Senza mediazione la comunicazione è soprattutto propaganda
Claudio Giua
La comunicazione politica e sociale del secondo dopoguerra cambia per sempre nell’autunno del 1987 nel corso delle quattordici puntate dello show abbinato alla miliardaria Lotteria di Capodanno, in onda ogni sabato sera dieci minuti dopo la fine del Tg1 diretto dal cattolico Nuccio Fava. Il direttore generale della Rai Biagio Agnes – anch’egli cattolico, osservanza demitiana – dopo molti tentennamenti affida Fantastico 8 ad Adriano Celentano. Il più longevo manager di viale Mazzini non sa – racconteranno poi – che l’ex molleggiato ha visto e rivisto “Quinto potere”, il film di Sidney Lumet del 1977 sull’impatto che la televisione ha sull’opinione pubblica. Peraltro, l’Italia ha scoperto nell’estate del 1981, con la lunga diretta da Vermicino durante la quale s’è compiuta la tragedia di Alfredino Rampi, fino a quale livello la tv del reale può coinvolgere e condizionare il comune sentire del paese.
Già dalla prima puntata, il 3 ottobre, l’ex molleggiato fa di testa propria, rompe ogni schema e affonda i colpi là dove avevano lasciato solo scalfitture l’impertinenza giacobina di Dario Fo a Canzonissima 1962 e le esternazioni antisocialiste e protopentastellate di Beppe Grillo su RaiUno nel 1985. I suoi silenzi e i suoi appelli mandano in frantumi il sistema di censure e autorizzazioni che nel secondo dopoguerra ha condizionato i media italiani, centralizzati e gerarchici persino nelle esperienze eretiche del Manifesto, di Lotta Continua, del Borghese o di Radio Radicale.
Celentano parla ai milioni di telespettatori senza copioni né mediazioni. Usa con abilità un linguaggio semplice, valorizzato dalle pause che la tv tradizionale odia ed evita. Mette entrambi i piedi nel piatto del dibattito politico. Comincia chiedendo un minuto di riflessione contro l’inquinamento da rumore mediatico: “Se volete cambiare canale fatelo pure, ma quali cazzate troverete che siano migliori di quelle che sto dicendo io?”, spiega. Per l’8 e 9 novembre sono indetti i cinque referendum abrogativi promossi dai radicali (responsabilità civile dei magistrati, commissione inquirente sui reati dei ministri, veto alle centrali nucleari, contributi agli enti locali che ne accettano la costruzione, partecipazione dell’Enel alla produzione di energia nucleare all’estero): il conduttore afferma che i cittadini non sono stati messi in grado di capire la portata delle consultazioni e dà un segnale non equivocabile prendendo posizione sui due quesiti sulla caccia bocciati dalla Consulta. Nel silenzio del Teatro delle Vittorie scrive su una lavagna: “La caccia è contro l’amore, non la vogliamo”. Propone che gli elettori copino la frase su ogni scheda referendaria per annullarla.
Mai nella storia della Repubblica qualcuno s’è spinto così avanti nel comunicare direttamente con i cittadini-telespettatori. La Rai multa Celentano, che però il 21 novembre rilancia la sfida invitando quanti lo seguono a “sintonizzarsi su Canale 5”. È una prova di forza, e la stravince: in almeno tre milioni cambiano canale. Poi tocca a Franca Rame raccontare a Fantastico in prima serata – la cosiddetta ”fascia protetta” – dello stupro subito per mano fascista e a Dario Fo recitare un monologo su Gesù Bambino tratto dai vangeli apocrifi, che la Cei bollerà come blasfemo. La provocazione più antitelevisiva arriva il 28 novembre con l’interminabile inquadratura della foto della storica stretta di mano fra Ronald Reagan e Mickhail Gorbaciov, seguita dall’invito agli italiani di appoggiare il processo di distensione tra le due superpotenze spegnendo il televisore per 5 minuti: secondo l’Auditel, che rileva gli ascolti dall’anno precedente, gli danno retta in 8 milioni 65 mila.
Sono testimone diretto dell’effetto di Fantastico versione Celentano sull’organizzazione del lavoro nei giornali. Da pochi mesi capo del settore politico di Repubblica, dal 10 ottobre sono costretto a modificare la copertura redazionale del week end facendo turnare più persone e ritardando la chiusura del sabato sera, in modo da resocontare ampiamente sugli argomenti e sulle iniziative dello showman. Che l’indomani ottengono ampio spazio in prima pagina. È un’anticipazione di quanto accadrà trent’anni dopo nelle redazioni delle principali testate cartacee, online e televisive americane, che anticiperanno riunioni e iter decisionali a seguito dell’abitudine di Donald Trump di twittare all’alba sui più disparati temi, trasformandoli nelle priorità della giornata politica.
Dopo Fantastico 8, per almeno un quinquennio le reti Rai e Fininvest (il marchio Mediaset sarà varato successivamente) evitano di concedere ad altri artisti il potere mediatico che per oltre tre mesi Celentano ha avuto a disposizione, pur senza convertirlo in azione politica. Di certo Berlusconi fa tesoro della lezione del cantante e attore quando il 26 gennaio 1994 manda in onda in simultanea sulle sue tre reti il messaggio di nove minuti nel quale annuncia la nascita di Forza Italia. Il risultato è superiore a ogni previsione: due mesi dopo vince le elezioni e prende per la prima volta la guida del paese.
