Mario Reale, Tre saggi su Rousseau. Proprietà, volontà generale, politica (Castelvecchi, 2019)

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di Francesco Marrone

(Docente di Storia della Filosofia moderna e di Filosofia del Rinascimento – Università degli Studi di Bari)

A pochi mesi dalla pubblicazione, Tre Saggi su Rousseau. Proprietà, volontà generale, politica di Mario Reale è già quasi un classico. Non soltanto, evidentemente, per i temi che affronta – i quali si presentano senza dubbio decisivi nel complesso dispositivo del pensiero rousseauiano –, ma anche e soprattutto perché costituisce il completamento di un’indagine sul pensiero politico di età moderna che Reale ha condotto per oltre un trentennio. Da Machiavelli a Hobbes, da Grozio a Pufendorf a Locke, pochi sono gli autori trascurati in questa consistente e significativa indagine. Fra tutti, nondimeno, Rousseau rappresenta un’autentica eccezione: più di ogni altro, il suo pensiero ha catalizzato l’interesse di Mario Reale, che è tornato a indagarne le implicazioni teoriche e dottrinali a più riprese, con approcci differenti e a partire da prospettive interpretative sempre suggestive e originali.

Questo appassionato lavoro su Rousseau aveva invero prodotto un rimarchevole risultato già nel 1983, quando Reale aveva dato alle stampe una vasta monografia dedicata all’evoluzione del pensiero politico rousseauiano. Le ragioni della politica. Jean-Jacques Rousseau dal Discorso sull’ineguaglianza al Contratto (Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983) costituiva a un tempo un punto di arrivo e un punto di partenza. Da un lato, concludeva un’intensa stagione di ricerche intorno a Rousseau e alle implicazioni etico-politiche del suo pensiero; dall’altro lato, poneva le basi per ogni successiva indagine sul pensiero rousseauiano, tematizzando con chiarezza la necessità di ricorrere, anche e soprattutto nel caso di Rousseau, a un modello di indagine genealogica che permettesse di cogliere le opzioni dottrinali del ginevrino nella loro evoluzione diacronica.

Alcune delle motivazioni emerse nella monografia del 1983 sono al centro dell’indagine condotta da Mario Reale nei Tre Saggi su Rousseau: essi, infatti, presuppongono implicitamente l’intero lavoro condotto dall’autore in quel decisivo contributo e fanno propria l’impostazione genealogica che si era già allora rivelata decisiva. Se è vero che questo nuovo lavoro su Rousseau presuppone il precedente, non per questo, tuttavia, esso si limita a riassumerne le conclusioni. Tutt’altro: è lo stesso autore, del resto, a osservare che ai temi trattati nei Tre Saggi su Rousseau ora dati alle stampe non era stato destinato sufficiente spazio nella monografia del 1983 (anche a dispetto, per altro, della loro indubitabile centralità nel quadro del pensiero rousseauiano).

Il volume di Mario Reale include tre corposi saggi che indagano alcuni dei temi essenziali (se non quelli in assoluto fondamentali e fondanti) affrontati da Rousseau nella sua carriera: il tema della proprietà privata, la nozione di volontà generale, la funzione e il significato della politica negli scritti rousseauiani. Per quanto il volume si presenti snello e leggibile, gli spunti di riflessione dell’autore sono numerosi e carichi di implicazioni. Non potendo offrirne in questa sede una presentazione complessiva, ci soffermeremo su alcuni punti essenziali, cercando di restituire in sintesi, e con una precisione almeno accettabile, la profondità delle indagini proposte da Reale. E certo, a tal proposito, un aiuto vien proprio dall’autore, che nell’Introduzione al volume individua nel primo saggio, quello dedicato alla proprietà privata, la parte principale del suo attuale contributo, nonché l’auspicato completamento delle indagini precedentemente condotte a proposito del passaggio dallo stato naturale alla condizione pattizia.

La centralità del tema della proprietà privata non è, però, legata unicamente alla sua valenza teorica (che è manifesta e non richiede argomentazione). Essa, come detto, è anche connessa a un differente elemento, che si potrebbe definire ‘storico-ermeneutico’. L’interpretazione della proprietà privata in Rousseau non è univoca, ma muta e si trasforma nel corso della vita intellettuale del filosofo. Per questa sua intrinseca mobilità, il plesso problematico della proprietà privata permette di misurare il tenore e l’importanza delle evoluzioni che il pensiero di Rousseau ha subito nel tempo. La proprietà privata è, dunque, tema centrale dal punto di vista teorico-dottrinale, ma lo è ancor di più se considerato nella prospettiva dell’interprete, che può leggere nella sua evoluzione i mutamenti e gli sviluppi dell’intera speculazione rousseauiana.

