«Par hasard, comme tout le monde»: Jacques le fataliste, la forma del racconto e la libertà etica.
di Luigi Bianco
La forma del racconto e la filosofia
Un racconto, per cui intendiamo una storia scritta elaborata da uno o più autori, è un insieme di segni linguistici che, in quanto tali, sono in rapporto fra loro a vari livelli, a partire dalla classica ripartizione di Charles W. Morris in sintassi, semantica e pragmatica[ref]C. W. Morris, Foundation of the Theory of Signs, The University of Chicago Press, Chicago 1938 [Id., Lineamenti di una teoria dei segni, a c. di S. Petrilli, tr. it. F. Rossi-Landi, Pensa MultiMedia Editore, Lecce 2009]. [/ref]. Questa analisi a tre direzioni può essere condotta su diversi livelli testuali, volti a far emergere l’insieme dei significati, quindi dei contenuti che formano uno o più messaggi, variamente stratificati e intessuti nel testo. In questo senso riconosciamo l’importanza – o, meglio, la necessità – del ruolo attivo del lettore nell’atto ricettivo ed ermeneutico, tanto da mettere in moto, facendosi in un certo senso co-autore, il testo, il quale, secondo la celebre definizione di Umberto Eco, sarebbe altrimenti una “macchina pigra” [ref]Ci riferiamo in particolare a U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 2016; ove, precisa l’autore, l’analisi condotta «restringe il campo dell’indagine ai soli fenomeni verbali, anzi ai soli testi scritti e tra questi ai soli testi narrativi», p. 10. [/ref]. Secondo questa teoria, dunque, il ruolo del lettore nella ricezione di un testo, da semplice punto d’arrivo esterno, ossia destinazione passiva alla quale si richiederebbe solo un impegno accogliente, passa a un ruolo attivo da svolgersi all’interno del testo stesso, certo guidato e coadiuvato dal testo e da ciò che esso implica. Tale ruolo non autorizza certo il lettore a trarre ciò che desidera o ciò che è viziato dalla propria epoca, cultura o ideologia; all’opposto lo responsabilizza, investendolo dell’oneroso compito di immergersi nelle fitte, ma organizzate, trame del testo narrativo, e far emergere infine la molteplicità di significati che (degni) testi narrativi sottendono.
Un racconto filosofico è un testo che utilizza l’architettura narrativa per intessere fra loro temi e quesiti problematizzati, e si pone dunque come strumento, spesso brillante, della dialettica filosofica, la quale è in grado di tracciare nuove o rinnovate direzioni, o di asserire o ribaltare dogmi e pensieri della tradizione.
L’Illuminismo francese rappresenta un periodo in cui se ne è fatto un utilizzo acuto, caustico, preciso. Così Diderot nella compilazione della voce Conte dell’Encyclopédie: «dont le mérite principal consiste dans la variété et la vérité des peintures, la finesse de la plaisanterie, la vivacité et la convenance du style, le contraste piquant des évenemens»[ref]Si veda la voce «Conte», curata da Diderot, de L’Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Parigi, 1751-1765), digitalizzata a cura dell’Università degli Studi di Padova al seguente URL: https://bibliotecadigitale.cab.unipd.it/risorse-metalib/000006045 (ultimo accesso: 09/09/2020). [/ref].
La tradizione millenaria d’utilizzo di questo particolare genere narrativo non esclude, e anzi foraggia, la possibilità di interrogarsi sulle peculiarità di un racconto, strumento invero malleabile e versatile, utilizzato in senso speculativo, sostituendosi o affiancandosi a modalità più tradizionali e rigorose. È possibile, dunque, immaginare che la grammatica dell’artificio narrativo, usata in tal senso, possa aprire il lettore consapevole, che quindi sia all’interno delle strutture narrative, verso nuove soluzioni o verso una consapevolezza più solida? Certo, muoversi all’interno della questione implica in primo luogo la messa in discussione del rapporto fra speculazione filosofica ed elementi narrativi, ma più in generale significa porre in relazione l’uomo, e con esso il pensiero che l’uomo ha di sé stesso e della propria azione, con strumenti sì semantici e logici, ma soprattutto – e qui è il punto – linguistici, testuali, stilistici tipici del testo narrativo. In altre parole: mettere in luce quale sia la dimensione che il concetto filosofico trova nella specificità letteraria.
La filosofia illuminista, lo si è detto, è sovente ricorsa al racconto filosofico, in particolare instaurando un dialogo, spesso acceso e notevolmente polemico, con il pensiero filosofico anteriore. Un caso di rilievo, per la tradizione in cui si immette e allo stesso tempo per l’unicità della realizzazione, è costituito da Jacques le fataliste et son maître di Diderot[ref] L’edizione di riferimento, da cui sono tratte tutte le citazioni nel presente lavoro, si trova in D. Diderot, Opere filosofiche, romanzi e racconti, a c. di P. Quintili, V. Sperotto, Bompiani, Milano 2019.[/ref], romanzo imperniato su alcune idee fondanti della filosofia deterministica anteriore, a partire dall’opera di Spinoza, estremizzate fino a essere messe alla prova dalle vicissitudini dei protagonisti. In particolare, individuiamo nella riflessione sulla libertà dell’uomo, a più riprese evocata dall’anonimo padrone redarguito da Jacques, il quale ha a sua volta interiorizzato e fissato la lezione del suo capitano, il tema che i due viaggiatori senza meta e senza tempo, e anche il narratore che non di rado si interpone fra il lettore e la finzione letteraria, impongono al lettore stesso.
