La psicologia dell’attore e l’io attoriale.

Sdoppiamento o estraniazione?*

                                   di Giulia Quinzi

«Credete che una stessa felicità vada bene per tutti

Che strano modo di vedere!

La vostra felicità presuppone un certo spirito romanzesco

che noi non abbiamo,

un’anima singolare, un gusto particolare.

Voi decorate questa bizzarria col nome di virtù,

e la chiamate filosofia.

Ma la virtù, la filosofia, non sono per tutti.

Ne ha chi può. Ne mantiene chi può»[1]

                                                                                                                                                                      

Introduzione. Che cos’è un comédien (attore, comico, interprete)?

 Paradoxe sur le comédien, paradosso sul commediante, tradotto poi in italiano Paradosso sull’attore, è il titolo originario di un saggio in forma dialogica scritto da Denis Diderot tra il 1770 e il 1780.

Diderot, comunemente noto per essere il curatore e l’autore principale dell’Encyclopédie, è considerato uno dei maggiori esponenti del pensiero illuminista.

Prima di procedere con l’analisi del Paradosso, e stabilire lo statuto della figura che esso riguarda, è imprescindibile, dunque, tentare una spiegazione, necessariamente sommaria, del senso dell’Illuminismo.

L’Illuminismo, al di là dell’uso semantico che ne è stato fatto per la periodizzazione storica delle varie epoche, è, prima di tutto, una temperie culturale, un esprit che si è diffuso per l’Europa intorno al diciottesimo secolo, avendo come suo centro nevralgico in particolare la Francia, e che ha visto la filosofia abbattere le barriere delle sue roccaforti isolate per diffondersi all’interno della società e cambiare il modo di pensare comune.

Preparato dal pensiero di alcuni filosofi dei secoli XVI-XVII, come Montaigne, Bacone, Cartesio, Spinoza ecc., padri spirituali del movimento stesso, l’Illuminismo non può essere considerato una scuola perché non ha un corpus di teorie comune a tutti i suoi autori. È piuttosto un’attitudine del pensiero, dalla forte connotazione etica oltre che gnoseologica, condivisa da tutti i suoi rappresentanti.

L’Illuminismo nasce quando l’uomo intuisce l’esistenza di una verità posta oltre i vincoli teologici, e scopre la libertà come possibilità di autodeterminazione entro l’orizzonte mondano. Conoscenza e azione perdono il legame con la trascendenza per svolgersi all’interno di una dimensione immanente di cui l’uomo si scopre essere il centro. L’autocoscienza della propria libertà, e delle potenzialità che essa comporta, lo porta a rivolgere il suo sguardo verso il mondo e la natura, nel cui interno si trova immerso, in direzione della quale vuole rivolgere la propria indagine, nei confronti di cui intende stabilire una relazione che gli permetta di esercitare il proprio pensiero e il proprio potere, autocoscienti e liberi.

L’Illuminismo esalta così la ragione, facoltà che permette di esercitare una comprensione e un controllo della natura, con cui si è posto in rapporto, alla ricerca di leggi che possano determinare un legame stabile e razionale tra l’io e il mondo, talché la sicurezza che ne deriva sia fonte di nuove possibilità di libertà.

L’Illuminismo allora è un progetto, un’opera di rischiaramento (Aufklärung) che la coscienza adempie nei confronti della molteplicità varia e dinamica del mondo, che essa riconosce come suo nuovo confine e orizzonte di senso. Il rapporto io-natura di cui l’uomo fa esperienza diretta, continua e immediata, deve essere interpretato attraverso regole e nessi che ne possano illuminare il senso per crearne una rappresentazione efficace e veritiera.

L’illuminismo è un viaggio che l’uomo compie tra la complessità delle cose alla ricerca di uno spirito delle leggi che possa far luce al suo sguardo per darne un’interpretazione unitaria e condivisibile.

Il fine è quello di esercitare la libertà attraverso infinite possibilità di autodeterminazione; gli strumenti sono: la critica, che affranca l’uomo dai pregiudizi, concedendo la possibilità di un’indagine libera, forse inquieta e incerta su di sé, ma fondata esclusivamente sull’esperienza, alla ricerca di una verità immanente; il dialogo, che permette il confronto tra i diversi punti di vista, che moltiplicano i punti di luce sul terreno evitando il rischio di ripetere assolutizzazioni; e la legge, che, come logos, discorso che mette in luce i legami costitutivi all’interno della natura per costruire un sistema ordinato, garantisce la libertà attraverso la creazione di un ordine legale.

Come ha ben evidenziato Heidegger in Holzwege (Nel saggio «L’epoca dell’immagine del mondo»[2]), la parola chiave per comprendere L’Illuminismo è rappresentazione.

Rappresentazione è da intendersi nel suo aspetto gnoseologico, per cui l’uomo risolve il dualismo io-mondo nell’interpretazione, ovvero nella relazione conoscitiva che li lega insieme, ricercandole leggi gnoseologiche e operative (il senso, la ragione delle cose è sempre relativa all’io del soggetto),e che si forma a partire dall’esperienza, con il concorso di tutte le facoltà apprensive umane (non solo la ragione, ma anche la sensibilità);rappresentazione è da intendersi, altresì, come espressione, ovvero condivisione pubblica del sapere acquisito, per un dialogo critico che confronti i diversi punti di vista; e rappresentazione è da intendersi, infine, come operazione, messa in atto della conoscenza appresa per un agire che permetta all’uomo di esercitare la propria libertà, di cui ha, finalmente, acquisito consapevolezza.

Ecco perché il teatro (rappresentazione per antonomasia), nel Settecento, diventa una delle manifestazioni più importanti dell’Illuminismo.

Il teatro è, in primo luogo, metafora del modo di conoscere umano, per cui ragione, sensibilità corporea e sentimento dialogano insieme alla ricerca di un accordo che dia forma regolare, stabile e condivisibile alla molteplicità di impressioni che si formano nell’uomo, nella sua esperienza, con la varietà della natura; natura che gli illuministi interpretano monisticamente come un unico organismo, caratterizzato da profonda unità, ma in costante mutamento, infinitamente polimorfo; il dinamismo naturale, infatti, genera una permanente metamorfosi delle forme prodotte, le quali perciò non sono mai stabili e definitive; il divenire evoluzionistico della natura, che coinvolge la totalità vitale degli esseri inanimati ed animati, sottende però sempre la loro continuità e connessione; la natura è un corpo unitario, da conoscere qualitativamente attraverso i suoi molteplici ed inesauribili strati, non sempre «chiari e distinti»; da interpretare nelle sue leggi intrinseche per poter meglio trarne elementi di sapere e utilità.

Così, nel processo interpretativo, la riflessione interviene per mediare l’immediatezza e la mobilità delle sensazioni, mettendole a distanza per permettere la formulazione di una conoscenza e di un giudizio dinamici ma allo stesso tempo rigorosi e razionali.

Il teatro è espressione sempre nuova di quelle leggi di cui l’uomo è alla costante ricerca nel fondo inesauribile della natura; è interpretazione rinnovata dell’accordo che egli trova tra il suo impulso sensibile e la volontà di dominio razionale.

Il teatro, poi, come scena, è metafora della moltiplicazione dei punti di vista (incarnati dagli attori) che illuminano le cose, ognuno secondo una prospettiva diversa in dialogo con l’altra; la scena è sempre rivolta verso un pubblico, metafora, a sua volta, della condivisione comune e collettiva del sapere acquisito, non solo attraverso il discorso, ma anche con il gesto, con l’azione, con il sentimento.

