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Da Mosè ad Abraham Maimonide. L’innovazione che articola la tradizione nel passaggio da padre a figlio

 

di Giovanni Luchetti

 

1.

 

Abraham Maimonide è una figura certamente meno nota rispetto a quella di suo padre Mosè, personalità di costante attualità nonostante il trascorrere dei secoli. Eppure proprio l’analisi di questo passaggio di testimone tra padre e figlio, a metà fra tradizione e rottura, può offrire un significativo punto di orientamento nel caotico e spesso indecifrabile mondo contemporaneo. Il Nagid Abraham, in continuità con la celebre e spesso ingombrante figura paterna, fu un esempio di apertura, dialogo, sincretismo – nel senso più alto di questa parola – fra culture e tradizioni diverse. Ebreo nella vita, nel pensiero e nell’opera, ereditò dal padre anzitutto l’apertura della filosofia all’ebraismo e dell’ebraismo alla filosofia.

Dall’osservazione della società ebraica egiziana del XIII secolo e dall’influenza filosofica e religiosa lasciata da Mosè Maimonide a suo figlio Abraham emerge uno scenario di grandi sconvolgimenti in Egitto: una serie di devastanti terremoti, carestie, e la peste, il cui impatto economico e demografico fu avvertito negli anni a venire.

Questo periodo, tuttavia, segnò anche la fioritura di un movimento pietista tra gli ebrei d’Egitto, i cui rituali e ideali riflettevano il profondo impatto del Sufismo di matrice islamica. Abraham Maimonide emerse come il portavoce più ardente del nascente movimento, utilizzando la sua influenza e il suo prestigio come guida della comunità ebraica al fine di riconoscere la necessaria legittimità ai cosiddetti “pietisti”, che spesso si trovarono sulla difensiva con i loro compagni ebrei e le autorità musulmane. Alcune di queste misure controverse possono aprire una finestra sulla gestione della leadership religiosa per opera del Nagid Abraham, e offrire una chiave per analizzare i profondi cambiamenti nella vita spirituale della comunità ebraica egiziana e le possibilità di fratellanza tra diverse comunità religiose nel mediterraneo. Possibilità che sono emerse con autorevolezza e speranza nello storico incontro del 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, tra Francesco, il Papa, e Aḥmad al-Tayyeb, il Grande Imam di al-Azhar. I due leader si sono riconosciuti Fratelli, hanno firmato uno storico documento sulla fratellanza e hanno provato a offrire insieme uno sguardo sul mondo d’oggi. Raggiungendo quale consapevolezza? Che l’unica vera alternativa che sfida e argina lo scontro di civiltà è la fratellanza.

 

 

2.

 

Abraham Maimonide nacque quando suo padre Mosé era all’apice della sua fama. Il leader di una generazione, il Nagid della sua gente, fisico presso la corte del sultano, punto di riferimento indiscusso tanto a est quanto a ovest. Il pensiero filosofico di Maimonide, infatti, veniva applicato a sostegno di diversi orientamenti: per esempio, nell’area del Vicino Oriente, e in particolare in Egitto e nello Yemen, sembra essere stato letto in una chiave prevalentemente neoplatonica, talvolta come se trasmettesse un messaggio mistico. Nell’Europa occidentale, soprattutto in Provenza e in Italia, la sua opera sembrava invece essere stata interpretata alla luce dell’aristotelismo averroista. Infine non si può dimenticare l’influenza che la “Guida dei perplessi” ha esercitato nei confronti di alcuni autori della filosofia scolastica cristiana. In effetti, la fortuna dell’opera filosofica di Maimonide fu legata anche alla polemica che essa inevitabilmente suscitò, probabilmente in virtù del suo fondamentale razionalismo, all’interno di almeno due delle tre religioni monoteistiche allora presenti nel mondo europeo e mediterraneo: l’ebraismo e il cristianesimo. Una polemica che si sviluppò soprattutto nel corso del XIII secolo, quando la sua opera si diffuse in Europa, sia in ebraico sia (e forse prima ancora) in latino, e che stimolò l’interesse nei suoi confronti anche al di fuori della cultura religiosa da cui proveniva.