La libertà umana, secondo Spinoza[ref] Citazioni tratte da B. Spinoza, Etica, a c. di G. Gentile, G. Radetti, tr. it. G. Durante, Bompiani, Milano 2007.[/ref], è di per sé già debole, poiché essa non è davvero Libertà, cioè «quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire» (Ethica, p. I, def. VII), la quale può essere soltanto Dio (non inteso in senso giudeo-cristiano, ma come «causa immanente, e non transitiva» (Et., p. I, prop. XVIII): Deus sive Natura), da cui derivano necessariamente tutte le cose. La cosa necessaria, infatti, è «determinata da altro ad esistere e ad agire in una certa e determinata maniera» (Et., p. I, def. VII). Ne consegue che la Mente umana non può pensare liberamente, poiché è determinata a volere una cosa o un’altra da una causa che è a sua volta determinata da un’altra, e così all’infinito. (Et., p. II, prop. XLVIII). Questi Affetti umani, cioè le emozioni che spingono l’uomo ad agire in un modo o in un altro, non sono comunque un vizio, una sospensione delle leggi naturali, giacché tutto in natura segue le leggi e le regole sue proprie; l’uomo non è un «imperium in imperio», ma è mosso da affetti che seguono dalla stessa necessità e dalla stessa virtù della natura (Et., p. III, pref.). E in questo senso allora si può parlare di schiavitù dell’uomo (humanam impotentiam), incapace di moderare o reprimere gli affetti, dunque soggetto al determinismo universale, passivo perché parte della natura (Et., p. IV, pref. e prop. II-IV). Eppure, per Spinoza non è la via dell’impotenza o dell’accettazione passiva della condizione umana a dover essere percorsa. Al contrario, è utile perfezionare la ragione, dunque conoscere quanto più possibile Dio (Amor Dei intellectualis), per accostarsi sempre più alla felicità suprema, ossia la Beatitudine (Et., p. IV, app.). Ecco allora che è possibile raggiungere un grado di “libertà”, che non può essere assoluta ma consiste nel dominio degli affetti attraverso l’esercizio dell’intelletto, possibile quanto più alto è il grado di conoscenza della Mente (Et., p. V, pref.); da ciò la potenza del Sapiente, che è anche felicità, di gran lunga superiore all’ignorante, mosso solo dagli affetti sensibili (qui sola libidine agitur) senza la possibilità di raggiungere una qualche soddisfazione d’animo (Et., p. V, prop. XLII e scol.).
Il Jacques di Diderot si pone in rapporto diretto con le teorie spinoziane. Tutto il romanzo (o anti-romanzo, o meta-romanzo, o iper-romanzo, come prova a definirlo Calvino[ref]I. Calvino, Il gatto e il topo, in «La Repubblica», anno VIII, 24 giugno 1984, ora disponibile nell’Archivio digitale de «La Repubblica» all’URL: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/24/il-gatto-il-topo.html?refresh_ce [/ref]) è incentrato sulla possibilità di raccontare, sulla possibilità di agire o di scegliere secondo il proprio volere, in un gioco vivace e brillante di chiasmi fra il padrone e Jacques, l’uno anonimo, convinto della propria libertà ma di fatto irresoluto, che vive solo in funzione del suo servo, l’altro al servizio ma paradossalmente guida del padrone stesso, fermamente convinto che non si possa dire o fare alcunché che non sia già stato scritto sul “rotolo eterno”, sebbene spesso agisca in contraddizione con i suoi ideali che si convince essere granitici. Infine, all’asse orizzontale della vicenda romanzesca si aggiunge un asse verticale fra testo, narratore e lettore, modulato da Diderot ancora sulla libertà di scelta fra le diverse situazioni romanzesche che possiede in quanto narratore, o ancora la libertà per il lettore di immaginare nuovi scenari e diversi finali: «Vedi, Lettore, sono sulla buona strada e dipende solo da me farti attendere […]. Come è facile fare racconti! […] Cosa non diventerebbe quest’avventura, tra le mie mani, se mi prendesse la fantasia di farvi disperare!».
Che cosa accade, dunque, nelle trame di questo «non-romanzo»? Esso accoglie su di sé elementi non solo di una crisi generalizzata, in grado di investire l’universo storico del tempo dell’autore, ma anche una certa tendenza più ampia della coscienza moderna ad abbandonare le torri d’avorio della metafisica e aprirsi sempre più al mondo materiale. Il tema della libertà, della scelta che di volta in volta possiamo compiere, sembra essere nodale; il punto di partenza e di dialogo è, appunto, la filosofia deterministica moderna, passando per Leibniz ma avendo come punto fermo la rigida architettura dell’Etica di Spinoza. Sarà necessario allora riflettere sulla forma narrativa usata da Diderot per rappresentare il problema filosofico della libera scelta, modalità che, si vedrà nel dettaglio più avanti, contrasta notevolmente non solo con la più consueta trattazione filosofica, ma soprattutto con le dimostrazioni, gli assiomi, le proposizioni, gli scolii tipici della solida geometria spinoziana. Si accennerà alla natura del testo narrativo, o più in generale del linguaggio, che ha sovente animato il dibattito in parte filosofico, in parte linguistico, in parte anche critico-letterario, sul ruolo della parola a confronto con le tematiche riguardanti la natura dell’uomo.
La distruzione del racconto e la ricerca di altri spazi
Il tema portante che anima il viaggio, fattuale e metaforico, dei due protagonisti del romanzo di Diderot è la promessa del racconto degli amori di Jacques. È il padrone a chiedere a Jacques, già in avvio di romanzo, di raccontare la storia dei suoi amori, la quale però viene di volta in volta interrotta da cause varie (interferenza di altri personaggi, altre storie, un mal di gola). Jacques appare sempre calmo, mai infastidito, poiché si convince di essere pervaso dalla consapevolezza che tutto ciò che accade (o non accade) è scritto sul «gran rotolo lassù», e dunque non ci può essere volontà di fare o non fare, solo di osservare quel che accade. È questo il «fatalismo» di Jacques, termine non privo di rimandi pregni del dibattito acceso fra i sostenitori dell’ortodossia cristiana e gli avversari nel corso del XVIII secolo[ref]Cfr. P. Quintili, Nota introduttiva, in Diderot, Opere filosofiche, op. cit. [/ref]. La storia degli amori è quindi interrotta, rimandata, bruscamente tagliata da altre storie, più o meno lunghe e disposte su diversi livelli rispetto alla storia principale, tanto che più volte Jacques, alla richiesta del padrone, ammetterà di non ricordare in quale punto della storia fosse arrivato, così da dover ricominciare o da essere costretto a rimandare nuovamente.
Il romanzo è composto da diversi livelli narrativi: un primo livello è fornito dalle avventure dei protagonisti, dunque le storie che interrompono la loro conversazione sono le avventure che i due si ritrovano a vivere con altri personaggi incontrati lungo il percorso o nelle varie locande frequentate. Un secondo livello è fornito dai racconti dei personaggi, interpolazione di racconti nel racconto, giustapposti alla storia degli amori di Jacques. Questi racconti sono per lo più dilatati, allungati, irrompono nella scena apportando contributi circoscritti o confusionari, che spesso disorientano il lettore, e la stessa storia degli amori di Jacques si dilata in modo improprio nella descrizione di inezie preliminari o di vicende contingenti, senza mai giungere al «succo». Un terzo livello è costituito dall’interruzione del narratore rivolto al lettore, spesso con domande dirette volte a sondare il motivo della supposta curiosità verso la vicenda narrative o le altre storie narrate, ma anche apostrofi, dichiarazioni di poetica, ingiurie. Non mancano rimandi ad altre fonti, o addirittura alla fantasia del lettore, così che nella finzione romanzesca la storia sembra di fatto possedere una triplice genesi: il narratore, il lettore («Tra i diversi rifugi possibili di cui vi ho fatto l’elenco sopra, scegliete quello che meglio si adatta alla presente circostanza» – ma questo è il livello più fragile, poiché dopo aver fornito il ventaglio di scelte possibili, è il narratore a scegliere, spesso tacendo ciò che ritiene irrilevante) e la storia stessa tràdita da molteplici e indefinite fonti, come è sostenuto nel finale, indipendentemente dalla volontà dell’autore e del lettore («per far ciò [raccontare altre vicende], bisognerebbe mentire, e io non amo la menzogna» o «[…] Il manoscritto non lo dice; ma è possibile supporlo»).