Il teatro incarna dunque quella dimensione operativa della rappresentazione per cui essa non è finalizzata esclusivamente alla conoscenza come contemplazione, ma prevede anche la dimensione interpretativa e realizzativa.

Infine, l’attore sulla scena è il simbolo, nemmeno così nascosto, dell’uomo che è attore nel mondo e assume un ruolo attivo e fabbrile, a partire da quelle leggi che egli stesso ha scoperto e che continua a inverare amministrando la natura e rinnovando il suo rapporto con essa.

Tornando dunque a Diderot, e al suo Paradosso sull’attore, si potrebbe affermare che una prima dimensione del «paradosso» consista nel leggere dentro e oltre l’analisi del teatro e dell’attore, la metafora di una specifica teoria conoscitiva e antropologica, la quale legge l’uomo come interprete e attore, senza dubbio protagonista, su una scena che per lui non è più soltanto costituita dal palcoscenico, ma è diventata ormai il mondo intero.

Così l’uomo è sicuramente interprete e attore (conosce, prova sensazioni, riflette, esprime e agisce); ma cosa c’entra la parola commediante?

Come nota Paolo Alatri nell’introduzione al Paradosso pubblicato da Editori Riuniti,[3] nella lingua francese esiste una sottile differenza tra i termini acteur e comédien, non presente nella lingua italiana; entrambi interpreti teatrali, l’attore è provvisto di una forte personalità propria che gli permette di interpretare solo quelle parti affini alla sua natura; il commediante, al contrario, è dotato di maggiore spirito mimetico e migliori capacità interpretative, attraverso le quali può ricoprire i ruoli più diversi. La funzione del commediante, perciò, come Diderot stesso notava, è superiore a quella dell’attore, dal momento che esige un maggior numero di qualità, e il paradosso da lui messo in luce riguarda proprio i commedianti come coloro che sono in grado di realizzare una perfetta imitazione di tutte le nature possibili.

Caratteristica che rende gli attori sublimi e li fa essere pertanto commedianti sembra così essere, per Diderot, il dono della mimesis, la capacità mimetica ed imitativa.

Ciò rimanda alla generale teoria estetica del filosofo, il quale fonda la sua definizione di arte sul concetto di mimesi. La parola è intesa da Diderot secondo due accezioni differenti; in primo luogo mimesi è imitazione, come copia di ciò che è presente nella natura; secondariamente mimesi è, però, anche imitazione della forza produttrice della natura, è poiesis che completa e perfeziona il movimento creativo naturale attraverso regole e tecniche che l’uomo fissa e che guidano il suo operare. Questa definizione di arte, intesa come strumento che rende l’uomo imitatore, interprete e ministro del movimento produttivo della natura, perfezionando le sue creazioni, deriva dall’accezione di techne che Diderot riprende dal mondo greco e in particolare da Aristotele.

L’arte, in quanto porta a termine il processo poietico che costituisce l’essenza dinamica della natura, sancisce la sua superiorità rispetto ad essa e produce sempre una nuova presentazione, diversa rispetto a quella meramente naturale; una rappresentazione inedita del movimento produttivo, un nuovo teatro; l’attore è, pertanto, l’artista per eccellenza perché interpreta ed esprime attraverso la mimesi (regolata) la natura come poiesis, e la perfeziona attraverso rappresentazioni sempre nuove.

Per meglio imitare e riprodurre tutto, è necessario che l’interprete non possieda nulla di proprio; egli deve compiere una previa operazione di annullamento del sé personale, per riuscire in una più perfetta mimesi della varietà naturale cui si rapporta.

Il genio, il talento è allora quel dono poietico, dono di farsi natura che permette all’attore (meglio, al commediante) di diventare nulla per mimare e realizzare sulla scena la forza produttiva naturale, incarnando quell’energia creativa che annulla la personalità per poter rappresentare tutto il resto.

Così l’artista che possiede questo dono non è veramente un soggetto, nel senso identitario del termine, ma è camaleontico, mimetico, moltiplicato, infinitamente plurale.

Un nuovo senso per cui il «paradosso» è paradossale lo si può trovare nel fatto che il commediante è un soggetto annullato, che si realizza quanto più esce da se stesso per abitare la molteplicità attraverso la sua energia imitativa e poietica.

Così il commediante è un interprete, in quanto conoscitore della natura, è un attore, perché si esprime agendo sulla scena come metafora del mondo, ed è, in conclusione, sommamente commediante, in quanto artista che mima la forza produttiva della natura, mette in arte la sua conoscenza e opera una condivisione del suo sapere interpretativo.

2.    Il ruolo della sensibilità e della padronanza di sé.

Tuttavia, il senso principale secondo cui va inteso il paradosso diderotiano è quello del rapporto tra sensibilità e raziocinio.

La visione del filosofo prevede infatti un auto-dominio totale da parte dell’attore che con «sangue freddo» temperi il «delirio dell’entusiasmo». «Nessuna sensibilità», afferma Diderot, deve caratterizzare l’attore; egli deve bensì essere uno spettatore «freddo e tranquillo» (del mondo), un «fedele discepolo della Natura»; deve cioè possedere la capacità di penetrare e imitare tutto, rafforzando la sua abilità di recitazione attraverso la riflessione; ciò donerà uniformità e perfezione all’interpretazione attoriale.

Deve dunque sussistere, per Diderot, una sproporzione totale del rapporto tra le facoltà umane; squilibrio a totale vantaggio della riflessione, della razionalità e dell’auto-dominio, e a discapito della sensibilità, dell’istinto e dell’emozione.

L’affermazione appare contraddittoria («paradossale») in due sensi; in primo luogo essa risulta paradossale rispetto al senso comune dell’epoca che vedeva la sublimità degli attori consistere nella loro grande sensibilità, attraverso la quale riuscivano a coinvolgere ed emozionare il pubblico a teatro; in secondo luogo, però, l’affermazione del Paradosso è anche in contrasto con quanto detto dallo stesso autore in altre sue opere, come ad esempio negli Entretiens sur le Fils naturel, in cui, di contro, egli afferma che è la sensibilità la maggior dote degli attori che permette loro di sopravanzare anche la sagacia dei filosofi.

Per comprendere questa contraddizione all’interno del pensiero di un filosofo che, d’altra parte, non può essere di certo definito sistematico, si deve però considerare l’evoluzione storica delle sue teorie. Gli Entretiens (scritti nel 1757) appartengono ad una fase della vita e delle riflessioni filosofiche di Diderot sicuramente precedente a quella del Paradosso, che può essere annoverato, invece, tra gli scritti della maturità teorica. All’interno di questo progresso speculativo, cambia il significato che Diderot attribuisce alla facoltà della sensibilità. Negli scritti giovanili, infatti, essa veniva intesa come un insieme generico e vago di operazioni differenti: la passione, l’emozione, la percezione, l’istinto, l’entusiasmo, insomma tutte quelle funzioni umane caratterizzate da immediatezza e mobilità, non sistematiche e non mediate dalla riflessione.

Nel Paradosso, invece, la parola sensibilità[4] viene utilizzata con l’accezione negativa di sensiblerie, ovvero quella sensibilità morbosa e irrazionale che il filosofo condanna aspramente, e che per lui conduce lontano dalla ricerca della verità. Altra cosa diventano invece l’istinto, l’entusiasmo e la sensibilità intesa come emotività, gusto e tatto; queste facoltà hanno per il filosofo valore conoscitivo e non vengono per nulla condannate all’interno del saggio; egli bensì ne esige il ricorso, purché sia posto sotto il controllo della ragione, da parte dell’attore per esercitare le sue capacità mimetiche, per penetrare la natura nel suo senso nascosto e per rappresentarne così un modello stabile e verace.