Abraham, da parte sua, fu un uomo impegnato anche in studi filosofici e compose un lavoro in cui intendeva riconciliare l’Aggadah[ref] Haggadah o Aggadah (in ebraico הגדה, lett. racconto) è una forma di narrazione usata nel Talmud e in alcune parti della liturgia ebraica.[/ref] con le idee filosofiche del suo tempo. Studiò con il padre le tradizioni bibliche e rabbiniche così come la filosofia e la medicina, e quasi immediatamente dopo la morte di Mosè nel 1204, venne designato in qualità di guida suprema (Nagid) degli ebrei d’Egitto nonostante la sua giovane età. Rispetto ai temi escatologici e di senso legati all’esistenza umana, Abraham aveva marcato una differenza con le posizioni paterne. Mosè Maimonide considerava la conoscenza di Dio come la più alta delle virtù. Suo figlio Abraham invece, avendo un’inclinazione più mistica, considerava l’unione mistica dell’anima con Dio come il bene più alto. Guardando al corpo dell’uomo come alla fonte del peccato, egli sosteneva e promuoveva una vita ascetica nella quale le attenzioni umane ai beni materiali dovessero essere ridotte al minimo.

Egli vedeva nei Sufi i discepoli spirituali dei profeti di Israele e prescriveva il metodo Sufi come metodo di formazione per il raggiungimento della perfezione umana[ref]Rosenblatt, S. “Abraham ben Moses ben Maimon, in Encyclopedia Judaica”, 1972, Jerusalem, Keter, vol 2, p.152.[/ref].

Possiamo dire che l’imprinting mentale e religioso di Abraham fu quindi grandemente determinato da suo padre al quale egli riconobbe sempre una grande stima, combattendo risolutamente anche contro gli attacchi diretti contro di lui. Quando venne a conoscenza che alcuni libri di suo padre erano stati bruciati a Montpellier, scrisse un “rimprovero” dal titolo “Michamot Hashem” rivolto agli studiosi provenzali e si impegnò in modo più deciso nella stesura di un’opera nella quale affrontava sia tematiche di matrice filosofica che domande sull’etica: il “Kifayat al‐Abidin” (“Guida completa per i servitori di Dio”). Un lavoro enciclopedico incentrato sulla religione ebraica e pensato come supporto al generale approccio ascetico che il Nagid intendeva esercitare.

 

3.

Nonostante i punti di continuità, Abraham Maimonide è andato molto più in là di suo padre, orientando esplicitamente le pratiche del culto ebraico verso quello dei Sufi. Ha goduto di una enorme quantità di potere politico e spirituale in Egitto e nell’ambito delle comunità ebraiche di tutto il mondo musulmano dell’epoca. A Fustat, Abraham si trovò circondato da uno tale spirito di apertura della comunità che gli permise di apprezzare l’Islam in un ambiente relativamente accogliente, che influenzò le sue opere e il suo pensiero grazie anche alla conoscenza profonda dell’arabo. Il Sufismo e lo sfondo di credenze islamiche che lo circondavano spinsero Abraham a reinterpretare numerosi termini e concetti ebraici. La sua attività, dunque, non si inserisce semplicemente nel segno del continuum della storia ebraica e del lavoro del padre, ma rappresenta un vero e proprio punto di svolta nella fede ebraica.

