Linguaggi e tonalità emotive: tra crisi sociale e facebook
Roberto Fai
Rispetto ai più qualificati interventi di Paolo Ercolani – La frantumazione del quarto potere (e la genesi del quinto) – e di Paolo Quintili – La comunicazione senza comunità. Brevi considerazioni sul senso dimidiato di una parola –, entrambi pubblicati su Filosofia in movimento, vorrei tornare sul tema racchiuso nel trittico “comunicazione, linguaggio e conoscenza”, pur seguendo un percorso laterale, o meglio: tentando di rappresentare gli effetti di quella complessa fenomenologia sociale che internet e il web – il volto “tecnico-scientifico” della globalizzazione – hanno irreversibilmente determinato nel corso di questo ultimo quindicennio.
Sino a quindici anni fa circa – facebook non c’era ancora, i social erano al loro stato nascente –, il detto “siamo tutti allenatori della nazionale!” era metafora polemica, a volte irrisoria, con cui si eleggeva il calcio a tema “idealtipico”, quale ambito di libero confronto, attraverso cui ciascuno esprimeva un’opinione – su: partita, valore dei giocatori, errori commessi, arbitro “venduto”, allenatore capace, ecc. Era implicito il giudizio di superficialità su tali opinioni, espresse in libertà – che oltre il calcio potevano riguardare la politica o altro, per intenderci! E non a caso venivano considerate tali, assunte come paradigma di giudizi di una certa superficialità, restando peraltro confinate in luoghi topici: tra amici, oppure, ironicamente esemplificate nel detto “discussioni da bar”, o “da fermate del bus”.
Come noto, infatti, ancora sino ad una decina d’anni fa – forse poco più –, le relazioni socio- culturali trovavano la forma prevalente di espressione attraverso i corpi di rappresentanza e di mediazione (partiti, associazioni, sindacati, organismi professionali, centri vari, ecc.), pur fragili nella loro declinante “solidità” – la liquidità li avrebbe resi evanescenti di lì a poco –, che fungevano da filtro della parola proferita. L’opinione pubblica (confortata e conformata da stampa, radio e TV) si consolidava nella sua ricca pluralità, divisiva o meno, essenzialmente nei classici luoghi di incontro – assemblee, convegni, incontri tematici, manifestazioni culturali, politiche e/o sociali, ecc. – che costituivano un luogo selettivo di “presa di parola”. Si trattava di occasioni pubbliche ed aperte, e se a quegli incontri c’eri, o decidevi di parlare – se avevi qualcosa da dire –, oppure condividevi o meno i punti di vista emersi nel confronto, che spesso si trasformavano in opzioni condivise o decisioni. Restava fuori/esterno l’altro spazio residuale, ma molto più ampio: appunto, le “discussioni da bar”, con le libere opinioni sul tutto.
Nel volgere di poco tempo, da quei luoghi sociali, culturali, politici, associativi di confronto, pur ricchi di partecipazione – ma non tali da racchiudere l’universo del corpo sociale, sia chiaro –, si è passati, grazie ad internet e al web, a forme di “telepresenza” e immediatezza dei social, tra cui facebook, imparagonabili rispetto ai primi, sopra definiti solidi. In coincidenza con la crisi di legittimità/riconoscimento delle classi dirigenti, di erosione delle forme classiche di “rappresentanza” – un fenomeno repentino che potremmo declinare nei termini di evaporazione della politica –, il ruolo pervasivo dei nuovi dispositivi tecnici del web ha iniziato a connotare e a eseguire la presa in carico, diretta e puntuale, dei soggetti, scandendo oramai (quasi) interamente e integralmente la nostra vita. Il carattere globale della navigazione collettiva nella rete ha immesso dentro un inedito e virtuale caleidoscopio illusionistico l’intero universo delle soggettività: sia coloro che lentamente vedevano evaporare i classici luoghi, “solidi”, di incontro, sia coloro che in quei luoghi solidi non avevano mai messo piede, protagonisti delle ireniche discussioni da bar. Da questo momento in poi, la distinzione tra dentro/fuori; interno/esterno è irreversibilmente terminata e si è entrati tutti con facilità e rapidità nell’universo del web: dai social a facebook. Cessava così l’epoca dei filtri selettivi, dal momento che internet e il web sono diventati il nuovo Panopticon che ha inglobato tutti noi, sì da generare – con un’espressione che può forse apparire un azzardo – una sorta di biopolitica del virtuale.