Questa modalità non è nuova. Lo schema è del récit emboîté, il «racconto a incastri» sviluppato su diversi piani di narrativi[ref]«Si tratta di un racconto a più livelli narrativi, sullo schema del récit emboîté (“racconto a incastro”), senza una vera e propria “trama”, né un “finale” univoco», Ibidem. [/ref]. Anche la dilazione di una storia che è accennata, iniziata, ma sembra non giungere mai a conclusione, espansa e dilatata dalle circostanze, che però Jacques crede necessarie e non contingenti, non è operazione nuova, e anzi si aggancia a una tradizione consolidata del romanzo europeo. Eppure essa conosce un ribaltamento radicale. È ciò che emerge se osservassimo la tecnica simile dell’entrelacement dei romanzi medievali di marca arturiana o cavalleresca, che penetrano fin dentro alla cultura moderna – si pensi all’Orlando Furioso di Ariosto. Proprio per il Furioso, avamposto fra i più riusciti di tale tecnica nell’èra moderna, questa modalità è utilizzata ad arte per dilatare le diverse storie che si intrecciano, per far perdere il lettore fra i molti e contraddittori personaggi, in un gioco testuale che pone in essere una duplice spinta “centripeta” e “centrifuga”, in costante lotta fra loro. Interessante la ragione: fornire il segno dell’evanescenza, dell’illusione, del costante e mai pago desiderio di ricerca del personaggio e, più in generale, dell’uomo nel mondo. Questo sistema, che sembra un’opera aperta, è invero un organismo “finito”, che disegna in sé l’immagine globale dell’uomo e del mondo[ref]Cfr. G. Ferroni, Ariosto, Salerno, Roma 2008, pp. 140-148. [/ref].
Non così per Diderot. Il suo sistema di rimandi, di interruzioni, di personaggi e storie lasciate e riprese non coincide con una rappresentazione “finita” di un’idea del mondo esterno. Il motivo è da ricercarsi nella pretesa mancanza di fiducia nella narrativa, o più in generale nella letteratura: la tecnica «a incastri» di Diderot opera in seno alla letteratura per rappresentare o veicolare un messaggio, ma nel compiere questa operazione l’autore si pone l’obiettivo di disgregare, fare a brandelli, terremotare dall’interno il testo narrativo, per aprire delle crepe profonde in cui finalmente ravvisare nuovi luoghi di riflessione. Le fila dei rimandi, le linee testuali tracciate nel corso della narrazione, se si osserva l’opera nell’insieme, non conducono da nessuna parte, restano avviluppate su sé stesse o cadono nel vuoto in un gioco di disfatta totale. Dunque, non si riflette nel racconto, ma attraverso la sua disgregazione e demistificazione: passaggio centrale per comprendere come Diderot si serva della forma prima ancora del racconto per giungere alla sua idea di realismo[ref]Per cui rimandiamo ai classici P. Casini (a c. di), Il realismo di Diderot, Laterza, Roma-Bari 1977; H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, Laterza, Roma-Bari 1977. Per una trattazione più ampia sul rapporto fra Diderot e il pensiero contemporaneo, si rimanda a P. Quintili, Matérialisme et Lumière. Philosophie de la vie, autour de Diderot et de quelques autres, 1706-1789, Honoré Champion, Paris 2009. [/ref].
Qui un punto: qual è il rapporto che le crepe del racconto, la disgregazione della forma narrativa, operata con ironia tagliente rivolta prima su sé stessa (negazione della forma stessa usata) e poi sull’esterno (il mondo, gli affetti, l’uomo), instaurano con le teorie che procedono dall’unità dell’opera di Spinoza, in cui tutto è serrato, stabile, dimostrato con metodo geometrico per assiomi, proposizioni, dimostrazioni? Gli spazi creati dalla forma narrativa così disgregata, offrono nuovi spunti e nuove vie di fuga all’uomo schiavo degli affetti, ma che può raggiungere la libertà servendosi della conoscenza e, tramite essa, del dominio sugli affetti stessi, o al contrario le negano, ne cambiano il paradigma, ne decretano l’inattualità? In definitiva: fare a fette la forma, che tipo di contenuto afferma?
Tali questioni nascono dall’osservazione degli spazi generati dalla forma turbata del racconto. Essa si inserisce nella linea della sperimentazione, della negazione della forma stessa alla ricerca di nuove vie di narrazione, che ha due vette lucenti nel Don Chisciotte di Cervantes, vero iniziatore di tale ricerca e padre del romanzo europeo moderno, e soprattutto nel più recente (e radicale) Tristram Shandy di Sterne, la cui influenza si ravvisa in più punti nell’opera di Diderot, non solo nella citazione diretta finale[ref]Cfr. Quintili, Nota introduttiva, in Diderot, Opere filosofiche, op. cit. [/ref]. Queste crepe, che non si insinuano nel corso del racconto ma sono già tracciate e profonde in apertura del romanzo, si fanno sistema e raggiungono l’apice nel finale, facendo crollare anche quella flebile via tracciata e seguita che avrebbe potuto portare a un finale definito.
Il crollo non è casuale, ma condensa in sé alcuni dei temi già trattati nel corso del racconto, e corrisponde all’impossibilità di una fine univoca, unitaria, stabile, poiché è la stessa forma del racconto a non poter fornire alcuna stabilità, alcuna fine. È questa forse la parte più «anti-romanzesca» dell’intera opera, interessante perché sostiene una linea che fornisce un modello di rappresentazione dell’impossibilità romanzesca di dire o testimoniare una qualche forma di verità, che troveremo ancora attiva, seppur rinnovata e con tutt’altre implicazioni, nei romanzi postmoderni, e in particolare per Calvino che, in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), accoglie il modello della dilazione e soprattutto dello smembramento del romanzo (di inizi di romanzo, nel suo caso) e ne fa sistema, romanzo contro i romanzi, testimone dell’impossibilità del romanzo di farsi latore di verità.