Al principio degli anni Sessanta, precisamente nell’Emile, Rousseau propone un’interpretazione sostanzialmente ‘positiva’ della proprietà privata. In questa fase, egli mette in relazione la sua istituzione con la costruzione della personalità infantile: il senso della proprietà riflette, nel fanciullo, la necessità di porre se stesso come centro di interessi e di conservare il proprio sé conformemente a quel che si usa definire lo spirito di auto-conservazione. Addirittura, in questa fase, la proprietà identifica la peculiare modalità attraverso la quale il fanciullo si rapporta a ciò che si colloca al di fuori della sua coscienza: la proprietà è ciò di cui il fanciullo dispone al di fuori di sé.

Il rapporto tra il fanciullo e la proprietà è dunque governato, a questo livello, da un’assoluta naturalità. In realtà, la relazione che si instaura tra il fanciullo e le cose è un rapporto inverso rispetto a quello che insiste nel caso della cosiddetta proprietà privata. Qui, infatti, non vi è alcuna appropriazione del mondo da parte del fanciullo, ma – al contrario – una sorta di cessione del sé verso l’esterno. L’io e il suo ambito di azione costituiscono ancora un’inscindibile unità (pensata da Rousseau come il vincolo tra l’io e il proprio corpo), nella quale le leggi dell’asservimento strumentale non si sono ancora costituite. Qui, insomma, la proprietà si presenta ancora estranea a quelle che Rousseau qualificherà, senza remore, come le aberrazioni dell’accumulazione e del possesso.

Com’è noto, tuttavia, questa interpretazione ‘positiva’ della proprietà, pensata quale ideale prosecuzione del sé nel mondo, è accompagnata da un’interpretazione assai più critica che il filosofo matura già alla metà degli anni Cinquanta, allorché pubblica, nel 1755, il Discours sur l’économie politique e il Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes. Questi scritti – che precedono l’Emile di almeno un lustro – propongono un’assai differente ermeneutica della proprietà privata. Tra i due approcci, tuttavia, non vanno individuate contraddizioni o palinodie. Il punto è che in questi scritti – i Discours, da un lato, e l’Emile dall’altro – Rousseau ‘lavora’ per così dire su livelli differenti, che sarebbe fuorviante, se non del tutto erroneo, porre in concorrenza fra loro. Il Rousseau dell’Emile insiste principalmente sull’educazione alla proprietà come dato formativo assoluto, vale a dire come cardine di un’intera parte dell’educazione del fanciullo. In maniera diametralmente opposta, il Discours sur l’économie politique e, soprattutto, il Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes insistono sulla legittimità dell’accaparramento proprietario, inteso in termini di prima occupazione, e sui modi propri di questo accaparramento. Dal che consegue che ciò che Rousseau contesta in questa fase non è, in generale, la proprietà privata (che potrebbe pure vantare, entro certi limiti, una sua propria legittimità), ma la serie di ingiustizie e di abusi che essa ha reso possibili generando nell’uomo la tendenza all’appropriazione e all’arricchimento privi di regole e di equilibrio.

Comunque stiano le cose, è evidente che negli anni Cinquanta, in particolare nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (d’ora in poi Discours), è elaborata una comprensione del tutto differente della proprietà privata. Non più legata alla persona/fanciullo, di cui sarebbe in qualche misura la manifestazione transeunte o estrinseca, essa è considerata unicamente in ordine agli effetti socio-politici ed economici che è in grado di produrre. Considerata in questa prospettiva politico-economica, la proprietà privata assume dunque un significato del tutto diverso, questa volta ‘negativo’: essa si presenta agli occhi di Rousseau come il principale fondamento della disuguaglianza. Liberata da qualsivoglia funzione educativa, la proprietà privata si presenta infatti come la cristallizzazione del fenomeno appropriativo in ragione del quale l’uomo – qualunque uomo – stabilisce la propria potestà sulla terra e sui suoi frutti. In questa prospettiva, di conseguenza, l’istituzione dell’enclosure è davvero l’atto primigenio in virtù del quale l’uomo acquisisce la tendenza a includere nella sfera del (proprio) possesso l’estensione della terra e la totalità delle cose che la abitano.