Abraham usa termini filosofici islamici e concezioni mistiche Sufi come: ghibta (beatitudine), ‘Ittihad (unione), ‘Ishq (amore passionale), al-‘inqita’ ilayhi (devozione totale) e al-Qurb minhu (vicinanza a Lui). Cita anche frasi tratte dalla letteratura Sufi. L’impiego di questi termini sufi ha permesso ad Abraham di collocare certe ispirazioni islamiche all’interno della riflessione spirituale e filosofica ebraica.  Egli avvicinò gradualmente anche certe modalità di preghiera tipiche della tradizione ebraica, a pratiche Sufi. Ad esempio attribuì maggiore importanza al silenzio, una concezione in contrasto con l’insegnamento ebraico, ma in linea – per così dire – con i musulmani a lui contemporanei. La concezione del “silenzio” come un metodo preferibile di meditazione faceva direttamente il paio con il ritirarsi in solitudine come forma di preghiera. Il ritiro spirituale Sufi (khalwa), incentrato sul silenzio, rappresentò una novità degna di nota per gli ebrei praticanti del tempo. Tale pratica, infatti, entrava in contrasto non solo con le consuetudini degli ebrei egiziani del XII secolo, ma anche con la più generale tradizione rituale della comunità ebraica. Possiamo affermare che l’attrazione di Abraham per i mistici islamici nasce dalla sua convinzione che gli ebrei di ispirazione sufi rappresentassero un’autentica dottrina ebraica di derivazione islamica. Secondo Abraham, i sufi che vestivano di stracci, vivevano di elemosina ed erano organizzati in gruppi con leader e seguaci erano come tutti i profeti ebraici della Bibbia. Con il loro stile di vita, i sufi vinsero il sonno e la paura attraverso veglie notturne; trascorrendo e pregando per tanto tempo in luoghi bui finirono per danneggiare la loro facoltà visiva[ref]Maimonides, A. “The High Ways to Perfection of Abraham Maimonides” (Samuel Rosenblatt, trans.), p. 49[/ref], ma il danno consentì lo sviluppo di una potente luce interiore (mistica) in grado di sostituire l’esperienza sensoriale della luce sulla retina. Abraham collegava tutte queste pratiche e idee agli antenati ebrei[ref]Ibid. p. 29.[/ref]. Non solo Abraham era certo che la “Via Sufi” rappresentasse una sorta di misticismo ebraico perduto, ma era anche convinto che la pratica ebraica-sufi, fosse in qualche misura requisito necessario per una nuova epoca spirituale, sulla soglia della quale lui e i suoi contemporanei erano convinti di trovarsi.

4.

In questo clima di rinnovamento epocale si profila all’orizzonte un periodo di profondo cambiamento nella vita della comunità ebraica egiziana. La prima parte del XIII secolo, infatti, ha visto due distinti tipi di sconvolgimenti socio‐economici in Egitto: catastrofici disastri naturali che colpirono la popolazione e, in particolar modo per la comunità ebraica, l’arrivo di diverse ondate di immigranti ebrei che avevano bisogno di occupazione e di aiuti per il reinsediamento. La devastazione provocata dalle calamità naturali agli albori del XIII secolo causò per l’Egitto un lungo e difficile periodo di declino dal quale non fu facile ripartire se non in una prospettiva di medio-lungo periodo.

L’attività di Abraham durante questa crisi va analizzata anzitutto come l’intenso lavoro di un leader impegnato nella gestione di una comunità in tempi di stato di eccezione, con risorse limitate a disposizione e pressoché impossibilitato a delegare certi ruoli di responsabilità di altri funzionari. In due modi, però, la risposta di Abraham Maimonide alla crisi economica è andata al di là delle misure di emergenza ad hoc dettate dai tempi. Da una lettera datata ca. 1220, apprendiamo che il Nagid condusse ispezioni periodiche alle operazioni e ai servizi comunali di beneficenza nelle città di tutto il regno, attraverso un emissario della corte[ref]Cf. S. D. Goitein, “A Mediterranean Society” p.122.[/ref]. Ancora più importante, in una lettera datata intorno al 1230 che dà una vivida impressione del peggioramento delle condizioni e dei disordini sociali in Alessandria, sono rivelati maggiori dettagli sull’esercizio di leadership del Nagid: imparare dalle carestie del passato, questo presupposto sembrava guidare più di ogni altro l’operato del Nagid preoccupato di preparare e difendere la comunità ebraica egiziana in vista di tempi di disagio e nella speranza di evitare un aggravarsi delle condizioni.

Proprio in questo periodo si assistette a una forte domanda di beneficenza aggravata dalle necessità delle ondate migratorie ebraiche nel Paese provenienti dalle due estremità del mondo cristiano, da Bisanzio e dal nord Europa, che misero decisamente alla prova la resistenza di una popolazione già impoverita e problematica. In molti casi, questi immigrati mantenevano le proprie reti sociali separate, compresa l’assistenza sociale e la rappresentanza politica indipendente. La frattura tra queste due comunità in Egitto, una araba e l’altra europea continuò almeno fino al 1230, quando l’arrivo dell’ultima ondata di emigrati francesi è documentata. Molti stranieri arrivati ​​in questo periodo, inoltre, arrivavano come prigionieri della pirateria mediterranea, e avevano bisogno non solo di riscatto sociale ma anche di case, cibo, vestiti, e del denaro per pagare un’imposta fiscale a cui erano immediatamente sottoposti al loro arrivo.