Egli infatti afferma nel testo:

Sarebbe un ben singolare abuso dei termini dichiarare sensibilità questa facilità a riprodurre tutte le nature, anche le nature feroci. La sensibilità, secondo l’unica accezione finora data di questo termine, è, mi pare, quella disposizione, compagna della debolezza dell’organismo, effetto della mobilità del diaframma, della vivacità dell’immaginazione, della delicatezza dei nervi, che inclina a compatire, a fremere, ad ammirare, a temere, a turbarsi, a piangere, a svenire, a soccorrere, a fuggire, a gridare, a perdere la ragione, a esagerare, a disprezzare, a disdegnare, a non avere alcuna idea precisa del vero, del buono e del bello, ad essere ingiusti, ad essere folli[5].

E poco più avanti, proprio per rimarcare la distinzione tra questa sensibilità e la sensazione come capacità conoscitiva precategoriale:

Il fatto è che essere sensibili è una cosa, e sentire un’altra. L’una è un questione di anima, l’altra di intelligenza[6].

Insomma, le doti necessarie all’attore per restare aderente alla realtà sono:

Mente lucida, una profonda capacità critica, un gusto squisito, uno studio faticoso, una lunga esperienza, e una memoria poco comune[7].

Sensazione, gusto, esperienza, critica, riflessione; sono tutte qualità imprescindibili per un’interpretazione attoriale che risulti perfetta e convincente. Fa il buon attore non la sensibilità morbosa, ma l’entusiasmo regolato e calcolato dalla ragione.

D’altra parte, l’opposizione che risalta nel testo tra delirio dell’entusiasmo ed imitazione attenta, fedele e calcolata della natura, sembra richiamare la separazione che Platone opera tra techne e manía, sebbene tale distinzione non ricada prettamente nell’ambito estetico, ma riguardi piuttosto la dimensione epistemologica della dottrina platonica.

Per il filosofo greco sussiste una differenza incolmabile tra la filosofia e la poesia, poiché esse si radicano su modelli di conoscenza opposti; la filosofia, in quanto techne, rappresenta un sapere metodico, regolato, tecnico appunto, che apre un campo oggettivo da indagare per mezzo di regole stabili; la certezza su cui si fonda permette la condivisione e la trasmissione della conoscenza e l’uniformità intersoggettiva dell’azione. La manía, invece, è un sapere che ha inizio dall’entusiasmo, ovvero dalla possessione dell’uomo da parte della divinità; egli si trova spossessato della ragione e il suo ruolo nella creazione poetica consiste solamente nel diventare il messaggero, l’ermenes, del volere divino. La manía avviene in uno stato di irrazionalità; la conoscenza su cui si fonda non è metodica e controllata da leggi, perciò non può essere ripetuta e condivisa pubblicamente. L’uomo non ha ruolo attivo all’interno del processo entusiastico, deve solo lasciarsi dominare da una forza che non gli appartiene e che è superiore rispetto alle sue capacità.

Diderot, la cui adesione sincera all’Illuminismo sancisce un’incrollabile fede nella ragione dell’uomo e nelle sua capacità di interpretare e comprendere il senso del mondo attraverso leggi che gli assicurino la possibilità di un agire libero e costruttivo, non può che maturare una definizione di arte compendiata dal senso della parola techne (attraverso la mediazione del pensiero di Aristotele, il quale applica il concetto di techne anche all’ambito del produrre oltre che a quello del conoscere, indicando con esso qualsiasi operare regolato da norme e che ha per fine un realizzare). Diderot condanna, invece, il delirio entusiastico e irrazionale della manía.

Si diceva per l’appunto che la capacità mimetica dell’attore, la sua arte, consiste in un’abilità di mediazione tra le diverse facoltà dell’uomo, talché, a partire dall’esperienza concreta e immediata della varietà naturale, egli possa pervenire alla formazione di leggi stabili, ad un modello formale ordinato, da rappresentare ed interpretare sulla scena.

Lo studio sistematico dell’arte, volto a creare un campo di conoscenze certo e stabile, che ha come oggetto non tanto il sapere quanto il sapore inteso come gusto estetico e che regola la produzione e la recezione estetica, nasce per l’appunto nel Settecento e verrà definito «estetica»[8].

Con l’estetica si cerca di conoscere come l’utilizzo congiunto delle facoltà umane, ed in particolare della sensazione e della ragione, renda l’uomo capace di esperire e valutare criticamente (attraverso regole fondate e coerenti) il bello, e fondi la possibilità di un giudizio estetico universale e intersoggettivo.

Nella produzione artistica la sensibilità che esperisce la varietà viene mediata dalla riflessione razionale, la quale trova un ordine simbolico all’interno della molteplicità delle percezioni; questa cooperazione permette all’immaginazione di creare un modello che possa emendare la ricchezza incompiuta della natura, formando nella mente dell’artista un ideale perfetto che egli può seguire durante il processo produttivo[9].

Anche l’attore, in quanto artista, segue questo metodo per interpretare i diversi personaggi. L’artista (pittore o attore) riesce infatti, attraverso la magia dell’arte, ad abbellire la natura bruta, trasportando sulla scena (o sulla tela) un prodotto studiato e progettato che si rifà ad un modello ideale perfetto, creato a partire dalla composizione delle singolari perfezioni fugaci presenti nel mondo; ciò implica un lungo e faticoso lavoro di studio e di esercizio.

L’estetica diderotiana deve molto al motto oraziano ut pictura poësis[10], che afferma che tra pittura e poesia, tra arti figurative e arti narrative esiste una vera e propria corrispondenza.

Tanto il pittore quanto il poeta, e, in questo caso, l’attore, si occupano di costruire immagini. La perfezione delle immagini consiste nella loro capacità di rappresentare un simbolo il quale riesce a legare insieme le differenti parti e i diversi livelli della composizione, cosicché dell’opera possa essere fatta una narrazione, un discorso sistematico; la fruizione e l’interpretazione è allora quel viaggio che si intraprende tra i diversi strati percettivi che edificano l’immagine, alla ricerca del simbolo che li trascende tutti e li lega insieme nell’apparire dell’opera come unità armonica.

Per quanto riguarda poi la ricezione estetica, la filosofia ha il compito di evidenziare come il giudizio critico sul bello trovi un accordo generale tra le persone; esso, infatti, si basa su quel gusto estetico espresso a partire dal sentire comune intersoggettivo, il quale si forma grazie all’utilizzo congiunto e armonico delle diverse facoltà umane; l’esperienza estetica risulta perciò universale, oggettiva, verace e condivisibile[11].

Per concludere, sarebbe interessante gettare uno sguardo allo studio della storia dell’arte che Panofsky, nel suo saggio Idea[12], compie seguendo l’evoluzione del concetto di idealità attraverso la progressione degli stili nelle varie epoche storiche.

Secondo Panofsky, nella seconda metà del Seicento la teoria estetica classicista propone una interpretazione del creare artistico come processo di imitazione della natura purificato dall’intervento dello spirito soggettivo.

L’artista a partire dallo studio del reale immagina un modello ideale nella sua mente il quale allo stesso tempo imita e idealizza la natura. Ciò realizza una conciliazione perfetta tra imitazione ed espressione, tra mondo e spirito, tra sensibilità ed intelletto.

La teoria classicista non è poi lontana dall’estetica illuminista ed in particolare dalla concezione di Diderot, così come lo scarto temporale tra i due periodi non è poi così esteso.

L’estetica moderna nasce, infatti, quando il rapporto uomo-mondo viene letto non più alla luce di un’opposizione, ma come relazione, e il bello diventa perciò quell’ideale costruito dall’immaginazione con il concorso armonico della sensibilità e della ragione, attraverso l’immediatezza dell’esperienza sensibile e la mediazione della riflessione.