La crisi finanziaria mondiale del 2007 segna inoltre la data paradigmatica in cui tale processo di immissione integrale del mondo nella trasparenza delle sue telerappresentazioni – per richiamare Jacques Derrida –, ha fatto sponda con una drammatica crisi delle condizioni materiali di estese fasce di popolazione in tanti paesi: disoccupazione crescente, forme esplicite di diseguaglianze sociali, impoverimento dei ceti medi. Da qui, una miscela esplosiva determinata dai due effetti della globalizzazione: mentre il mondo veniva unificato in «presa diretta», facendo evaporare le frontiere comunicative tra dentro/fuori, interno/esterno, tuttavia questo stesso mondo materiale era ed è, ancora più vistosamente – e così si mostra –, segnato da una frontiera che ha reso via via più pervasivo lo iato tra “alto” (i pochi, ricchi e potenti, che possono) e “basso” (i moltissimi che arrancano o si disperano). Sino all’estensione – resa ancor più visibile – di quella condizione che, per comodità ermeneutica, si può esemplificare nella profonda divaricazione tra Élite e popolo – effetto dell’evaporazione della politica di fronte al “finanzcapitalismo”. Ha così preso corpo all’interno delle società una dinamica di inquietudine sociale, sino a forme anarchiche e diasporiche di contestazione politico-istituzionale verso le classi dirigenti, dove moltitudini senza rappresentanza esplicitano o rivendicazioni frammentarie, o disordinate rivolte. Oppure forme di indifferenza, o disincanto: forme reattive e volto speculare di una sensazione di impotenza. In altri termini, il precipitato di un’inedita condizione che Zygmunt Bauman aveva plasticamente espresso nel paradosso di una soggettività costretta a ricercare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche.
Tra crisi sociale diffusa e solitudine dell’immediatezza comunicativa del web, parole, linguaggi e opinioni sembrano agitarsi in forma sempre più tagliente e corrosiva, al limite del rancore e del risentimento – le prevalenti stimmungen, peraltro già confermate dalle diffuse ricerche sociologiche tese a cogliere la fenomenologia sociale prevalente in questi anni recenti. Anche perché nella virtualità del web la “parola” viene esplicitata nella sua inevitabile riduzione semplificatrice, oltre che nella sua immediatezza umorale e polemica. In breve, non solo siamo diventati «tutti allenatori della nazionale», ma anche «tutti virologi ed esperti di vaccini»; «tutti esperti di scie chimiche (sic!)» ed anche tutti esperti di scienze varie; e via dicendo: ci manca poco che qualcuno torni a riproporre l’annuncio scherzoso della nostra infanzia: «ho visto un asino che vola!». Non escluso quel «siamo tutti cittadini!» che, ammantata del democraticismo à la Rousseau, costituisce la ragionevole ideologia del movimento populista del terzo millennio italiano. Pur se le vistose e ancor più marcate diseguaglianze sociali dei nostri giorni rendono necessarie e legittime le rivendicazione di una vera e profonda eguaglianza sostanziale.
Sta di fatto che neopopulismo e web formano un plesso che si costituisce nel loro simultaneo accadere, mentre le profonde e materiali diseguaglianze che la crisi del 2007 ci ha scaricato addosso fanno da perturbante detonatore socio-culturale, oltre che politico, di una sorta di fenomenologia reattiva. Reattiva, proprio così: perché, da una parte, riaffiora in segmenti del corpo sociale una latente paura di fronte a mutamenti ed eventi complessi e inediti – si pensi all’immigrazione di massa, al rapporto con l’altro, con l’estraneo, col diverso. Paura agitata e alimentata da strumentali iniziative politicamente reazionarie. Dall’altro, proprio nel combinato disposto che lega la pervasività totalizzante di web e social alla crisi di prospettive che impedisce ogni proiezione verso un’idea di futuro – quel “presentismo immobilizzante”, di cui parla la sociologia contemporanea: anche questo effetto della spazializzazione dell’esistenza e dell’esperienza che ha prosciugato la dimensione del tempo e della temporalità –, agiscono e tornano prepotenti certe visioni di “complottismo” che hanno esteso il loro raggio d’azione e la loro influenza culturale. Da qui, gli effetti pervasivi e vistosi di quel neo “cospirazionismo” che alberga dentro le forme di analfabetismo funzionale contemporaneo, che, con un surreale effetto boomerang, dilagano adesso nel web e nei social come la forma inedita e surreale di “discussioni da bar”.