Come S. D. Goitein ha dimostrato da uno studio attento delle liste di elemosine di entrambe le ondate migratorie, gli immigrati e gli stranieri costituivano la più alta percentuale dei beneficiari degli aiuti in Egitto, nonostante il generale e diffuso aumento della domanda di risorse e aiuti da parte di una comunità sempre più impoverita nel suo complesso[ref]S. D. Goitein, “A Mediterranean Society”, 1:56-57, p.85.[/ref]. Nonostante i comportamenti virtuosi, la situazione di relativo squilibrio contribuì ad acuire quelle tensioni latenti tra comunità indipendenti, di diversa provenienza e dotate di una propria cultura ebraica di riferimento.

5.

In base alle mutate condizioni socio-economiche si chiarisce meglio il contesto materiale in cui si è sviluppata una certa sensibilità mistica nella vita e nel pensiero di Abraham Maimonide: se il pietismo ebraico riuscì a guadagnare un livello di maturità tale da assumere le caratteristiche di un fenomeno religioso comunitario, fu soprattutto grazie alla sua personalità. I punti principali della sua “via pietista” – così come sono mutuati da suo libro “Kifayat al-Abidinʺ (“Una Guida completa dei servitori di Dio”) – delineano anche le linee guida di Abrahm stesso come Nagid:

  • Creare una nuova ondata di fervore religioso, offrendo una sintesi di mistica e ragione in seno all’ebraismo, così come al‐Ghazali aveva fatto per l’Islam.
  • Ottenere il riconoscimento del “derek ha‐hasidut” (via pietistica), chiarendo e specificando i suoi precetti.
  • Ripristinare, attraverso l’ideale pietistico, le pratiche religiose un tempo comuni tra gli ebrei di Israele.
  • Proporre, attraverso gli insegnamenti sufi un modello di misticismo altamente spirituale.

È sicuramente con l’emergere di un movimento pietista ebraico, infatti, che si è avuto l’incontro più intimo tra gli ideali spirituali e religiosi dell’ebraismo e dell’Islam.

Come ha affermato Haym Soloveitchik: «In linea generale con pietismo si intende un atteggiamento che è caratterizzato da interiorità e introspezione religiosa, da responsabilità etica e per cui si pone l’accento più sulla dimensione esperienziale che non su quella intellettuale. Possedere una profonda comprensione del peccato dell’individuo e della fragilità della volontà di fronte all’istinto, sono le caratteristiche che il fenomeno pietista sostiene per la formazione morale e con cui intende fornire un programma completo per il discepolo vigile sulla propria anima»[ref]Patrick Benjamin Koch, “Misticism, pietisim, Morality: An introduction” in European Journal of Jewesh Study 14 (2020) 169-176, p. 170.[/ref].

Ed è proprio questa dimensione sociale che ha impostato le manifestazioni del pietismo ebraico nel contesto egiziano. Nell’aspetto sociale non meno che in quello religioso, i pietisti ebrei hanno seguito le tendenze locali di una crescente istituzionalizzazione degli ordini sufi a cui si è assistito in Egitto a partire dal XII secolo, grazie anche ad un significativo sostegno finanziario che tali istituzioni hanno ricevuto dal nascente governo ayyubide[ref] Col termine Ayyubidi viene chiamata la dinastia curdomusulmana che fu costituita a partire dal 1174 da Saladino, dopo la morte di Norandino, e che finì con la morte dell’ultimo Sultano al-Sālih Ayyūb e l’assassinio di suo figlio al-Muʿaẓẓam Tūrānshāh nel 124950 da parte dei Mamelucchi del corpo dei Bahriyya.[/ref] del Cairo.