3.    L’io sdoppiato, il sé estraniato in scena. La caduta delle maschere.

All’interno del Paradosso, Diderot, parlando della sua attrice prediletta, Mademoiselle Clairon, ammirata per la sua recitazione razionale e la sua capacità di dominio completo della sensibilità, afferma che sulla scena ella sia sdoppiata:

Sono sicuro che ai primi tentativi la Clairon proverà il tormento di Le Quesnoy; ma finita la lotta, una volta innalzatisi all’altezza del simulacro è padrona di se stessa e si ripete senza emozione. Come ci accade talvolta nei sogni, ella spazia tra le nuvole e le sue mani toccano i due confini dell’orizzonte; diventa l’anima di un manichino che la racchiude; tutte le sue prove glielo hanno costruito addosso. Mollemente distesa su una poltrona, le braccia conserte, gli occhi socchiusi, immobile, ella può, seguendo con la memoria il proprio sogno, ascoltarsi, vedersi, giudicarsi, e giudicare, le impressioni che susciterà. In quel momento è sdoppiata: la piccola Clairon e la grande Agrippina[13].

Lo sdoppiamento degli attori individuato da Diderot può essere letto, a mio avviso, secondo prospettive diverse.

In primo luogo, come si diceva precedentemente, lo sdoppiamento attoriale significa l’annichilimento dell’identità personale in favore dell’imitazione del movimento poietico della natura, creazione illimitata e illimitatamente varia che l’attore deve essere in grado di riprodurre sulla scena. Gli attori «se sono in grado di recitare tutti i caratteri, è perché, quanto a loro, ne sono del tutto sprovvisti»[14]. Il commediante è l’«uomo senza qualità», il soggetto senza soggetto (assente di sé per produrre tutto il resto). La sua improprietà permette l’appropriazione infinita e il suo «paradosso» consiste in uno scambio iperbolico tra nulla e tutto. Così il genio, il dono dell’arte, è un dono di niente come già dato e di tutto come da creare. Perciò il commediante, che imita la forza della natura, può essere infinitamente creativo e attivo nella rappresentazione[15].

Tuttavia, in questo senso, propriamente, l’io attoriale non si sdoppia; piuttosto si moltiplica, si eleva all’ennesima potenza della natura.

Un dettaglio interessante che Philippe Lacoue-Labarthe[16] ha notato all’interno del Paradosso sull’attore è che, come qui viene enunciato, l’attore tende ad annullare la sua personalità per interpretare molteplici ruoli, e allo stesso modo l’enunciatore del Paradosso stesso (Diderot) assume all’interno del saggio un ruolo ambiguo, potendo essere allo stesso tempo identificato sia con il Primo Interlocutore che con il narratore manifesto («Il Secondo»), ruoli che però nell’opera non coincidono, come se fossero legati a due persone diverse.

Anche all’interno del romanzo Jacques il fatalista Diderot adotta la stessa tecnica; addirittura vi si possono individuare tre livelli narrativi: la voce onnisciente del narratore nascosto, la voce sempre del narratore che diventa manifesto per dialogare con il lettore, e infine quella di Jacques che chiacchiera con il suo padrone e racconta dei suoi amori, per non parlare di tutte le storie collaterali, affidate alla narrazione di svariati personaggi che compaiono nel corso del romanzo per moltiplicare i livelli narrativi della storia ed ingarbugliarne la trama.

Dunque si può dire che nelle opere di Diderot l’attore, come il narratore, fatica a conservare lo stesso ruolo, si estrania per ricoprire più parti, per intraprendere più dialoghi, e, grazie allo scambio e al confronto con altri personaggi, può approfondire la penetrazione critica del reale e amplificarne conoscenza.

L’attore di teatro e il narratore del romanzo costituiscono una metafora perfetta dell’archetipo del filosofo illuminista, la cui coscienza inquieta è sempre in viaggio alla ricerca degli infiniti punti di luce attraverso cui illuminare il terreno, con spirito critico e desiderio di rischiaramento.

Nell’Illuminismo cadono le maschere dei rapporti statici e delle certezze indubitabili e il pensiero, che si fa eccezionalmente mobile, è in costante ricerca di nuovi legami da costituire e da mettere in luce e non si adagia mai su alcuna posizione già istituita. All’inizio del Settecento si assiste così ad un fenomeno drammaturgico importante, di cui è pioniere Marivaux e più tardi Goldoni: il passaggio dalla commedia delle maschere alla commedia delle condizioni. Nella commedia delle maschere i personaggi sono tipi fissi, personalità stilizzate con gesti codificati. Essi rappresentano la standardizzazione degli atteggiamenti degli uomini, dei loro pregi quanto dei loro difetti, i quali, portati al parossismo sulla scena, generano un effetto di comicità. Tuttavia, il grado di universalità assurta da questi tipi fissi è generica e approssimativa, e i personaggi mancano sempre di una vera e propria caratterizzazione; la psicologia che manifestano è spesso spicciola e superficiale, le situazioni sempre indefinite e irreali. Nella commedia dei caratteri, al contrario, viene abolito l’utilizzo delle maschere, e la drammaturgia acquista spessore, efficacia e forza drammatica. I personaggi e le situazioni messe in scena nascono dallo studio e dalla problematizzazione del reale; le opere prendono spunto da dinamiche e condizioni sociali concrete, non più da luoghi comuni diffusi. Le commedie diventano occasione di spunto per analizzare criticamente, e ovviamente deridere, i fenomeni, i meccanismi e le contraddizioni che coinvolgono la società. L’esigenza di analisi del reale e di sua sintesi sulla scena, avvicina il teatro alla riflessione filosofica, e la comicità ne guadagna in vigore e originalità.

Il pensiero e la cultura, in generale, nel Settecento, operano una critica costante e metodica che mette in dubbio le convinzioni dogmatiche tanto nella natura quanto in società, generando punti di vista inediti e prima impensabili. Così, in Jacques il fatalista[17] è il servo Jacques a diventare il protagonista della storia mentre il suo padrone assume una posizione subordinata, manifestando una dipendenza rispetto a colui verso il quale, invece, dovrebbe canonicamente imporre la sua superiorità.

Tuttavia, insieme alla volontà di ricoprire più ruoli e di farsi molteplice e camaleontico, Diderot esprime anche il desiderio di porre una distanza critica rispetto all’esperienza diretta. L’io non è perso nell’immediatezza sensibile dell’esperienza, lasciandosi dominare dai fenomeni, ma è lontano, spettatore critico e attento della realtà che interpreta riflessivamente e a distanza.

Nel Paradosso Diderot afferma:

Nella grande commedia, la commedia della vita, quella a cui torno sempre a riferirmi, tutti gli spiriti ardenti occupano il palcoscenico, mentre tutti gli uomini di genio siedono in platea. I primi si chiamano pazzi; gli altri, intenti a copiare le loro follie, si chiamano saggi. Solo l’occhio del saggio coglie il ridicolo di tanti personaggi diversi, lo rappresenta, e vi fa ridere di quei fastidiosi originali di cui siete vittima, e di voi stesso. Era lui che vi osserva, abbozzando un’imitazione comica e del vostro seccatore e del vostro tormento[18].

In questo passo è evidente la corrispondenza esistente, secondo Diderot, tra la figura dell’attore e quella del filosofo. Entrambi, osservando a distanza i fenomeni, possono ricavarne una teoria, un sistema di leggi a partire da cui costruire la rappresentazione. Anche il progetto enciclopedico, infatti, vede la filosofia come sommo sapere che pone tutte le scienze a distanza e comprende i nessi logici che le collegano tra loro per costruire l’albero delle conoscenze.