I fatti mediatici del 1987, così come quelli del triennio 1992-1994 (gli appelli dei magistrati di Mani Pulite, le monetine dell’Hotel Rafael, la “discesa in campo” del Cavaliere, il processo Enimont, l’addio di Antonio Di Pietro alla toga: tutti eventi in diretta tv), servono sociologicamente e politicologicamente a spiegare perché gli italiani sono tanto affezionati ai balconi, ai pulpiti e ai palcoscenici dai quali partono i messaggi che i media radiotelevisivi, per definizione broadcast e verticali, s’incaricano di rilanciare senza interposizioni.
Oggi un errore frequente è rappresentare la comunicazione reticolare e orizzontale dei social network come alternativa a quella radiotelevisiva. Non è così. Nell’ambito politico, e non solo, gli smartphone e i social ripropongono, aggiornato, l’effetto-balcone che si caratterizza per assenza di mediazione e di contraddittorio.
L’errata percezione è dovuta al fatto che Facebook, Instagram, WhatsApp, Twitter, YouTube consentono a chiunque di produrre contenuti e diffonderli ad “amici”, che a loro volta li girano ad altri “amici” e via così di cerchia in cerchia; si alimenta in questo modo la sensazione personale e, talvolta, collettiva di poter influire sulla formazione delle opinioni e delle scelte. Eppure la qualità dei social che più piace ai comunicatori professionali è la capacità di veicolare a moltitudini i messaggi non filtrati creati da soggetti con interessi rilevanti. Se il sogno di chiunque voglia evitare il contraddittorio è l’amplificazione e la distribuzione capillare di informazione mirata, i social lo realizzano: in due parole, è la “propaganda perfetta”. Si pensi, ad esempio, all’efficacia della comunicazione via YouTube, Twitter e Facebook di Matteo Salvini, apparentemente immediata e naïf ma ispirata e coordinata dai professionisti guidati da Luca Morisi. Oppure al ruolo svolto nella definizione dell’agenda politica italiana, sfruttando le potenzialità dei social network, da parte delle strutture ad hoc del M5S guidate da Rocco Casalino nella seconda parte della precedente legislatura e, adesso, da Palazzo Chigi.
Se nell’ecosistema digitale socializzato è oggi più agevole per chiunque saltare la mediazione nel rapporto con i cittadini, altrettanto importante si rivela condizionare gli effetti dell’informazione tradizionale grazie ai social network. In “Partisanship, Propaganda, and Disinformation: Online Media and the 2016 U.S. Presidential Election” i ricercatori Faris, Roberts, Etling, Bourassa, Zuckerman e Benkler del Berkman Klein Center dell’università di Harvard individuano quali testate – sia le poche impegnate a evitare le trappole delle fake news, sia le molte che operano in sinergia con lo stesso fenomeno disinformativo – abbiano maggiormente influenzato le opinioni e, di conseguenza, i voti espressi dagli elettori in occasione delle primarie e delle presidenziali. Impressiona, per esempio, scoprire che i contenuti del sito Breitbart, il preferito dalla destra estrema per diffondere notizie non verificate e distorte contro l’amministrazione Obama e poi ai danni dei candidati democratici Sanders e Clinton, sono stati più ritwittati di quelli del New York Times, del Washington Post, di Cnn, di Huffington Post, di Politico durante la lunga campagna elettorale. Si può affermare che, senza le ingannevoli news di Breitbart rilanciate dai social, Trump non sarebbe alla Casa Bianca.
Senza mediazione, dunque, la comunicazione è soprattutto propaganda. E la propaganda funziona meglio se s’avvale di ogni canale disponibile. La conferma la dà ancora Trump, il disintermediatore per eccellenza, che in occasione dello shutdown – la paralisi dell’amministrazione pubblica conseguente al mancato varo della legge di bilancio per l’opposizione democratica al finanziamento del muro anti-immigrazione lungo la frontiera occidentale con il Messico – s’è rivolto agli americani attraverso i network televisivi nazionali: l’ha fatto, come diciamo in Italia, “a reti unificate” martedì 8 gennaio. Nessuna emittente ha saputo o potuto verificare la veridicità delle affermazioni di Trump mentre venivano pronunciate. Al contrario, i siti delle maggiori testate hanno garantito il fact checking in tempo reale. Lo stesso è accaduto nei minuti successivi, quando al presidente hanno replicato, sempre live, i leader democratici Nancy Pelosi e Chuck Schumer. Ciononostante, nella mezz’ora complessiva di messaggi bipartisan al paese, quasi 42 milioni di cittadini si sono sintonizzati sulle sette reti nazionali (8,1 milioni di telespettatori Cbs, 8 milioni Fox News, 7,4 Nbc, 5,8 Abc, 4,2 Msnbc, 3,6 Cnn, 2,9 Fox, 1,7 Univision). Twitter, Facebook e gli altri social hanno rilanciato gli interventi e messo in moto dibattiti che hanno coinvolto altre decine di milioni di americani. Il dubbio irrisolto è se l’overdose di comunicazione senza filtri e le miriadi di talk show digitali senza regole realizzino o meno l’informazione corretta di cui ogni democrazia ha vitale bisogno.