Ecco il finale: il racconto di Diderot si interrompe precipitosamente all’arrivo dei due protagonisti presso il villaggio in cui si trova il figlio del cavaliere di Saint-Ouin, antico amico del padrone di Jacques, il quale però, attraverso l’inganno e aiutato da un disguido burocratico, è riuscito a ingravidare una donna, Agathe, e lasciato gli oneri di mantenimento del figlio al padrone di Jacques. Proprio mentre si avvicinano all’ingresso del villaggio, con Jacques che interrompe ancora una volta il suo racconto perché sente la «mano del destino alla gola», il padrone si trova di fronte il cavaliere rivale. Ne nasce una breve colluttazione che termina con l’uccisione del cavaliere di Sain-Ouin, poi la fuga del padrone che lascia che Jacques venga imprigionato. Il narratore dichiara a questo punto la fine della storia, o meglio di non sapere altro su quanto sia successo dopo, supponendo che ciò, per via della lezione ormai accettata, non irriti il lettore. Tuttavia, poiché è in possesso di altre memorie della vicenda, in cui sono presenti tre ulteriori paragrafi, accetta, dopo una riflessione piuttosto breve, di esaminarli attentamente per almeno otto giorni prima di riferirne. A questo punto una breve voce fuori campo («L’editore aggiunge»), che inserisce un ulteriore – brevissimo – livello narrativo fra il narratore e il lettore, introduce i risultati della ricerca condotta: dei tre paragrafi ritiene possano essere verisimili solo il primo e l’ultimo, mentre il secondo ritiene essere un’interpolazione. Sono riportati comunque tutti e tre: il primo mostra un dialogo fra Jacques e Denise, la donna che si era presa cura del ginocchio ferito di Jacques e di cui è innamorato. Il secondo, che ritiene essere stato copiato dal Tristram Shandy, mostra ancora una scena fra Jacques e Denise, intenta a medicare la ferita, in cui Jacques, progressivamente inebriato dalle cure di Denise, si avventa sulla donna con passione. Viene anche inscenato un dialogo fra il narratore e l’ipotetico lettore, invitato a far di meglio se non è soddisfatto della scena riportata. Il terzo e ultimo paragrafo, su cui si chiude definitivamente anche il romanzo, narra della liberazione di Jacques dal carcere e del suo arruolamento in un gruppo di briganti. Durante le solite scorrerie, i briganti con Jacques al seguito raggiungono per caso il castello di Desglands, ove risiedono il padrone, solo e perso senza servo, e Denise, la donna amata. Jacques sventa il saccheggio previsto, resta al castello e sposa Denise. Nella conclusione c’è una allusione alla probabile infedeltà di Denise, topos noto della letteratura coeva. La fine è una «non-fine», così come il romanzo è un «non-romanzo». L’apertura alle molteplici possibilità blocca la possibilità di una risoluzione univoca, e dunque di desumere una qualche verità dall’impianto stesso romanzesco.
Giunti sin qui, converrà riflettere sulla definizione del racconto diderotiano, posto che si ritenga il procedere per litote («non-romanzo») inadeguato, o comunque troppo vago per comprendere il punto di arrivo dell’opera finale e il suo presunto rapporto con la libertà etica. Si è osservato come nel Jacques Diderot giochi alla rottura delle forme canoniche, all’esasperazione di temi e problemi tipici del romanzo, tanto da metterlo quasi in ridicolo perché smascherato e denudato. Non c’è fiducia nel romanzo canonico, e in senso lato non c’è fiducia nella narrazione, alla quale non si può affidare direttamente una qualche verità, ma può essere usata come strumento per scandagliare una porzione del reale; tale uso concerne non propriamente la trama, dunque la narrazione, ma la forma, qui effettivamente impugnata e scompaginata. In questo senso, dunque, sarà appropriato definire Jacques le fataliste un «anti-romanzo», e cioè porlo precisamente nella tradizione del romanzo destruens, scagliato contro le forme tradizionali, non tralasciando il solido legame che il romanzo di Diderot instaura con il capostipite più illustre e radicale della tradizione, Gargantua et Pantagruel di Rabelais[ref]Interessante richiamare la definizione data da Antonio Frescaroli nel corso di una riflessione su Bouvard e Pécuchet di Flaubert: «Fare un anti-romanzo significa scrivere il romanzo di un romanzo che non si riesce a comporre: anzi che non si vuole deliberatamente comporre», A. Frescaroli, I germi dell’anti-romanzo in Bouvard e Pécuchet, in «Aevum», XL, fascc. 1-2, 1966, p. 139. Tentare di ricostruire una storia dell’anti-romanzo, o dell’utilizzo del termine critico dall’iconica definizione di Sorel all’utilizzo, più incisivo, di Sartre, non è compito del presente lavoro. Ci limitiamo a fornire due richiami bibliografici, ai quali si rimanda per una trattazione più ampia: M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001; Id., L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 2001. [/ref].
Le ragioni dell’utilizzo di tale forma romanzesca, in un certo senso “parricida” poiché si pone l’obiettivo di disgregare dall’interno il romanzo da cui deriva, si possono ravvisare nella acuta individuazione di un elemento ereditato dalla cultura popolare e inserito nella tradizione anti-romanzesca, operata da Michail Bachtin: intendiamo l’elemento «carnevalesco»[ref]Cfr. Bachtin, L’opera di Rabelais, op. cit. [/ref]. Esso opera un ribaltamento di gerarchie, un rovesciamento dei valori dati, una distruzione di ogni convenzione (eredità delle feste cavalleresche medievali) che fornisce uno spazio di libertà d’espressione altrimenti impossibile. Lo strumento più incisivo è il riso, l’ironia (linea Rabelais-Cervantes-Sterne-Diderot), che non è stolto o scomposto ma diviene carico di significati, bisturi preciso, anima stessa dell’anti-romanzo attraverso cui condurre la propria analisi e fendere la realtà, per inserirsi nelle aperture create. Diciamo in questo senso che Diderot non diffida del romanzo tout court, ma di quello tradizionale, e affida alle crepe fisiologiche e coerentemente aperte dell’anti-romanzo la sua ricerca sul campo.