L’attore non rifiuta le sensazioni, né l’entusiasmo che lo colgono durante l’esperienza, tuttavia deve compiere un faticoso esercizio (un lavoro tormentoso) per riuscire a porsi a distanza dalla sensibilità eccessiva, arrivando a dominarla attraverso l’autocontrollo. Questa padronanza dei propri mezzi implica il vero e proprio sdoppiamento attoriale, l’esser fuori di sé per possedersi meglio, da lontano e con raziocinio; dunque non un vero e proprio divorzio dal sé, quanto, piuttosto, una subordinazione delle istanze inferiori alla sovranità dell’intelletto.

Ciò viene realizzato attraverso la forza dell’ironia, quella capacità che permette allo sguardo di distaccarsi dal mondo e contemporaneamente di penetrarlo meglio, con arguzia e spirito perturbante, mai quieto. Anche all’interno di Jacques il fatalista sono proprio il piglio distaccato e divertito, la forza ironica del racconto a permettere di tenere insieme i molteplici livelli attraverso cui si sviluppa la narrazione.

Resta ora da definire quale sia lo scopo del teatro, e quale effetto debba suscitare la recitazione dell’attore.

Diderot crede fermamente nella funzione pedagogica del teatro: l’attore deve creare un’impressione sullo spettatore che provochi in lui una rigenerazione morale, stimolando il culto della virtù.

Tutta la riforma del teatro auspicata dal filosofo è pensata nella direzione di incrementare le potenzialità educative delle rappresentazioni, come del resto di tutte le arti imitative, affinché esse abbiano un ruolo fondamentale nella stimolazione del senso civico e della virtù etica dei cittadini

Le premesse sociali che legittimano una tale teoria sono complesse; dal punto di vista politico la Francia prerivoluzionaria risulta essere rigidamente determinata dall’ordine imposto dall’assolutismo e dall’Ancien regime; lo Stato, tuttavia, vive una situazione di crisi, mostrando le profonde contraddizioni che scuotono l’ordine sociale: il clero è corrotto, gli aristocratici vivono da parassiti e la maggioranza della popolazione è in una condizione di miseria disperata, con le campagne che giacciono in uno stato di abbandono.

La stagnazione del sistema politico appare inoltre in contraddizione con la sfera culturale, che conosce invece un grande fermento di idee nuove e progressiste; con il diffondersi pubblico della filosofia, il pensiero diventa mobile e inquieto, formando un’opinione pubblica emancipata rispetto al dogmatismo dell’autorità regale e religiosa; la riflessione critica fondata sull’esperienza conduce alla critica dei vecchi poteri, e lo spettro della rivoluzione comincia ad aggirarsi.

D’altronde la classe borghese e gli intellettuali non sembrano accordare ancora alle classi popolari sufficiente fiducia; la possibilità di un’alleanza che porti alla rivoluzione e alla crisi definitiva dell’antico regime verrà concepita solo in seguito. Diderot afferma: «Il popolo è malvagio, ma è ancora più stupido» e «allontanarsi dal popolo o diventare un uomo migliore è la stessa cosa»[19]. Alla disistima nei confronti del ceto popolare, gli intellettuali affiancano un’accettazione fatalista del regime politico: la libertà è vista come possibilità di autodeterminazione, ma sempre all’interno dell’ordine sociale in vigore; esso può subire una scossa ma non una demolizione.

Dunque la soluzione prospettata, prima della radicalità della rivoluzione, è allora quella dell’eticità: il teatro deve stimolare un senso civile e morale che possa generare un progresso sociale e dei costumi. Prima di procedere con lo smantellamento dei poteri vigenti, gli illuministi sperano (utopicamente) nella via della riforma morale.

Naturalmente lo scoppio delle due grandi rivoluzioni dell’età moderna e contemporanea, prima francese e poi bolscevica, cambierà il quadro complessivo. In particolare, il popolo nella visione degli intellettuali non verrà più visto come la classe di cui diffidare, ma come l’autentica forza politica della trasformazione sociale.

Nuovi presupposti teoretici (tratti dalla teoria marxista), e premesse politico-sociali completamente differenti, tra Settecento e Ottocento-Novecento, in un clima europeo scandito da una forte conflittualità sociale e dall’affermazione della società di massa, tra insicurezze e contraddizioni dettate dai progressi scientifici tecnici ed economici e dagli stati che sfoderano ferocemente le loro politiche di potenza, conducono un altro autore teatrale (e forse, in fondo, filosofo anch’egli) a radicalizzare le teorie diderotiane sullo sdoppiamento attoriale fino a farle sfociare nella tecnica dello straniamento; Bertolt Brecht è l’erede tedesco e comunista di Diderot.

Tuttavia, prima di parlare della sua teoria e della sua tecnica drammatica, è necessario fare un altro accenno importante. Un altro autore russo può rappresentare l’anello di congiunzione della catena metaforica e drammaturgica che lega i due autori suddetti. Anche Anton Cechov dimostra lo stesso sguardo lucido e critico verso il reale, anch’egli promuove una visione etica, pedagogica, progressista del teatro, e, situato tra la Francia prerivoluzionaria e la Russia bolscevica, egli costituisce il tassello mancante per mettere in luce l’evoluzione delle teorie drammatiche e dei loro obiettivi in un teatro che muta con il mutare delle condizioni sociali e politiche di riferimento.

Sul finire dell’Ottocento Cechov, seguendo la scia inaugurata dal pensatore francese, mette in scena di nuovo un teatro borghese, attraverso cui può veicolare la sua visione lucida e tragicomica della condizione umana.

Anch’egli avverso tanto al dogmatismo quanto al dispotismo, con le sue opere e il suo impegno civile muove una critica alle contraddizioni che opprimono la Russia zarista della seconda metà del diciannovesimo secolo. Cechov, impastato della stessa fede nel progresso che anima gli illuministi, di cui però mette in dubbio il miope ottimismo, continua a portare avanti la loro battaglia contro l’ignoranza e l’oscurantismo retrogrado (che contribuiscono al verificarsi di fenomeni come il persistere della schiavitù e dell’arretratezza sociale), attraverso una visione acuta e critica della realtà. La convinzione che cultura e scienza possano migliorare la società, e l’adesione agli ideali di giustizia sociale, lo portano a promuovere una funzione etica e pedagogica del teatro.

L’utilizzo delle pause, all’interno della sua tecnica drammaturgica, ha il compito di creare un effetto a metà tra lo sdoppiamento e l’estraniazione; esse costituiscono dei momenti di disagio o di riflessione, in cui allo spettatore è lasciato il tempo per immaginare il non detto, il cui significato viene suggerito attraverso i gesti degli attori o i rumori scenici. Ciò permette di far percepire al pubblico tutto il contenuto latente del testo, senza tuttavia generare nello spettatore quella carica critica e rivoluzionaria che, invece, costituisce l’obiettivo del teatro brechtiano. Cechov, in una Russia ancora immobile e retrograda dal punto di vista civile e politico, ma che comincia a cogliere i segnali di un’esigenza ormai impellente di cambiamento, in diffusione per tutta l’Europa, incarna questi due spiriti contrapposti. Egli diffida ormai della proposta di un mutamento che coinvolga esclusivamente la sfera morale, né è pronto per la radicalità della rivoluzione sociale che sconvolgerà il suo paese entro pochi decenni; perciò, semplicemente, apre il racconto, non spiegando nulla ma invitando il pubblico alla riflessione e, conseguentemente, all’azione.