In questa radicale interpretazione della proprietà, quest’ultima si lascia ricondurre al precipitato di un processo di appropriazione/accumulazione – ove invece, nello stato di natura (o ancora, al limite, in quella condizione ‘limbica’ che è del fanciullo nell’Emile), la proprietà traduce la cura nei confronti della terra, il lavoro che di essa si occupa, l’applicazione del sé nella direzione delle cose.

La critica di Rousseau non potrebbe essere più netta. Ai suoi occhi la disuguaglianza tra gli uomini si radica in questa mutazione del senso della proprietà. È a partire da essa che nella storia si è imposta la disuguaglianza come misura essenziale dei rapporti sociali: le dinamiche padronali-servili trovano nell’istituzione della proprietà privata il loro ultimo radicamento. Ma questo cambiamento sociale e politico è ancora, a sua volta, l’esito di una revisione profonda dell’interpretazione della proprietà. Il passaggio all’appropriazione/accumulazione (che è essenza della proprietà privata intesa in senso ‘negativo’) inizia nel momento stesso in cui si smette di concepire la proprietà come l’esito della cura, del lavoro, dell’applicazione, e si opta di conseguenza per una logica proprietaria che, per essere veramente tale, si declina come un processo di accaparramento seriale.

Questa negatività, che Rousseau individua al fondo della proprietà privata, non è però l’oggetto di un processo che possa essere invertito. Da un lato, infatti, la proprietà privata si presenta in Rousseau come un vero e proprio ‘destino’ della società civile – o come la peculiare deriva alla quale essa non può mai sottrarsi (poiché intrinsecamente radicata nella sua natura). Dall’altro lato, poi, quello stato di natura al quale Rousseau fa spesso riferimento, e che costituirebbe il punto zero del processo appropriativo, designa soltanto un orizzonte teorico finalizzato a rendere intelligibili le aberrazioni che la proprietà privata inevitabilmente porta con sé. Come puntualmente rileva Mario Reale, infatti, lo stato di natura esprime non tanto una condizione, ma una sorta di ‘nostalgia’, sempre viva nell’umano, che lo porta a conoscere con maggiore lucidità la propria attuale condizione.

Pur ammettendo l’idealità dello stato di natura, nondimeno, Rousseau sa perfettamente che la dispersione del rapporto originario del sé con il mondo esterno si è alterato nella transizione (reale o ideale, poco conta) dal ‘naturale’ al ‘pattizio’. La questione della proprietà privata si gioca tutta in questo delicato passaggio, allorché la natura cede il passo all’artificio politico-normativo qualificandosi così come l’oggetto sottaciuto (e, forse, mai del tutto valorizzato) di un autentico patto. In questa direzione il contributo del Contrat social appare indubitabilmente decisivo. Del resto, non è affatto casuale che i principali riferimenti di Rousseau siano individuati in Thomas Hobbes e John Locke, coloro che più di tutti avevano enfatizzato il significato della convenzione pattizia. E neppure casuale appare, in questa luce, l’insistenza di Mario Reale sulle analogie e le differenze che sussistono tra il modello esplicativo elaborato da Rousseau e le proposte teoriche dei suoi predecessori.

Nondimeno, anche al di là di questo, la questione più urgente, per Rousseau, riguarda la condizione di iniquità che consegue all’istituzione della proprietà, e che produce una scissione tra gli uomini distinguendoli in forti e deboli, ricchi e poveri, padroni e servi. Rispetto a questa condizione, la soluzione che si presenta agli occhi di Rousseau – e che già si era palesata agli occhi dei suoi predecessori – è la ‘garanzia egualitaria’ promessa dalla convenzione pattizia. Il patto sociale si presenta (o almeno dovrebbe presentarsi, nella previsione di Rousseau e dei suoi predecessori) come la risoluzione della violenza e della disuguaglianza, o come la neutralizzazione del conflitto nell’armonia di un equilibrio socio-politico artificiale. A questa soluzione Rousseau non può evidentemente evitare di credere, posto che proprio lui, erede di una consistente tradizione che include anche Grozio e Pufendorf, rinvia esplicitamente al patto sociale come risoluzione delle tensioni indotte dall’istituzione della proprietà privata: «gli uomini […], potendo per natura trovarsi ad essere disuguali per forza o per ingegno, diventano tutti uguali per convenzione e di diritto».