Sino a determinare una conseguenza ancor più vistosa, al punto che oggi non si fa parte o non si entra più dentro specifiche “comunità linguistiche” in punta di piedi, per aver acquisito competenze o maturato, con studi seri, un determinato specialismo disciplinare, una determinata esperienza tecnico-scientifica, bensì è l’idea stessa di “comunità linguistica” ad essere messa radicalmente in discussione, di fronte alla (pretesa della) avvenuta con-fusione tra episteme e doxa, al venir meno della radicale, eterna distinzione tra scienza ed opinione. Tutti possiamo parlare di tutto, vantandone ragione! Certo, è risaputo che il percorso di costruzione e di affinamento “epistemico” di un campo disciplinare (quale che sia) è il frutto di un progressivo lavoro di ricerca/scoperta sperimentale e d’inventio – a volte, anche frutto di casuali e fortuite circostanze impreviste –, dentro cui possono alternarsi ipotesi poco o nulla fondate, subito accantonate, dal momento che i cambi di paradigma, al suo interno, coinvolgono quanti appartengono a quella specifica “comunità linguistica”: le opinioni non hanno ospitalità, semmai ne restano fuori. Diciamo subito, per evitare equivoci: lungi da noi l’idea di voler ripristinare una sorta di nostalgica “aristocrazia intellettuale” – ci mancherebbe! Siamo infatti “vaccinati” e ben consapevoli che l’operazione decostruttiva in grado di fare sempre il “contropelo” al plesso sapere/potere – la lezione genealogica di Foucault non è passata invano! – costituisce opera critica inderogabile da esercitare für ewig, nella consapevolezza che ogni “sapere”, o meglio: qualche detentore di un sapere può essere sempre colto dalla tentazione di trasformare i giochi di verità in forma di “potere”: ma non tarda ad essere smascherato!
Ma ciò che è in atto come singolare metafisica influente del nostro tempo – ed è ciò che qui proviamo a evidenziare – è la pretesa di sottoporre la validità degli approdi specialistici/disciplinari ad una ricorrente istanza di “referendum popolari”, sdoganando l’incompetenza come inedita e surreale «forma di governo politico». Tutto ciò non è altro che l’esito concreto, materiale e fattuale determinato da internet e dai social. E così come Umberto Eco, poco più di cinquanta anni fa, intravvedendo gli inevitabili progressi della scienza e della tecnologia, aveva suggerito di far nostro il ben noto interdetto consegnato nel motto: «né apocalittici, né integrati» –, allo stesso modo, in una delle sue ultime conferenze, l’illustre studioso poteva affermare, con il suo consueto realismo/disincanto, che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli». È questo l’inevitabile volto doppio, ancipite, in cui si mostra la nostra attuale condizione d’esistenza comunicativa e relazionale. È come se, oggi, per analogia con la condizione dei primi decenni del XX secolo, ciò che mobilita integralmente e irreversibilmente le soggettività nel nostro spazio/tempo è – per parafrasare Ernst Jünger – la Comunicazione totale: come destino, appunto. Tenendo bene a mente che, dentro e attraverso essa, diventa stridente e insopportabile la visione piena ed universale di laceranti e drammatiche diseguaglianze materiali nel mondo. Nel paradosso per cui, mentre la comunicazione tiene tutti insieme, sappiamo bene che, nell’epoca dei “diritti umani”, torna a riaffermare le proprie ragioni il detto di Goethe, secondo cui «l’umanità non giunge mai tutta insieme». Da qui, da questa contraddizione, non si esce, con la sola virtualità. Occorre pertanto prendere atto di tutto ciò, provando a riaffermare le ragioni forti e intelligenti per la costruzione di una vasta e consapevole controffensiva culturale, oltre che politica. La strada è lunga, e peraltro non si sa come andrà a finire.