Anche il teatro di Brecht, come in precedenza quello di Diderot e di Cechov, è un teatro che può essere definito filosofico: esso è basato su un metodo che non riguarda esclusivamente la dimensione drammaturgica, ma è inteso come postura per conoscere e modificare la realtà. Tale metodo consiste in una problematizzazione sistematica dell’ovvio per sospendere l’ingenua fiducia nell’ordine costituito.

Il metodo brechtiano si basa sulla tecnica dello straniamento che è poi la riproposizione a livello drammaturgico dell’atteggiamento del filosofo nei confronti dell’esperienza: l’attore brechtiano, come Socrate, il pensatore prototipico, deve straniare lo spettatore, fare in modo che egli prenda le distanze e giudichi criticamente quelle che sono le sue convinzioni abituali; così viene costretto ad una auto-confutazione che genera in lui una vera e propria catarsi.

Per mettere in crisi il sapere tradizionale e generare appunto riflessione critica nello spettatore il teatro deve dunque rifiutare il procedimento mimetico, e gli attori nella recitazione devono affermare e negare insieme l’azione che compiono, dettando la condizione di nuove possibilità di agire, nascoste oltre l’apparenza della realtà.

La tecnica dello straniamento consiste nell’abbandono da parte dell’interprete dell’immedesimazione naturalistica, che trasporta lo spettatore in una dimensione di finzione e di illusione; l’attore deve, piuttosto, operare una dissociazione tra le parole che dice, le quali più che recitate devono essere citate, dunque non interpretate, e il gesto che compie, il quale rinvia, oltre il detto, ai violenti rapporti di forza che dominano l’agire sociale, svelando le strutture profonde e nascoste di dominio che regolano le trasformazioni storiche.

Ciò permette al pubblico (al popolo) di sviluppare uno spirito critico, generato dall’effetto perturbante dello straniamento, come metodo per penetrare il reale e scoprirne la struttura profonda.

In sintesi, il teatro brechtiano è un teatro di mostrazione, che non mira a dare un senso al mondo, ma a rivelarlo all’occhio critico di chi vuole coglierlo nel suo senso intimo.

Così la funzione del teatro per Brecht, come già lo era stata primariamente per Diderot, è eminentemente pedagogica, ma, differentemente rispetto al pensatore francese, con una forte connotazione politica.

Soprattutto, però, è da notare che sia lo sdoppiamento, sia lo straniamento svolgono, per i due autori, un ruolo non puramente drammaturgico quanto piuttosto gnoseologico, permettendo una conoscenza critica e penetrante del mondo, che ne colga la verità sottesa.

Infatti Brecht, al di là delle differenze teoriche dettate forse anche dalla grande distanza temporale che determina l’operare dei due intellettuali all’interno di contesti sociali molto lontani, sentì per Diderot (e per il suo approccio complesso e profondo al reale) un legame intimo, un’affinità elettiva.

Non è un caso che egli dedicò al pensatore francese la società fondata nel 1937, luogo di raccolta di esperienze e di studi teatrali[20].

4.    Conclusioni. Attore e filosofo (o poeta), una coppia problematica.

All’interno della storia del pensiero, le figure del filosofo e dell’artista hanno sempre ricoperto due ruoli differenti, in qualche modo opposti.

Già Platone, all’alba della filosofia occidentale, distinse nettamente le due categorie. Secondo il pensatore greco gli artisti (i pittori, i poeti, gli attori, gli scultori) per il loro produrre si affidano alla mimesis, concependo immagini come copie tratte dal mondo sensibile; essi sono dunque imitatori, la cui arte consiste in una mera imitazione della natura, che è a sua volta copia degradata rispetto al mondo ideale.

La filosofia platonica, infatti, si fonda su una netta e incolmabile distanza tra la realtà fenomenica (delle apparenze sensibili) e il mondo noumenico, metafisico, all’interno del quale esistono eterne le idee perfette, di cui le cose, nella dimensione empirica, copiano, solo imperfettamente, la forma.

Compito del filosofo è perciò non adagiarsi come l’artista su una conoscenza opinabile (doxa) del mondo sensibile, che è solo copia sbiadita e transeunte del mondo delle idee, ma risalire attraverso un percorso impervio (la «seconda navigazione»), oltre i fenomeni, per giungere alla contemplazione dei loro modelli archetipici, la cui visione (theoria) permette di pervenire alla vera conoscenza (episteme).

La distinzione tra artisti e filosofi, dunque, si fonda in primo luogo sulla questione del sapere e del suo statuto, prevedendo due modelli epistemologici differenti: l’arte è l’imitazione sensibile delle apparenze, la filosofia consiste nella contemplazione razionale delle idee.

Da un lato l’inaffidabilità della sensibilità, dall’altro la certezza indubitabile dell’intelletto.

La questione conoscitiva genera poi conseguenze che investono la dimensione sociale e pedagogica.

Platone, infatti, si domanda quale funzione e quale merito gli artisti, la cui arte è lontana dal vero di cui riproduce solo una copia ingannevole, possano avere all’interno della città, e in che misura è bene affidare loro l’educazione dei cittadini.

Dal momento che la sfera della morale è posta in dipendenza da quella gnoseologica (è la conoscenza del vero Bene a poter dettare le disposizioni dell’agire retto), è meglio incaricare tanto del governo della città quanto della formazione dei cittadini la classe dei filosofi, che attueranno all’interno della polis una riforma morale e dei costumi per il trionfo della giustizia e del bene pubblico.

A partire dal pensiero di Platone, rifacendosi sempre in qualche misura all’argomentazione da lui proposta, tutta la storia della filosofia ha affermato la distinzione tra la figura del filosofo e quella dell’artista, sancendo la superiorità del secondo rispetto al primo. Almeno fino al diffondersi del pensiero illuminista.

Infatti, a partire dal Seicento viene scoperta la libertà dell’uomo come possibilità di autodeterminazione all’interno del mondo empirico, finalmente considerato autonomo rispetto alla sfera soprasensibile e non derivante il suo senso da una verità trascendente.

L’uomo, così, volge il suo sguardo verso il mondo e la natura, alla ricerca di quelle leggi che possano illuminare il significato profondo delle esperienze che compie.

È allora a partire dalla relazione uomo-mondo che viene stabilito il senso vero delle cose; esso si fonda sulla conoscenza di quei nessi intimi e quelle regole che l’uomo scopre nella natura e che si riferiscono sempre alla sua personale rappresentazione del reale.

La metafisica diventa perciò un’antropologia e una teoria della conoscenza.

Secondo questa nuova prospettiva cade la differenza tra artista e filosofo.

Nel pensiero illuminista entrambi possono essere letti come metafore che dicono lo spirito mobile, critico, inquieto e penetrante dell’uomo che volge il suo nuovo sguardo verso il mondo.

L’uomo mette in crisi le sue certezze dogmatiche, per pervenire alla conoscenza di nuove leggi che può scoprire attraverso le molteplici interpretazioni che dà del reale, in un costante dialogo e confronto tra i vari punti di vista possibili.