È significativo, dunque, che utilizzi proprio questo strumento, né si sarebbe potuto operare in modo analogo con qualsivoglia altro genere letterario o trattato. La cesura, infatti, si impone non solo con il romanzo tradizionale, ma anche con i romanzi derivanti dagli ambienti più vicini al filosofo (come il Candide o anche l’Émile di Rousseau). Si prenda il Candide di Voltaire, non manchevole certo d’ironia o di critica radicale e spietata alla tradizione; si noti, tuttavia, come tale critica, sebbene molto dura, sia condotta nel romanzo e dal romanzo. Non così il Jacques, che oltre a interrogarsi su alcune tesi della tradizione filosofica, mettendole in scena attraverso i dialoghi e le avventure dei personaggi, si occupa di ricercare nuovi spazi, creare delle intercapedini in cui riflettere con diversa e più radicale intensità. L’extra-romanzesco è scagliato dentro la forma e la scombina, ne mina le fondamenta. Diderot coinvolge il lettore, così che si trovi ad essere complice della disfatta del mondo (romanzesco), e dall’interno, senza più coordinate, cerchi anch’egli di giungere a nuove vie. Non un mero fatto stilistico, a ben vedere. Se una verità, o una riflessione sulla verità, non può essere affidata a una storia narrata, essa può essere ricercata attraverso un lavoro radicale sulla forma.
Interno/esterno: il problema dell’uomo dentro e fuori il romanzo
Il terremoto interno e profondo muove le placche della forma romanzesca, ferme e stabili nel romanzo tradizionale, generando sovrapposizioni, stordimenti, confusione, spaesamento. Soprattutto forma delle faglie profonde, spazi vuoti e ampi che, lungi dall’essere incidenti, costituiscono l’architettura “in negativo” del romanzo stesso. Solo queste, per Diderot, possono fornire uno spazio davvero nuovo e innovativo alla discussione intorno al tema etico, e precisamente al tema della libertà.
Per comprendere i soggetti in causa, è necessario notare come essi agiscono, a partire proprio dal fruitore, quasi personaggio fra i personaggi. Diderot, infatti, introietta il lettore nella struttura narrativa, facendolo agire come soggetto dialogante con il narratore. Ma di quale lettore si sta parlando? È necessario almeno introdurre – ancora secondo la lezione di Umberto Eco – alcune categorie dalla semiotica interpretativa, ossia le nozioni che individuano, nel corso della ricezione e interpretazione di un testo, quattro attori principali: autore empirico, Autore Modello, Lettore Modello e lettore empirico[ref]Cfr. U. Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 20043, pp. 57-80. [/ref]. Un testo può prevedere un Lettore Modello, cioè un lettore ideale in grado di tentare infinite congetture; il lettore empirico è «solo un attore che fa congetture sul tipo di Lettore Modello postulato dal testo»[ref]Ivi, p. 78. [/ref]. Poiché un testo postula necessariamente un Lettore Modello in grado di produrre congetture su di esso, questo lettore dovrà immaginarsi un Autore Modello, diverso dall’autore empirico ma che coincida con l’intentio operis, sia cioè implicato dal testo stesso.
In Jacques le fataliste l’Autore Modello e il Lettore Modello non possono non rapportarsi con due loro rappresentazioni, fittizie ma inserite significativamente nell’ultimo livello narrativo che separa il testo dal lettore empirico, costituite da un autore-personaggio e un lettore-personaggio. Personaggi invero molto attivi: le incursioni del narratore che interrompe la storia, o che dichiara di avere il potere di dire e fare ciò che vuole, salvo poi decidere di non abdicare alla presunta verità della storia, e il bisticcio e il dialogo che egli instaura con il lettore, attengono a un livello di narrazione che sovrasta quello dei due protagonisti, ma che resta comunque all’interno della narrazione stessa. L’autore e il lettore personaggi si inseriscono fra l’Autore Modello e il Lettore Modello, costituendo uno strato interpretativo ulteriore fra i due attori principali, seppur fittizio[ref]Ossia appartenente al testo stesso e alla trama. Il lettore e l’autore personaggi, pur rilevanti nell’atto interpretativo che il Lettore Modello compie a partire dal testo, restano personaggi, cioè artifici narrativi che si muovono nella storia. [/ref]. La funzione è quella di rompere la finzione romanzesca e disfare le trame tradizionalmente strette e invalicabili, richiedendo al lettore un impegno interpretativo che è anche – e qui sta il punto – un impegno identificativo. La testualità, interrotta e disfatta dalla manifestazione della sua finzione, si apre al lettore empirico creando un legame stretto fra la forma del romanzo e il mondo extra-testuale, dunque fra i personaggi, abbozzati con tratti grotteschi ed esagerati, e il lettore empirico. In altre parole, giocando in tal modo con la struttura del racconto, l’autore schiude il guscio del racconto verso l’universo del lettore, e opera una sovrapposizione, sempre più salda, tra l’universo empirico del lettore e la peculiare e spaesante forma romanzesca utilizzata.
Si è posto l’accento sul livello narrativo abitato dall’autore-personaggio e dal lettore-personaggio in quanto converrà comprendere, nel cercare di rispondere al quesito sul rapporto fra la forma del racconto e l’apertura di nuovi spazi di riflessione sulla libertà, quale direttrice seguire nella disgregazione tipica dell’anti-romanzo, sebbene il «gioco» che Diderot instaura con la letteratura imponga di prendere le categorie della narrazione con estrema cautela. Certo si osserverà che i tre livelli romanzeschi conoscono un differente sviluppo nel percorso verso la fine: i racconti “raccontati”, quelli della locandiera, di Jacques o del suo padrone, non conoscono sviluppo nel corso del romanzo, essendo appunto riferiti, appartenenti al passato anche se il lettore non ne vedrà mai la fine.
A ben vedere anche il percorso dei due protagonisti non conosce nessun tipo di avanzamento. I due vagano senza meta, senza tempo, senza luoghi (a parte sparuti segnali), e solo alla fine giungeranno a una destinazione, ma in un attimo ne sono risospinti via, il padrone scappando in sella ad un cavallo, Jacques chiuso in prigione. Il «fatalismo» di quest’ultimo, ma anche le profonde contraddizioni vissute dal personaggio, non muta, resta saldo anche in prigione, anche quando sospetta, secondo l’ultimo paragrafo, il tradimento della donna amata. Così anche l’anonimo padrone, che esiste solo in rapporto al suo servo, alla tabacchiera e al suo orologio, e che continua a credere, nonostante le lunghe conversazioni con Jacques, nella sua libertà.