Eppure, come sagacemente rileva Reale, questa certezza non è, in Rousseau, priva di incrinature. Solo apparentemente, infatti, il patto sociale mette in scacco le differenze generate dall’istituzione della proprietà. L’uguaglianza certificata dal patto, che pure nasce con l’esplicita funzione di operare un livellamento delle differenze, non oblitera mai del tutto l’instabile equilibrio pre-pattizio. Di questo, d’altra parte, Rousseau doveva esserne almeno in parte consapevole, se è vero che nel Contrat social, all’altezza di I 9, ripetutamente paventa la possibilità che il patto si limiti in realtà a nascondere o neutralizzare le tensioni vigenti nella fase pre-pattizia. Il rischio che fa qui capolino, e del quale Rousseau non poteva non comprendere le implicazioni, è precisamente il seguente: che in realtà il contratto sociale finisca per nascondere, sotto un’apparenza di legalità – quella appunto conferita dal patto –, la ratifica di uno stato di strutturale disuguaglianza. Di più: la preoccupazione che qui si insinua è che in verità il patto renda ‘fisiologico’ ciò che nell’ordine naturale assumeva tratti e caratterizzazioni ‘patologiche’.

Questa preoccupazione non è mai esplicita in Rousseau. La sua fiducia nel contratto sociale non poteva permettergli un dubbio così radicale. E tuttavia, già nel Discours, parlando di ciò che chiamava patto iniquo, Rousseau presentava la possibilità (almeno teorica) che il patto nascondesse la volontà di salvaguardare l’interesse di una parte, segnatamente quella del ricco e dell’usurpatore, invece che garantire la parità di tutti gli attori sociali. Si trattava lì di una prospettiva che Rousseau limitava al solo patto iniquo, ma che potrebbe essere estesa (ripetiamo: teoricamente) all’intera strategia contrattualista, da intendere di conseguenza come il tentativo di insabbiare e/o neutralizzare la conflittualità sociale nel quadro di una rappresentazione ‘dolce’ del potere. Dal Discours al Contrat social, certo, tutto cambia: qui non è più questione dell’iniquità del patto, ma della capacità di garantire l’uguaglianza da parte di un istituto sovra-individuale e non riconducibile a gruppi o classi di potere. D’altra parte, però, quando si fanno ipotesi teoriche, è poi difficile sbarazzarsene agevolmente: pur nella mutata prospettiva del Contrat social si potrebbe infatti continuare a chiedersi – e Reale lo suggerisce con singolare perspicacia – se le aberrazioni proprie del patto iniquo del Discours non si ritrovino, rese ormai ‘fisiologiche’, anche nel patto di cui parla il Contrat social. In questa direzione, anche abbandonando l’interpretazione del patto sociale come un tentativo di normalizzazione dell’iniquità pre-pattizia, ci si potrebbe almeno chiedere se il buon governo al quale Rousseau allude nel Contrat social sia effettivamente in grado di garantire l’uguaglianza e la parità fra gli uomini.

Lo studio di Mario Reale mantiene e soddisfa la promessa dalla quale prende le mosse: esso offre una vasta trattazione teorico-problematica (e non appena descrittiva) delle posizioni successivamente assunte da Rousseau su un tema, quello della proprietà, che costituisce senza dubbio uno dei punti essenziali della sua produzione. Della parabola diacronica rousseauiana, Mario Reale mette in evidenza, con la precisione dell’interprete esperto, i mutamenti di prospettiva, le incertezze e le diverse soluzioni elaborate dal filosofo ginevrino, lasciando invece da parte alcuni classici e inveterati giudizi della letteratura critica antecedente. Da questa indagine di lunga durata, di conseguenza, vien fuori l’immagine di un filosofo, Rousseau, drammaticamente calato nel suo tempo, in continuo dialogo con i suoi predecessori e contemporanei, perfettamente cosciente della portata degli argomenti di cui si andava occupando nel cuore della stagione illuministica. Ma quel che più colpisce, nell’analisi proposta da Reale, è l’impossibilità di attribuire a Rousseau determinazioni teoriche univoche, capaci di fornire, nel loro complesso, una chiave di lettura definitiva e organica della proprietà privata e delle sue ricadute. Il Rousseau che emerge dall’analisi di Mario Reale è dunque un ‘filosofo vivente’, ogni volta impegnato con la materia incandescente di problemi e questioni che hanno ampiamente investito il suo tempo e che avrebbero ancora animato, com’è noto, alcuni importanti intellettuali del secolo successivo.

