nel fatto che il capitalismo, a causa della sua predisposizione in un certo senso equivoca, è suscettibile di collegarsi tanto alla modernità quanto alla tradizione” (pp. 102-103). In questa occasione, la contraddittoria tensione fra tradizione e modernizzazione si è manifestata in Cina, giacché le pratiche arcaiche che vi persistono hanno effetti che ormai si possono, in un battibaleno, estendere al mondo intero, in virtù del pieno inserimento della Cina stessa nel mercato mondiale e nelle reti logistiche e infrastrutturali che lo innervano. Se perciò i mercati alimentari cinesi non brillano per particolare igiene, le conseguenze di ciò possono farsi sentire anche all’altro capo del mondo. Badiou ha ragione a dire che questi processi di unificazione materiale del mondo rimarranno esposti a contingenze rovinose fino a quando non si sarà inaugurata una stagione di più intensa unificazione politica. E ha anche ragione a dire che quest’obiettivo rimarrà, da ultimo, inattingibile fino a quando saremo intrappolati nella contraddizione fra unità del mercato mondiale e moltitudine di Stati sovrani indipendenti. Ma il fatto che alcuni Stati si dimostrino, nell’arginare l’emergenza, più razionali ed efficienti di altri (alcuni Stati fanno molti tamponi altri meno…), testimonia dell’esistenza di uno spazio politico (sia a livello nazionale sia a livello delle grandi aree continentali) in cui si può riattivare quella “réflexion stratégique” di cui ha recentemente parlato Isabelle Garo studiando la proposta filosofico-politica di Badiou. Con un altro vocabolario, maggiormente intessuto alla storia del movimento operaio, si potrebbe sostenere che è necessario riattivare la dialettica fra “programma massimo” e “programma minimo”, sviluppare tutti gli interventi che, facendo pressione sulle organizzazioni istituzionali attualmente operanti, indichino una via d’uscita dall’insieme dei fenomeni a sfondo catastrofico che ormai affaticano l’esistenza tardocapitalistica. L’ultimo Badiou, quello che ha lavorato con profondità e tenacia sulle condizioni per rinnovare l’idea comunista, sembra però presentare un’altra piattaforma strategica, centrata sull’interazione fra sperimentazione politica locale e innovazione teorica globale. Vi è ancora, insomma, uno spazio intermedio fra questi due momenti?

L’analisi di tale questione ci detta altre due considerazioni. Nel testo di Badiou mi ha colpito l’insistenza sul tema della “disciplina”. L’insufficienza della “disciplina” mondiale rispetto alle vaccinazioni richiede una “rigida” o “ferma” disciplina da parte di tutti i cittadini, soprattutto per proteggere gli anziani, gli immunodepressi, i lavoratori dei servizi essenziali. Niente di strano, in un pensatore maoista, tutto sommato ancora interno a quella tradizione marxista che più volte, in Gramsci, Lenin, Lukács, ha fatto appello alla disciplina organizzativa come tratto saliente della stessa vita di partito. Diremo di più: l’appello di Badiou è tanto più meritorio quanto più si consideri che da altri settori del pensiero radicale contemporaneo provengono pericolose sottovalutazioni dell’emergenza sanitaria in corso. Ma, senza poter in questa sede approfondire la questione, in effetti cruciale, della teoria e della prassi della disciplina, il minimo che si possa dire è che quest’ultima presuppone ciò che il Sartre di L’essere e il nulla avrebbe chiamato la “ripresa in interiorità”, la riunificazione soggettiva della molteplice dispersione indotta anzitutto dall’allargamento della sfera della circolazione delle merci. Il fatto è che al momento questa “ripresa in interiorità” è compiuta soprattutto dagli apparati dello Stato, con la reviviscenza di quella solidarietà nazionale, che per altri versi era stata seppellita dalla solenne e raggelante affermazione di Margaret Thatcher per la quale “sapete, non esiste una cosa come la società. Ci sono individui, uomini e donne e ci sono famiglie. E nessun governo può far nulla, tranne le persone”. È una solidarietà nazionale “calda”, certamente più appagante e costruttiva di quella “fredda”, pregna di umori razzisti, che abbiamo osservato negli anni della crisi migratoria europea. Ma possiamo fermarci a questo, ritenendocene soddisfatti? Non sono disponibili altre forme di produzione dell’universale simbolico e politico, capaci di ispirare un nuovo entusiasmo e una nuova disciplina? A quali condizioni, in circostanze così gravemente mutate, l’idea comunista caldeggiata da Badiou può svolgere tale funzione? In questi giorni in Italia, dopo alcuni anni di quasi insostenibile ritirata sindacale, i lavoratori e le lavoratrici stanno reagendo all’impreparazione dello Stato e delle imprese nell’affrontare l’emergenza con un’ondata di scioperi spontanei. Quale prospettiva di consolidamento sociale e politico si può offrire a riguardo? Badiou sembra sorvolare su tutto ciò. Così come sembra sorvolare sugli effetti di quella crisi economica che, sebbene fosse già nel grembo del sistema capitalistico, è comunque scoppiata in concomitanza con il diffondersi dell’epidemia. Prima facie, ma è un discorso che bisognerà apprestarsi subito ad approfondire, quel che si sta verificando è una grossa svalutazione del capitale nell’insieme del suo ciclo (monetario, produttivo, nel prodotto-merce) cui però non si accompagna ancora, per fortuna, una reale distruzione del capitale eccedente, in virtù della gigantesca iniezione di capitale fittizio effettuata dalle grandi agenzie di regolazione del capitalismo mondiale (tutte le banche centrali, gli stessi Stati etc.). Ma prima o poi, come abbiamo dolorosamente constatato in Europa con l’imposizione, nella fase trascorsa tra il 2011 e il 2015, delle politiche d’austerità, quel che David Harvey chiama il connubio fra Stato e finanza tornerà a esigere un, almeno parziale, riallineamento delle dimensioni del capitale-denaro con quelle effettivamente investite nel “processo di produzione immediato” (Marx). La domanda che bisogna allora farsi rispecchia quella che lo stesso Badiou si è posto nel recente colloquio con Peter Engelmann confessando onestamente un deficit che ancora affligge la sua posizione: come si ripristina il legame tra la visione analitica del capitalismo e una ricomposizione politica da articolare su un terreno storico nuovamente percorso da crisi, devastazioni e guerre?