Un qualche accenno a una evoluzione si ha nell’ultimo livello narrativo, quello abitato dall’autore e dal lettore personaggi, che seppur solo abbozzati sembrano seguire un percorso di progressiva consapevolezza, fino alla piena accettazione di come le vicende sono presentate («vedo, Lettore, che la cosa non ti irrita»), o anche alla possibilità di immaginarsi tutti i finali possibili: il senso dell’opera, sembra suggerire Diderot a questo punto, non verrebbe cambiato, in quanto non è nella storia che risiede la verità («ebbene, riprendi tu il suo racconto dove l’ha lasciato, e continualo a tuo piacere»).
Tuttavia, a una lettura più precisa, un’analisi sulle eventuali evoluzioni nel corso della narrazione appare non pertinente, in quanto non è ai personaggi dei tre livelli che si affida una qualche forma di redenzione, o un percorso catartico, o ancora di formazione. La loro funzione è rappresentare tutte le contraddizioni del caso, portate avanti anche con senso del grottesco e dell’esagerazione. Un reale percorso, che consiste in un’interrogazione sempre più insistente, può essere battuto solo dal lettore empirico, al quale si è aperta la struttura romanzesca intera: quali sono i punti fermi di questa storia?, e successivamente, ha senso chiederselo? Jacques racconterà i suoi amori?, e ancora, è necessario il suo racconto? Si può immaginare una prosecuzione migliore di questi avvenimenti?, e infine, a quale scopo rendere la vicenda più piacevole? Sono le domande del lettore-personaggio, suggerite dall’autore-personaggio e seguite, nel corso della lettura, dal lettore empirico. E nell’interrogarsi di volta in volta, anche il lettore empirico si ritroverà imbrigliato nell’illusione della struttura evanescente, priva di basi solide perché impossibili da realizzare; la ricerca del senso interno risulta vana, così come la ricerca del senso del mondo esterno, in cui vive il lettore, attraverso le risposte date dalla filosofia tradizionale: è questa la critica radicale, la messa in discussione totale. Qualsiasi certezza crolla sotto le picconate dell’ironia, che non lascia scampo a nessun aspetto. Sotto la luce sinistra del riso di Diderot, si esaurisce non solo qualsivoglia anelito finalistico religioso, già scalzato dalla filosofia moderna da almeno un secolo, ma anche tutta l’esattezza, la rettitudine, la forma rigida e complessa con cui il determinismo, e precisamente la filosofia spinoziana, aveva cercato di ri-condurre la possibilità di una qualche libertà alla volontà dell’uomo, a una sua azione o al suo pensiero. Il Jacques non si preoccupa di fornire una nuova direzione, ma di spazzare via quelle tracciate in precedenza. Si erge nella e dalla tradizione per minarne le fondamenta, per istillare un dubbio radicale e irrimediabile, senza ritorno.
I tre gradi di conoscenza parodiati e la totalità della creazione letteraria
Di notevole rilievo appare la ricostruzione del legame fra il Jacques e la riflessione sulla libertà. Precisamente: come questi «nuovi spazi» aperti dal romanzo, e i personaggi implicati che vi agiscono, si rapportano all’idea di libertà etica? Innanzitutto, è necessario individuare il modo in cui raggiungere quella particolare libertà che Diderot tenta di colpire, e come esso è rappresentato nel corso del romanzo.
Si è già definita libertà per l’uomo – nella concezione del filosofo olandese – come dominio degli affetti attraverso l’esercizio dell’intelletto, possibile quanto più alto è il grado di conoscenza della Mente. Ora, nella Mente si trovano ugualmente idee adeguate e inadeguate, cioè idee assolute e perfette, quindi vere (Et., p. II, prop. XXXIV), o idee mutile e confuse, cioè false per difetto di conoscenza (Et. p. II, prop. XXXV). Procedendo da queste, Spinoza distingue tre tipi di conoscenza (Et., p. II, prop. XL, Scol. II): quella del primo tipo, ossia opinione o immaginazione, che muove soltanto dalla percezione sensibile, e in quanto tale è confusa quindi inadeguata; quella del secondo tipo, detta ragione, che muove da idee adeguate delle proprietà delle cose, di tipo dunque scientifico; infine un terzo tipo, detto intuitivo poiché procede dall’idea adeguata di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose, e in quanto tale è la più perfetta fra le tre ed eterna (Et., p. V, prop. XXXI). L’uomo non può sfuggire al determinismo universale, e l’unica libertà che può raggiungere è data dal dominio delle emozioni, che dunque cessa di temere perché necessarie (Et., p. V, prop. XXXVIII). A questa vi si può tendere solo attraverso un lavoro di affinamento dell’intelletto, che consisterà nella conoscenza adeguata di Dio e dei suoi attributi, unica via per raggiungere la felicità suprema, ossia la Beatitudine (Et. p. IV, app., cap. IV), quest’ultima costituita dall’Amor Dei intellectualis, che può nascere solo dal terzo genere di conoscenza ed è eterno (Et., p. V, prop. XXXIII). Per Spinoza, dunque, il percorso verso la libertà è preciso, razionale, soprattutto esclusivo, essendo la libertà una e una soltanto, corrispondente alla conoscenza della perfezione divina, la quale essendo perfetta ed eterna non conosce interruzioni («appartiene all’essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto ciò che esprime un’essenza e non implica alcuna negazione», Et., p. I, def. VI, spieg.).
Proviamo a rapportare la conoscenza adeguata, l’unica in grado di guidare verso la libertà per il determinismo spinoziano, ai diversi piani narrativi del romanzo di Diderot. Volendoci attestare al livello più evidente, quello dei due protagonisti, osserviamo come siano in scena due forze conoscitive differenti, che invero sembrano messe radicalmente in discussione (o in ridicolo). Il padrone di Jacques è infatti mosso in ogni situazione da diverse passioni: la curiosità, in cui la volontà di conoscere, fino quasi all’esasperazione, gli amori di Jacques rappresenta il momento più rappresentativo e fondante del personaggio per tutta la narrazione; gli accessi di ira, scaturiti non di rado dal desiderio di possesso o di controllo del mondo esterno, come nella celebre scena nella locanda e il bisticcio “scendi-non scendo” col suo servo; malinconia, di cui è pervaso significativamente quando è allontanato dal suo servo; imprudenza e frettolosità di agire, come racconta è accaduto con Agathe, fidandosi troppo della bontà del cavaliere di Saint-Ouine (che cavaliere non è, ma il padrone non se ne avvede nemmeno a truffa consumata, e sarà il giudice a rivelarglielo in prigione), e come succede anche nella scena finale, quando uccide il cavaliere e fugge via a cavallo. Egli è costantemente mosso, in balia delle pulsioni che non aggrediscono il personaggio ma lo costituiscono a priori. Non può mancare una spinta alla razionalizzazione, a comprendere il mondo esterno e a farlo proprio, in una costante volontà, mai paga, di dominio. Eppure, il suo procedimento, a ben vedere, parte dagli effetti, cioè le passioni da cui è mosso, e da queste cerca di risalire alle cause nel desiderio della comprensione; ossia il padrone muove dalle percezioni sensibili per provare a comprendere il mondo esterno, dunque egli mette in atto il primo tipo di conoscenza, caratterizzata da idee inadeguate e confuse.