Al di là di questa nodale indagine sul tema della proprietà privata, il volume di Mario Reale presenta ancora due saggi, che si occupano rispettivamente del tema della volontà generale, analizzata a partire da una comparazione delle tesi sostenute da Rousseau e Diderot, e sulla nozione rousseauiana di ‘politica’ nel delicato passaggio dal Discours al Contrat social.

Il secondo saggio, in particolare, muove dalla constatazione della coerenza che caratterizza le definizioni della ‘volontà generale’ elaborate da Diderot e Rousseau rispettivamente nelle voci Droit Naturel e Economie politique dell’Encyclopédie. A dispetto del fatto che la prima occorrenza dell’espressione ‘volontà generale’ ricorra nella voce (cronologicamente precedente) compilata da Diderot, Mario Reale non esita ad attribuire a Rousseau la sua invenzione, allineandosi così a una consistente tradizione della letteratura critica. La statura culturale e filosofica di Rousseau era infatti nettamente superiore a quella di Diderot, sicché è tutt’altro che improbabile che sia stato proprio lui a suggerire a quest’ultimo, in occasione dei loro incontri, il concetto e l’espressione di ‘volontà generale’.

Ma anche al di là del conio dell’espressione, che è questione di dettaglio, quel che più conta, secondo Reale, è il fatto che Rousseau si mostra ben più progressista dell’editore dell’Encyclopédie. La sua analisi del concetto di volontà generale è, infatti, estremamente laica e realista, dunque profondamente novatrice e progressista, ove invece la definizione elaborata da Diderot resta incagliata in una sorta di insuperabile idealismo, dal quale neppure il suo materialismo riesce a liberarlo. Per quanto simili possano apparire, dunque, le definizioni della volontà generale elaborate rispettivamente da Rousseau e Diderot manifestano approcci differenti e per certi versi difficilmente conciliabili.

In questa sede sarebbe impossibile riprendere il ricco apparato argomentativo del saggio di Mario Reale. Una divergenza va tuttavia messa in evidenza, per le conseguenze che inevitabilmente porta con sé in riferimento al modo di concepire l’istituzione della comunità politica. A differenza di Rousseau, Diderot non riconosce alcuna funzione costitutiva al contratto sociale. L’attribuzione di una siffatta funzione al patto sociale porterebbe infatti Diderot alla necessità di negare la naturale sociabilité che egli attribuisce alla specie umana, la quale, ai suoi occhi, tende per una sorta di naturale propensione al bene di tutti. La prospettiva di Rousseau è invece esattamente opposta: la sociabilité è possibile solo in virtù della convenzione pattizia, poiché manca, nella specie umana, una naturale tendenza al bene comune. Tutt’al più, quel che è possibile rintracciare nella fase pre-pattizia è l’emergenza di un sentimento prossimo alla pietà, che tuttavia, agli occhi di Rousseau, non può mai costituire il fondamento per una vera e propria comunità politica.

Quel che Rousseau non può proprio accettare della prospettiva di Diderot è dunque l’affermazione di una «società generale del genere umano» fondata nella socievolezza, a sua volta intesa quale elemento di aggregazione socio-politica già sussistente nello stato di natura. Un tale idea è per Rousseau controfattuale (poiché contraddice l’evidenza della storia), banalmente ottimistica (poiché priva di fondamento in sede antropologica), irriducibilmente ideologica (poiché sprovvista di qualsivoglia fondamento empirico che si radichi in una statistica storica attendibile). Agli occhi di Rousseau, il cosmopolitismo ‘naturalistico’ di Diderot è dunque una semplice chimera, il residuo di una posizione ideologica radicata in un’ingiustificata (ai suoi occhi) fiducia nella ragione umana.

