Popolo e nazione nell’epoca moderna: dalla Pace di Westfalia a Napoleone
Giovanni Magrì
Carl Schmitt dirà che “Stato è un determinato status di un popolo, e precisamente lo status dell’unità politica” (Dottrina della costituzione, tr. it. cit., p. 271). Ma, se vale quel che ci ha insegnato Hobbes, non esiste un popolo come dato pre-politico, “naturale”, che da un certo momento in poi consegue lo status dell’unità e cioè diventa il popolo “di” uno Stato; il popolo esiste solo come popolo di uno Stato e, quindi, esiste solo dal momento che è rappresentato come unità. Prima di allora, esiste solo la moltitudine dei singoli che, in quanto tale, non è capace di agire politicamente. Non si può dire che Hobbes abbia risolto tutti i nostri problemi. Egli, in sostanza, ci dice che i singoli danno a una persona (il sovrano) mandato di rappresentarne la volontà, e solo in quel preciso momento sorgono, insieme, lo Stato e il suo popolo. E ci dice che questo accade perché, senza la forza del sovrano e il diritto dello Stato, gli individui umani, gli uomini isolati, finirebbero con l’uccidersi gli uni con gli altri, o con il vivere, sempre, ciascuno nella paura di poter essere ucciso da tutti gli altri. Qualcuno ha visto però al cuore di questa teoria un paradosso: se allo stato di natura esistono solo individui la cui unica “regola” d’azione (l’unico ius naturale) è “la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò” (Leviathan, XIV); e se solo il monopolio della forza in capo al sovrano, esito del “patto sociale”, può scongiurare il bellum omnium contra omnes che altrimenti ne deriverebbe; cosa induce gli individui a stipulare il patto e a dargli esecuzione, ciascuno confidando che anche gli altri lo faranno, prima (logicamente se non cronologicamente) che sia istituito il potere sovrano che, solo, può assicurare al diritto un’adeguata forza coattiva? Hobbes deve ipotizzare, insieme allo ius naturale, anche una lex naturalis puramente razionale, uno dei dettami della quale è che “pacta sunt servanda”. Probabilmente, è più vicino al vero riconoscere che, per fare un popolo in senso politico, debba prima esservi una qualche inclinazione – emersa nella storia – a stare insieme e a progettarsi insieme nel futuro. Una cosa tuttavia va sottolineata per adesso: all’altezza del Leviatano, esattamente come in tutta la storia delle istituzioni europee fino a quel momento, tale inclinazione non è legata all’elemento della “comunità nazionale” più che a qualsiasi altro fattore storico. Anche se, negli anni immediatamente precedenti alla pubblicazione del capolavoro di Hobbes, è accaduto qualcosa di enorme significato storico: è stato archiviato, di fatto, il Sacro Romano Impero (Germanico), perché è venuta meno l’unità del populus Dei. È del 1517 l’affissione delle tesi di Wittenberg e già nel 1555 (cd. pace di Augusta) una buona parte degli elettori dell’Imperatore (principi, vescovi, “città libere” e leghe di quella che oggi chiamiamo Germania) chiedevano e ottenevano da Carlo V lo ius reformandi, cioè la facoltà di abbracciare la fede luterana rendendola, così, la confessione “ufficiale” (di lì a poco si sarebbe detto: “religione di Stato) nei loro territori, secondo il principio cuius regio eius (et) religio. Di lì