Jacques, apparentemente al contrario, sembra voler assumere il procedimento inverso. Egli vorrebbe partire dalla causa prima, rappresentata dal «rotolo lassù» e causa del suo radicale fatalismo, e da essa muovere verso la comprensione del mondo in cui è immerso, della sua condizione di servo, delle bastonate ricevute o delle avventure che si trova a vivere, cercando di accettarle serenamente; cerca di non essere curioso né precipitoso, nonostante si trovi spesso ad agire. Egli, non muovendosi nel solco del secondo tipo di conoscenza, che implica un metodo scientifico, cioè la partenza non dalla causa prima, ma dalle notiones communes, riferite alle singole scienze (Et., p. II, prop. XXXVIII, coroll.), sembra scimmiottare il terzo genere di conoscenza, che implica un salto intuitivo dalle nozioni comuni, potenzialmente infinite quante sono i singoli fenomeni fisici, alla causa prima, Dio, che abbraccia tutta la realtà causale in uno sguardo unitario. Scimmiotta, appunto, ma non raggiunge, e lo si osserva facilmente nelle situazioni (piuttosto frequenti) in cui Jacques si trova ad essere in contraddizione con sé stesso e con le teorie professate; la sua psicologia è sempre mutevole, al contrario delle teorie spinoziane che dice di aver assimilato. È un personaggio profondamente contraddittorio, sconfessato da sé stesso e dal narratore in più punti («si potrebbe immaginare che Jacques non si rallegrasse, non s’affliggesse di niente; tuttavia ciò non era vero»).
Dunque, almeno questo livello narrativo non è portatore di un’idea di libertà etica accolta dalla tradizione. I personaggi non ne hanno i contorni, il modo di procedere, l’organicità; essi non sono sinceri perché non sono seri. Diciamo seri non nel senso che il riso o l’ironia non siano in grado di fornire una risposta al quesito, ma nel senso che i loro tratti sono deformati, estremizzati, resi grotteschi da un integralismo che non nasce dalla volontà di rappresentazione reale del mondo o di un’idea, ma dall’esasperazione stessa di alcuni concetti. È la cifra dell’ironia, del gioco, usati per destabilizzare, attraverso la finzione scenica, le fondamenta del mondo costituito. Appartiene alla linea dei personaggi che abbiamo prima brevemente costituito: Pantagruele e Gargantua, Don Chisciotte, Tristram Shandy, non estranea neanche al più tradizionale conte philosophique, come in Voltaire, sebbene utilizzi forme tradizionali. Non è, dunque, il modo in cui agiscono o parlano i personaggi a fornire nuovi spazi in cui inserire una riflessione sulla libertà, in quanto ciò che agisce è contraddittorio con sé stesso, ossia – suggerisce Diderot – alla finzione letteraria non può essere affidata alcuna verità. La storia narrata, le vicende, il finale, non bastano e non soddisfano il filosofo, così che esse vengono distrutte, mescolate, disgregate dalla scelta di operare in senso anti-romanzesco.
Calvino afferma che «la libera scrittura di Diderot s’oppone tanto alla “filosofia” quanto alla “letteratura”», eppure «oggi quella che noi riconosciamo come la vera scrittura letteraria è proprio la sua»[ref]Calvino, Il gatto e il topo, art. cit. [/ref]. Diderot, infatti, nel gioco di specchi, di livelli narrativi, di piani consequenziali o intrecciati, nel continuo attirare verso di sé il lettore, con il duplice escamotage del lettore-personaggio e del rapporto che il lettore empirico instaura con quest’ultimo, riesce a porre in essere un sistema organico definitivo, in cui l’universo disgregato dell’anti-romanzesco si fa riflesso dell’extra-romanzesco, anch’esso dunque liquefatto dal dubbio proveniente da una radicale ironia, e volge per questo verso l’esterno le necessità di una riflessione nuova e rinnovata, che paradigmaticamente nasce in antitesi alla tradizione, ben assimilata ma consunta. In questo senso, allora, quelle crepe nate dalla disgregazione del romanzesco aprono nuovi spazi di riflessione sulla condizione umana, o più precisamente sulla schiavitù dell’uomo che non è in grado di fuoriuscire dalla necessità dell’essenza delle cose. La disgregazione della forma non è, in definitiva, la disgregazione della letterarietà, ma una sua affermazione come unico modello per giungere a una messa in discussione totale.
La tagliente e pervasiva ironia è diretta a chi crede di poter dominare la realtà, di poter davvero creare ex novo qualcosa, una storia ad esempio, un finale univoco (dunque, in primis è l’autore a fare dell’autoironia). Ironia diretta soprattutto al lettore, chiamato in causa all’interno della narrazione stessa. Egli è inserito fin dall’inizio nello spaesamento che la consapevolezza della schiavitù pone, spaesamento che nasce dalla volontà, simile a quelle del padrone, di porre un ordine, di trovare un senso a partire dai fatti concreti, dunque di procedere dagli effetti (le singole storie) alla causa (ordine necessario extra-storico) inevitabilmente passando per idee confuse e inadeguate. In questo senso la dilatazione spropositata del racconto, il meccanismo «a incastri» che annacqua e sconvolge il naturale succedersi per causa ed effetti del meccanismo tradizionale romanzesco, colpisce il lettore nel suo mondo, riportandolo alla fragilità del suo essere nell’insensatezza del mondo stesso, determinato dall’insensatezza di mettere ordine nel racconto. L’anti-romanzesco prorompe scoprendo i trucchi narrativi stessi, parodiandoli, decretando la fallacia della pretesa di una qualche interiorità nel romanzo, che invece procede verso l’esterno, nel mondo del reale (di «antipsicologismo» parlerà Quintili)[ref]P. Quintili, Nota introduttiva, in Diderot, Opere filosofiche, op. cit. [/ref].