Al modello di Diderot, Rousseau oppone un modello esplicativo del tutto differente: un cosmopolitismo artificiale realizzato in ragione di un contratto sociale e fondato sulla garanzia pattizia. Solo il ‘patto’ può garantire l’istituzione di una società nella quale, almeno in termini normativi o di prospettiva, si possa ritenere salvaguardata l’uguaglianza tra gli uomini. Ma quel che la garantisce, come appare evidente, non è certo la sociabilité o la naturale propensione al bene alle quali faceva riferimento Diderot, ma soltanto la stretta coazione delle norme pattizie che muovono l’uomo, se possono, nella direzione di una convivenza armonica e, se mai possibile, giusta. E anche quando Rousseau sembra cedere qualcosa all’ottimismo di Diderot e di altri philosophes suoi contemporanei, mitigando ad esempio l’opposizione tra lo stato di natura e la società pattizia, egli non ammette comunque mai la possibilità che l’accordo tra gli uomini possa anche in parte radicarsi sulla natura dell’uomo o su una sociabilité spontanea e non giuridicamente controllata.

Il volume si chiude infine con un saggio – trasversale e complesso – dedicato alla nozione di politica (e alle sue più larghe implicazioni) nel delicato passaggio dal Discours al Contrat social. Esso insiste ancora, ma questa volta in maniera decisiva, sul concetto di socialità, con l’intenzione di mostrare in che modo Rousseau abbia connotato la condizione descritta nel Discours come una condizione di solitudine e abbia invece tentato di individuare, nel Contrat social, una via di uscita da questa condizione. Il passaggio dal Discours al Contrat social è, infatti, tutto interno al modo in cui Rousseau ha via via affrontato la problematica giusnaturalistica, che occorre interpretare, osserva Reale, come una teoria politica della socialità e della socializzazione.

La condizione umana, così come Rousseau la delinea nel Discours è una condizione di solitudine, il che vale sia nello stato di natura sia nel tempo sociale che segue. Questa solitudine implica una socialità dell’alienazione e della corruzione. È certamente vero che nel percorso del Discours si affaccia a un certo punto come la speranza di un superamento della solitudine e dell’alienazione (grazie all’istituzione di uno spazio politico regolato da una mediazione pattizia), ma ciò appare comunque insufficiente a neutralizzare il pessimismo che ancora pervade quello scritto. Quale che sia il modello interpretativo che si applichi al Discours, quello che emerge è l’impossibilità che si possa approdare, come osserva Reale, a un «positivo, armonico e comunitario terreno politico». L’esito del Discours è una sorta di ultralibertarismo che finisce per inquinare il significato autentico della ‘politica’.

Se l’esito del Discours è sostanzialmente legato a questa prospettiva anti-sociale, non si può neppure affermare che il Contrat social colmi questa lacuna attraverso una valorizzazione della socialità, che resta anche in quello scritto sullo sfondo, in un periferica marginalità dalla quale non riuscirà ad affrancarsi neppure in séguito. Come opportunamente rileva Mario Reale, la socialità costituisce una sorta di prerequisito necessario ai fini della costituzione della società civile, ma non può mai acquisire, in essa, la centralità di un funtore propulsivo. Essa non può mai costituire, in altri termini, il soggetto di una positiva irruzione generatrice.

In tal senso, la società descritta da Rousseau annuncia un tratto essenziale della democrazia moderna, di cui – assieme ad altri – egli è certamente uno dei padri fondatori. Quella che egli descrive anche nel Contrat social è la battaglia fra due principi: da un lato, una socialità che può costituire lo sfondo della comunità umana, o al limite il suo fine (al modo in cui potrebbe esserlo un principio normativo e finalistico); dall’altro, la constatazione di un sotterraneo ‘atomismo sociale’ che fa della democrazia moderna una ‘comunità di solitari’. In questa duplice polarità – non certo contraddittoria, ma non tuttavia libera da contrasti – si gioca la definizione rousseauiana della democrazia e della società moderna. Rispetto a questa sorta di monismo sociale, la normatività della legge interviene come un arbitro inappellabile e un ultimo funtore della socialità, che dovrebbe garantire l’uguaglianza e l’assenza di ingiustizia e subordinazione fra gli uomini. Ma è evidente, come non manca di rilevare Reale, che il primo bene (o il primo ‘male’, si potrebbe dire) tutelato dalla legge è quella strutturale solitudine dalla quale essa aveva la funzione di liberare l’uomo.