a poco (1618) sarebbe iniziata la Guerra dei Trent’anni, combattuta sostanzialmente contro le residue pretese egemoniche dell’Impero, ma occasionata da motivi confessionali e che avrebbe schierato (con qualche approssimazione) sovrani protestanti contro sovrani cattolici; si sarebbe conclusa (appunto, trent’anni dopo: cd. pace di Westfalia, 1648) con la generalizzazione del principio cuius regio eius et religio ai rapporti tra Stati sovrani in Europa. E in questo modo anche l’Impero diventava uno Stato tra gli altri: che ci stava a fare, infatti, un custode del diritto comune e della vera fede, incoronato dal Papa, se né il diritto né la fede erano più riconducibili ad unità, e il Papa non era più riconosciuto da tutti? Il Leviatano viene pubblicato tre anni dopo, a chiusura di un secolo di guerre civili su base religiosa in Inghilterra, tra Tudor, Stuart e Repubblica di Cromwell, ovvero tra protestantesimo episcopale di Stato (anglicanesimo), cattolicesimo e protestantesimo presbiteriano (puritanesimo). È quella della guerra civile occasionata da motivi confessionali, dunque, per i lettori di Hobbes, l’immagine più vicina nel tempo di un bellum omnium contra omnes, in cui ne va della sicurezza della vita di ognuno. Ecco perché i capitoli da I a XXXI del Leviatano sono dedicati a “L’uomo” e “Lo Stato” (parti I e II), ma i capitoli da XXXII a XLVII (mediamente più lunghi, oltretutto) sono dedicati a “Lo Stato cristiano” e “Il regno delle tenebre” (parti III e IV), e il titolo completo dell’opera suona “Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile”. Anche il principale critico (e però, per molti versi, principale continuatore) di Hobbes, John Locke, si occuperà a lungo del potere “ecclesiastico”, sia nei Trattati sul governo, sia nella Lettera sulla tolleranza. E perfino il terzo dei maggiori innovatori della teoria politica nella modernità, Jean-Jacques Rousseau, dedicherà una parte cospicua del suo Contratto sociale al bisogno che ogni comunità politica ha di una religione; magari non di quella cristiana, che si è dimostrata inidonea a promuovere le “virtù” repubblicane (oggi diremmo: il senso civico), ma, se non altro, di una “religione civile”. In tutti e tre i casi la religione – di cui il sovrano fissa le regole del culto pubblico, o di cui assicura con mezzi legalmente coattivi la tolleranza, o che il popolo abbraccia in uno con l’esercizio della libertà “civile” o “politica” – non è un’eredità tramandata, un depositum fidei, ma è “scelta” con lo stesso atto fondamentale di libertà con cui si “istituisce” il legame sociale per superare uno stato di natura non (più) ordinato. Che insegnamento trarre, da quest’altro pezzo di storia? Semplificando: che il popolo viene di nuovo messo a tema come soggetto politico, proprio quando il vecchio popolo dell’Impero (che per tutto il Medioevo era stato, né più né meno, il populus Dei) è diviso e, così com’è, non può più stare a fondamento di alcuna legittimità e di alcuna azione politica. E che la nuova legittimazione e la nuova unità politica del popolo si perseguono proiettandole nel futuro: in un futuro liberamente scelto, da individui “liberi per natura” (e perfettamente uguali tra di loro, se non altro, proprio in questa “naturale” libertà).
“Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”: questo verso, tratto dall’ode Marzo 1821 di Alessandro Manzoni, sintetizza in maniera straordinaria cosa intendessero per “nazione” o “comunità nazionale” (o, in tedesco, “comunità di popolo”: Volksgemeinschaft) gli uomini europei del XIX secolo (che di queste espressioni cominciarono, dall’oggi al domani, a fare uso e anche abuso). Che poi, oltre che perfettamente sintetica, questa rappresentazione sia anche realistica o storicamente attendibile, è tutt’altra questione. Comunque sia, bisogna sottolineare che, in poco più di tre decenni, il clima culturale era cambiato enormemente. Un antefatto: tra il 1792 e il 1815 il popolo francese si è mosso in armi, sotto insegne nuove (il tricolore blu, bianco e rosso) e al suono di un nuovo inno (la già citata Marsigliese); ha ingrossato le fila dell’esercito repubblicano, rendendolo al tempo stesso molto numeroso (per via dell’arruolamento di massa, a fronte dei vecchi eserciti fatti di “professionisti” delle armi, in buona parte mercenari) e molto motivato (perché chiamato a difendere una conquista di libertà, diventata identità collettiva, contro un accerchiamento di interessi e privilegi, dinastici e di classe). Quella che sarà chiamata la Grande Armée arriva fino in Egitto e fino a Mosca; insedia nuovi regnanti in Spagna, a Napoli, in prospettiva perfino a Vienna; sbaraglia l’esercito prussiano e, come sanno tutti gli studenti dell’ultimo anno dei licei, il 13 ottobre 1806 Napoleone sfila per le strade di Jena, inducendo Hegel a scrivere in una lettera all’amico Niethammer: “Ho visto l’Imperatore – quest’anima del mondo – cavalcare attraverso la città per andare in ricognizione: è davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato in un punto, seduto su di un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina”. Ma quel che più conta è, forse, quanto di tale impressione resta nel capolavoro filosofico composto da Hegel proprio a Jena, la Fenomenologia dello spirito. Qui (provando a riassumere: ma è un’impresa temeraria!) Hegel teorizza che l’uomo perviene all’autocoscienza solo attraverso “l’azione negatrice e creatrice della lotta per il riconoscimento”: è questa lotta che, distinguendo il signore dal servo e poi continuamente rimettendo in gioco tale distinzione, emancipa l’uomo dalla sua animalità e “fa” la storia. Ma a questa storia Napoleone ha messo un punto fermo: portando lo “spirito” della Rivoluzione francese, con le istituzioni in cui esso si è tradotto (anzitutto, il Codice civile dei francesi), in tutta Europa (e la battaglia di Jena è il momento in cui sembra essere caduto l’ultimo avversario), egli ha, almeno in linea di principio, fondato uno “Stato universale e omogeneo”, in cui si realizza il riconoscimento reciproco di tutti. Così, venendo meno la lotta per il riconoscimento, l’uomo avrebbe cessato per sempre di “cambiare se stesso in modo essenziale”, di svilupparsi come uomo. In effetti, nel momento in cui il processo della formazione dell’uomo è compiuto, le possibilità della storia, in quanto sfera dell’agire pratico, giungono a saturazione: è il tema della “fine della Storia”, ritrovato nelle pagine di Hegel da molti suoi grandi interpreti novecenteschi, come Alexandre Kojève e Georges Bataille, fino alla ripresa che, all’indomani della caduta del muro di Berlino, con un fortunato articolo del 1989 e poi con un libro di grande successo, ne farà l’analista politico americano Francis Fukuyama[1]. Eppure, dopo la battaglia di Jena la Storia non è affatto finita (e, a dire il vero, neanche dopo la caduta del muro di Berlino). Otto e Novecento sono secoli “pieni di storia”, cioè di avvenimenti, per lo più tragici, in cui ne andava comunque del senso del nostro stare al mondo. Ebbene, il principale responsabile di questa “ripartenza della Storia” è stato una sorta di inversione di significato politico tra “popolo” e “nazione”; un’inversione prodotta direttamente o indirettamente dalla “grande guerra francese”, cioè dalle guerre rivoluzionarie e poi dalle campagne napoleoniche.
Analisi del testo
- Per ogni termine evidenziato in grassetto (per lo più concetti e autori) gli studenti presentino in nota una breve ricerca, soffermandosi sugli aspetti più significativi per comprendere l’utilizzo che ne fa Magrì nel testo
- Gli studenti spieghino il senso della teoria politica di Hobbes in riferimento alle guerre di religione che hanno segnato la storia moderna
- Per quale ragione Magrì ritiene che il verso manzoniano, “Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” , sintetizzi bene la nuova idea di “comunità nazionale” nel XIX secolo?
- Gli studenti esplichino il ruolo di Napoleone nella storia secondo Hegel
[1] La fine della storia e l’ultimo uomo. La democrazia liberale è il culmine dell’esperienza politica?, tr. it. Rizzoli, Milano 1992