In tal senso, ponendo in discussione la stessa creazione letteraria e riportando il lettore alla fragilità del suo mondo, dunque della sua condizione, gli spazi per la libertà etica, che pure si vogliono aperti, non offrono alcuna soluzione, né forse delle vie di fuga, ma procedono problematizzando la condizione umana. La messa in discussione della forma del racconto raggiunge, in una parabola che continua al di fuori del testo, la messa in discussione dell’uomo stesso e del proprio mondo. Le soluzioni trovate dalla filosofia non bastano più a fornire una soluzione: dal tutto ha un senso extra-storico alla messa in discussione radicale dell’individuo storico. Per far questo, Diderot si serve dell’architettura del romanzo, che sconvolge dalle fondamenta. Solo da questa destabilizzazione possono essere generati nuovi spazi – non comodi – in cui porre in discussione l’uomo, mettendo ai margini qualsiasi finalismo o determinismo.
L’uomo nudo e solo
Comprendere a fondo il problema posto da Diderot in Jacques le fataliste non può prescindere dal porre al centro la scelta dell’utilizzo del racconto per un problema di tipo filosofico. Non è il primo, e anzi la tradizione filosofica conta un utilizzo assai prolifico della narrazione in questo campo. La scelta è probabilmente dettata dalla natura stessa del genere narrativo, ossia principalmente la malleabilità della costruzione finzionale della trama (o delle trame), la scelta dei personaggi, i loro affetti, i loro comportamenti, le loro reazioni, la rete relazionale in cui si trovano a muoversi, a riflettere o ad agire. Infine, ed è l’elemento precipuo nel racconto diderotiano, la possibilità di trasformare, piegare, rigirare l’impalcatura romanzesca in sé, ossia lavorare sulla forma prima ancora che sul contenuto per veicolare messaggi ancora più pervasivi e radicali.
Diderot si muove nel solco della filosofia deterministica che dal Seicento si è sviluppata, con esiti differenti, fino al Settecento francese, ereditata principalmente dalla lettura dell’Etica di Spinoza. Essa, sbaragliando ogni tensione finalistica, è spesso tesa verso la riflessione sulla condizione umana, in particolare verso il tema della libertà: se si accetta che l’uomo non può agire liberamente, perché schiavo di una necessità assoluta, come declinare il tema della libertà? La risposta di Spinoza è legata alla conoscenza, la quale si deve avvicinare il più possibile alla conoscenza di Dio, cioè della causa prima di tutte le cose. Nel Jacques, Diderot non apre la questione direttamente, ma si affida al racconto, il quale, malleabile fin nel profondo, può effettivamente aprire nuovi spazi di riflessione filosofica.
Il filosofo dell’Encyclopédie costituisce un racconto a più piani narrativi, costituiti dalle storie raccontate e mai finite, le vicissitudini di Jacques e il suo padrone, l’intervento, a spezzare la finzione narrativa, del narratore diretto al lettore; essi vengono deformati e distorti, creando un meccanismo narrativo non chiuso, in cui la trama segue una parabola unitaria e persino la fine presenta notevole difficoltà di contestualizzazione. Le crepe formate rompono con la tradizione canonica romanzesca, seppur si inseriscono in una linea precisa definita «anti-romanzo», che da Cervantes giunge fino a Diderot. Questa disfatta, ravvisabile nelle crepe della struttura tradizionalmente intesa, offrono nuovi spazi di riflessione necessari per aprire un problema filosofico, soprattutto in quel particolare clima culturale libero e libertario della Francia del secolo dei Lumi, che aveva fatto dell’ironia la sua cifra più rappresentativa.
La disgregazione della forma, inoltre, genera una struttura romanzesca non chiusa, che si apre al lettore anche grazie all’inserimento di un lettore e un autore personaggi nel corso del romanzo, a formare un livello narrativo più vicino al lettore empirico. Ne consegue che gli spazi generati dalla rottura della forma, che sono spazi non più solamente appartenenti al romanzesco, ma anche e soprattutto al mondo del lettore a cui la forma disgregata si è aperto, e quindi al mondo dell’uomo storico, costituiscono il luogo e il motivo della riflessione sulla condizione della realtà, e dunque dell’uomo nella realtà. La condizione stessa del romanzo, con alcuni temi trattati seppur senza una trama netta, con storie aperte e mai concluse, con personaggi ricchi di contraddizioni (fra cui il più rilevante è ovviamente il «fatalista» Jacques, integerrimo nelle intenzioni ma di fatto costantemente smentito da sé stesso o dal narratore) pongono la questione della libertà – seppur non è la sola ad emergere – dell’uomo, sviluppata attraverso la dialettica servo-padrone, o attraverso la libertà di intervenire sulla narrazione da parte del lettore o del narratore stesso. Tirando le fila del romanzo, seguendo le storie raccontate, il comportamento dei personaggi, lo sviluppo della scarna trama principale, che si conclude in un finale non univoco, non si giunge a una risposta definitiva; tutto il romanzo, infatti, nella sua articolazione e nella sua struttura, pone la questione della libertà problematizzandola, senza fornire risposte nette o decise. L’uomo scopre la propria fragilità, la contraddizione di un mondo non finalistico abitato da un essere alla continua ricerca di un senso.
La forma del racconto, una volta aperta al mondo, apre effettivamente nuovi spazi per ripensare alla libertà etica. Tali spazi, ben lungi dal fornire una risposta sulla natura della libertà o sul raggiungimento della stessa, con il loro movimento incessante nel corso del romanzo, si occupano di confondere, di disgregare le certezze che ancora abitano il mondo storico (la società, il finalismo cristiano, la ricerca di un senso). Diderot, armato di un’ironia puntuta e radicale, efficace perché rivolta anche contro sé stesso e contro la tradizione filosofica da cui giunge, non è interessato a fornire una via percorribile, ma a destabilizzare qualsiasi dimensione che ancora non abbia messo in discussione sé stessa. Questo è il senso della ragione: terremotare ogni categoria precostituita, porre alle strette qualsivoglia tradizione per metterla in discussione dall’interno, senza dare nulla per già fornito, nemmeno la forma – dalla distruzione del romanzo nascerà un anti-romanzo potente e disincantato, in grado di interrogare la letteratura e la verità ad essa affidata.
Qui Diderot è più scrittore che teorico, e prima che alla libertà, i nuovi spazi implicati dal Jacques si aprono all’uomo storico e universale e al mondo che si trova a vivere. Il motivo di questa apertura risiede nella volontà della disfatta di qualsiasi mito o racconto, anche letterario, per lasciare l’uomo nudo con sé stesso, dinnanzi a quella «natura matrigna» di cui parlerà Leopardi qualche anno più tardi.