La sua esperienza, attraverso cui viene superato il dualismo io-mondo nell’instaurarsi di una relazione, è stratificata su molteplici livelli; la dimensione corporea, la dimensione sensibile, quella passionale, quella intuitiva e quella razionale collaborano dialetticamente. L’aspetto sensitivo e quello intellettuale coesistono in ogni manifestazione della vita psichica, inseparabili ma distinte. Esse necessitano di un continuo bilanciamento, a partire dalle condizioni e dalle finalità (artistiche, pratiche o gnoseologiche) dell’operazione interpretativa. L’equilibrio raggiunto all’interno della loro cooperazione è una pacificazione sempre temporanea, sempre di nuovo da definirsi ad ogni nuova interpretazione del mondo. Tuttavia, tale difficile mediazione risulta necessaria per dare una spiegazione complessa e penetrante del reale, che colga la sua varietà qualitativa, e allo stesso tempo tenti di darne una rappresentazione legale e chiarificatrice. L’ordine che la ragione, con l’ausilio della sensibilità, rinviene all’interno del mondo non è mai stabile e definitivo, assecondando il perenne movimento organico che caratterizza la natura, la quale si esprime in un costante mutamento delle sue forme che evolvono ininterrottamente, pur nell’unità continuistica del tutto. Allora ogni interpretazione non è mai definitiva, ma è solo una delle infinite tappe del viaggio che conduce l’uomo nel cuore del reale.

Dunque, per approssimarsi ad una verità che deriva dallo scavo nel profondo della molteplicità fenomenica e che disvela le stratificazioni di senso che fondano la complessità, il filosofo, l’artista, l’attore o il poeta è colui che è in grado di vedere e di valorizzare la dinamicità delle cose attraverso la rappresentazione, che può essere prodotta con l’immaginazione, con l’espressione o con la ragione.

Egli è allora il miglior esempio di colui che, con uno sguardo critico e penetrante, illumina il senso segreto delle cose.

Il migliore strumento che egli può utilizzare è così quell’arguzia ironica che gli permette di seguire il movimento incessante della natura e, contemporaneamente, di porsi a distanza da esso per meglio mostrarlo, con una forza inquieta che perturba e distrugge il pregiudizio.

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Sitografia

Brecht: un discorso sul metodo?

https://www.doppiozero.com/materiali/brecht-un-discorso-sul-metodo (10/1/2019)

Cechov

http://lafrusta.homestead.com/pro_cechov.html (25/02/2019)

*Saggio concepito nel quadro dei lavori di esercitazione della cattedra di Storia della Filosofia dell’Illuminismo (a.a. 2017-2018), del prof. Paolo Quintili.

[1]D. DIDEROT, Il nipote di Rameau, traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti Editore, Milano 2011¹¹, p. 34.

[2]M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997.

[3]D. DIDEROT, Paradosso sull’attore, a cura di Paolo Alatri, traduzione di Jole Bertolazzi, Editori Riuniti, Roma 2007.

[4]Articolo «Sensibilità», in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri, ordinato da Diderot e D’Alembert, traduzione a cura di Paolo Casini, Editori Laterza, Bari 2003. Nell’Enciclopedia, all’interno della voce «Sensibilità», scritta da Henri Fouquet, la facoltà del sentire viene definita come la base e il principio conservatore della vita, l’animalità per eccellenza, il fenomeno più bello e singolare di tutta la natura. Esso è ciò che hanno in comune tutti gli esseri viventi, dalle piante agli esseri umani, e consiste nella proprietà di alcune parti del corpo di percepire le impressioni degli oggetti esterni e di produrre, conseguentemente, movimenti proporzionati al grado di intensità della percezione ricevuta. Ciò permette biologicamente, materialmente, la conservazione della vita. La facoltà del sentire è suddivisa in due momenti e funzioni differenti; primariamente, la sensazione consiste nell’intelligenza di tipo animale di distinguere, tra gli oggetti fisici, quelli pratici/utili e quelli dannosi; secondariamente, la sensazione consiste nella mobilità, l’espressione muta di quell’intelligenza animale, impulso che ci porta ad avvicinarci agli oggetti utili e allontanarci da quelli pericolosi.

L’unione di questi due momenti o azioni differenti (il primo attivo e recettivo, il secondo passivo e meccanico) costituisce la funzione più propria della sensazione, la quale ha sede in tutto il corpo nelle nostre molecole, costituendone la corteccia. Essa è dunque un principio esclusivamente fisico e materiale, completamente distinto rispetto all’«anima razionale», presente negli uomini, che può eventualmente aggiungere alle sensazioni corporee circostanze di tipo morale.

La sensibilità risulta dunque essere una facoltà materiale che gli uomini hanno in comune con tutti gli altri esseri viventi e che corrisponde ad una forma di conoscenza istintuale, preriflessiva, tuttavia fondamentale in quanto governa il funzionamento del corpo e garantisce la conservazione della materia. Sebbene non giunga alla concettualizzazione di tipo intellettuale, il sentimento/sensibilità è verace ed efficace nella regolazione dei rapporti sensibili e materiali tra il soggetto e il mondo esterno; essa fonda la possibilità di relazione tra io e mondo.

[5]D. DIDEROT, Paradosso sull’attore cit., p. 112.

[6]Ibid., p. 135.

[7]Ibid., p. 136.

[8]Alexander Gottlieb BAUMGARTEN, Estetica, a cura di Francesco Piselli, Vita e Pensiero Editore, Milano 1992. La nascita dell’estetica moderna (e dell’estetica come disciplina filosofica) è situata dalla storiografia a metà del XVIII secolo, quando Baumgarten ne diede la prima esplicita tematizzazione. Baumgarten, infatti, è il primo filosofo a coniare e utilizzare per primo il termine «estetica», da lui intesa come scienza della conoscenza sensitiva o gnoseologia inferiore. Egli, sulla scia del pensiero razionalista tedesco, non accetta la separazione tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale, le interpreta entrambe piuttosto secondo un approccio continuistico per cui la prima è una forma di conoscenza ancora imperfetta, non arrivata al grado di chiarezza e distinzione che l’intelletto permette di raggiungere. L’estetica è perciò quella scienza di quella facoltà conoscitiva inferiore, la conoscenza sensibile, all’interno della quale Baumgarten ammette anche lo studio di tematiche prima non considerate degne dell’indagine filosofica, come la poetologia, la retorica e la critica artistica.

L’estetica rientra sempre all’interno della gnoseologia, non costituendo un campo di studio indipendente rispetto a quello del conoscere umano, essa tuttavia, come gnoseologia inferiore, ha valore intrinseco e non meramente preparatorio rispetto alla logica, e riguarda quelle rappresentazioni chiare e confuse, la cui perfezione è la bellezza, a cui deve essere riconosciuto valore e significato universali. Scopo dell’estetica è dunque quello di mettere in luce le leggi dell’organizzazione sensibile del conoscere, e quindi di analizzare quella particolare perfezione della conoscenza sensibile che si realizza nell’arte e nella bellezza. Baumgarten mette in luce che il conoscere non è spiegabile in termini esclusivamente razionali e quindi rivendica la legittimità della rappresentazione sensibile come forma di conoscenza. Non si ha a che fare con un settore autonomo dell’esperienza, quello del bello e dell’arte come tali. Arte e bellezza sono piuttosto un momento importante di una riflessione generale sull’esperienza, dunque sul conoscere. Ciò che è detto bello, nell’Estetica di Baumgarten, non è solo questione di sentimenti. Il bello appare piuttosto come un modo preintellettuale di pensare. Sull’insieme di questi temi cfr. M. MODICA, L’estetica di Diderot, Roma, Pellicani Editore, 1997.

[9] Articolo «Bello», in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze delle arti e dei mestieri cit. (in L’estetica dell’Encyclopedie, a cura di Massimo Modica, Roma, Editori Riuniti, 1988 p.117): «Chiamo dunque bello fuori di me tutto ciò che contiene di che suscitare nella mia mente l’idea di rapporti; e bello in rapporto a me tutto ciò che suscita questa idea». Il Bello è dunque, per Diderot, autore dell’omonimo articolo dell’Enciclopedia, quella qualità comune tra gli oggetti (e presente nella natura in forma graduale, mai omogenea) che suscita nella mente del soggetto che ne fa esperienza l’idea di rapporti. La bellezza risulta dunque essere una caratteristica sostanziale dell’oggetto, ma non per sé, bensì in relazione alla sua rappresentazione operata dal soggetto. La bellezza è proporzionale al numero di idee di rapporti suscitati all’interno dell’intelletto dell’uomo, rapporti che il soggetto scopre considerando l’oggetto in sé stesso (bello reale) o in relazione al resto della natura (bello relativo). Per questo, l’artista, in quanto imitatore della «bella natura», deve essere un profondo conoscitore della realtà, in modo da esser capace di rappresentare, con la sua arte, gli oggetti più belli tra quelli mai osservati e conosciuti; così le sue opere potranno essere sommamente belle, ovvero in grado di suscitare il maggior numero di rapporti nel fruitore che le contempla.

[10]ORAZIO, Ars Poetica, v. 361.

[11]Immanuel KANT, Critica del Giudizio, traduzione di Alfredo Gargiulo, Editori Laterza, Roma 1997.

La più compiuta teoria estetica prodotta dal pensiero illuminista è quella espressa da Kant nella Critica della facoltà di giudizio. Egli riprende le teorie sul bello e sull’esperienza estetica dei suoi predecessori e le porta a compimento in un sistema completo e coerente.

La critica della facoltà di giudizio, per Kant, risponde all’esigenza di aprire una sfera di mediazione tra i due domini apparentemente incomunicabili del conoscere e dell’agire, governati rispettivamente da determinismo e necessità e da moralità e libertà. Questa Critica si occupa di individuare i principi a priori (vagliandone limiti e possibilità) del sentimento e del gusto estetico, completando la ricognizione delle facoltà dell’animo umano già iniziata con le due precedenti Critiche. Il giudizio deve essere caratterizzato dall’autonomia, rispetto alle altre facoltà umane, e dall’universalità, una sorta di concettualità che fonda la possibilità di comunicabilità, così da poter costituire un campo di indagine nuovo ed indipendente dai precedenti. Kant chiama il tipo di giudizio oggetto di analisi di questa Critica, «giudizio riflettente», attraverso cui appunto il soggetto riflette sul sentimento suscitato in lui dall’oggetto esterno, in quanto esso corrisponde o no alla sua esigenza di finalità. Il giudizio riflettente, a differenza di quello determinante, di cui tratta la Critica della ragion pura, non possiede l’universale come forma pura a priori, ma lo deve ricercare muovendo dal particolare dell’esperienza.

In particolare, nella Critica del giudizio estetico, prima parte dell’opera, Kant afferma che il carattere di universalità del gusto estetico non deriva da una concettualità categoriale, ma esso si fonda sul «libero gioco» esistente tra l’immaginazione e l’intelletto, accordo armonico che produce un senso di piacere a cui corrisponde la bellezza. Tale libero gioco, che è valido e uguale per ciascuno, è una sorta di senso comune, una regolarità senza legge presente in tutti gli uomini, che permette la fondazione intersoggettiva del giudizio estetico.

[12]Erwin PANOFSKY, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, a cura di Edmondo Cione, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

Nella storia dell’estetica tracciata analizzando il cambiamento semantico del concetto di «Idea» attraverso le diverse epoche e culture, Panofsky individua, nella seconda metà del XVII secolo, ed in particolare con la dottrina di Pietro Bellori, un nuovo uso concettuale del termine; l’Idea, per il Classicismo del Seicento e Settecento, sorge a partire dalla contemplazione del mondo sensibile, ma si manifesta all’artista in forma sublimata. Il Classicismo elabora una teoria estetica per cui l’opera d’arte è forgiata come imitazione né della realtà esclusivamente sensibile, né di quella puramente intelligibile, ma diviene un originale composto di esperienza e idealizzazione razionale: l’Idea della bellezza è definitivamente trasformata in Ideale di bellezza. La necessità dell’evento dell’esperienza sensibile è così mitigato e reso complementare ad una vera e propria superiorità delle facoltà immaginative dell’uomo sulla Natura: in questo modo si è compiuto il passaggio da un’estetica descrittiva ad una normativa. Il rapporto tra soggetto e oggetto è armonizzato in una teoria che cala il divino nell’artista, il quale osserva e studia la natura e, a partire da quell’esperienza, la corregge in autonomia.

[13]D. DIDEROT, Paradosso sull’attore cit., p. 78.

[14]Ibid., p. 118.

[15]P. LACOUE-LABARTHE, Diderot, il Paradosso e la mimesis, in Diderot e il demone dell’arte, a cura di Michele Bartolini, Mimesis Edizioni, Milano 2014.

[16]Ibid.

[17]D. DIDEROT, Il nipote di Rameau – Jaques il fatalista, traduzione di Lanfranco Binni, Garzanti Editore, Milano 2011¹¹.

[18]D. DIDEROT, Paradosso sull’attore cit., p. 80. Il tema della genialità, come capacità di guardare a distanza per comprendere il senso profondo della vita, nella molteplicità di strati e connessioni, è molto caro a Diderot. Nell’articolo «Genio» dell’Enciclopedia il philosophe elabora una definizione completa di ciò che secondo lui è la peculiarità del genio, ciò che lo distingue dalle persone comuni. Così afferma (in L’estetica dell’Enciclopédie cit., pp. 143-144): «Dal modo in cui le idee si ricevono dipende il modo in cui si riproducono nella memoria. L’uomo, gettato nell’universo, riceve idee da tutti gli esseri, con sensazioni più o meno vive. La maggior parte degli uomini provano sensazioni vivaci soltanto dalla percezione di oggetti che hanno immediata attinenza ai loro bisogni, gusti, ecc. Tutto ciò che è estraneo alle loro passioni, che non ha alcuna analogia con il loro modo di vivere, essi non lo colgono, o lo vedono per un attimo solo senza sentirlo, o per dimenticarlo sempre. L’uomo di genio è dotato di un animo più capace che, sensibile a tutti gli esseri, interessato a tutto ciò che c’è in natura, non riceve alcuna idea che non susciti un sentimento; tutto lo anima e tutto vi si conserva. Se l’oggetto ha impressionato l’animo, l’impressiona anche il ricordo; ma nell’uomo di genio l’impressione va più oltre: egli rammenta le idee con maggiori vivezza di quando le ha ricevute per la prima volta, perché a queste idee si ricollegano mille altre più atte a far nascere il sentimento». Il genio è dunque, per il filosofo, quell’uomo in grado di penetrare a fondo la realtà, scoprendone le connessioni profonde che la costituiscono e che permettono di giungere ad una conoscenza di essa più complessa e più intima; la qualità che rende il genio tale è la sensibilità, come capacità di essere stimolato da tutto, non limitandosi ai soli oggetti di immediato bisogno; viva e mobile curiosità, interesse vivace. Egli, poi, è in grado di restituire questa conoscenza comprensiva ed acuta che ha della natura, attraverso un produrre (filosofico o artistico) guidato da un’immaginazione energica, che si rifà alle regole del sublime e del grande. Le sue opere risultano così sorprendenti, chiaroveggenti nella comprensione della realtà che dimostrano di avere. Spesso perciò, come Diderot osserva, esse non possono essere comprese dalla contemporaneità, slanciandosi verso l’avvenire, verso la «Posterità».

[19] Cit. in P. Szondi, Tableau e coup de théâtre, in Diderot e il demone dell’arte cit., p.118.

[20]Roland BARTHES, Diderot, Brecht, Ejzenštejn, in Diderot e il demone dell’arte, a cura di Michele Bartolini, Mimesis Edizioni, Milano 2014.