Il senso di una “comunanza spirituale”, al di là della familiarità o di rapporti personali, si prestava poi ad ulteriori legami sociali e rifletteva la misura con cui i pietisti vedevano il proprio status sociale; paragonabile, ai loro occhi, a quello dei “talmide hakamin”[ref]Talmid ḥakham (in ebraico, ‘discepolo del saggio’), indica la figura di uno studioso ebreo nel solco della tradizione rabbinica. Secondo il Talmud, un ḥakham Talmid è il tipo ideale di ebreo.[/ref] della tradizione rabbinica.

Di fondamentale importanza nel determinare le caratteristiche precise del movimento pietista egiziano è poi sicuramente la questione della realizzazione profetica e dell’ispirazione divina in generale. Al centro delle convinzioni pietiste c’era la sicurezza di seguire le orme degli antichi “discepoli dei profeti”, non solo per quanto riguarda il modello del rapporto maestro-discepolo, ma per il ruolo della profezia nel sentiero spirituale verso il raggiungimento della perfezione finale. In modo senz’altro caratteristico e originale, il Nagid immaginava di dar vita ad una rete di pietisti, riuniti in ogni città e villaggio, che avrebbero preso la residenza nella sinagoga locale e questo avrebbe rappresentato una sorta di meccanismo permanente di leadership spirituale.

Era visto come essenziale quindi, per gestire la leadership delle comunità ebraiche, che un gruppo di persone virtuose garantisse un supporto costante alle attività cultuali rinunciando sostanzialmente alle attività di questo mondo e in vista del “mondo a venire” (‘Olam ha-Ba). Nel pensiero ebraico pietista (così come nel Sufismo), il “mondo a venire” è il mondo spirituale di pura contemplazione e di comunione divina di cui è possibile avere un assaggio già in questo mondo. Promuovere la formazione di un numero di persone pie, radunate nella sinagoga e sostenute dalla comunità nel suo complesso, è – forse – quanto di più vicino possiamo immaginare a un ideale monastico.

L’ideale di Abraham, in breve, era quello di rivitalizzare la vita spirituale del popolo creando una sorta di elitaria “casta sacerdotale” di pietisti d’ispirazione sufi, impegnati in una profonda vita spirituale sia internamente, nella comunità stessa dei religiosi, che esternamente nella gestione della vita spirituale della comunità.

 

 

6.

 

Il movimento pietista egiziano del XIII secolo si manifestò in due modi distinti e complementari. Per un verso con un atteggiamento spirituale, impegnato, esigente e di devozione supererogatoria, per altro invece con la privazione ascetica. Il ruolo di Abraham Maimonide come guida spirituale dei “compagni” (ashab) pietisti a Fustat, si caratterizzò anzitutto per la promozione di un insieme di pratiche comunitarie, come il digiuno e la preghiera serale; oltre alla formazione dei singoli devoti per mezzo di ritiri solitari e di pratiche di meditazione. Questo “percorso speciale” dell’uomo era visto come un’avanguardia spirituale e un modello per gli altri; in qualche modo veniva percepito come una sorta di “ritorno alle origini”.

Il movimento, infatti, prendeva ispirazione dalla tradizione degli antichi profeti, cercando di far rivivere costumi religiosi di derivazione biblica e talmudica; tutto ciò in un contesto sociale dove era forte l’impatto della religiosità islamica.

Le prime ricerche più complete per tracciare le riforme nell’ambito della preghiera dei pietisti egiziani, furono avviate più di sessant’anni fa da Naftali Wieder nel suo studio pionieristico incentrato sull’influenza del culto islamico nelle pratiche della sinagoga[ref]Vedi Naftali Wieder, N. “Haspa’ot’ Islamiyot”, pp. 31-82. Per recensioni su Wieder N., vedere Vajda, “Wieder Naftali, Hashpa’ot Islamiyot ‘a Pulhan ha-ha-Yehudi, Influenze islamiche sul culto ebraico”, pp.107-108.[/ref]. Wieder ha osservato cinque innovazioni chiave nella preghiera pietista, a cui attribuiva una chiara influenza islamica: 1) prostrazione, 2) posizione in ginocchio, 3) rivolgendosi all’arca tutto il tempo, 4) posizione in piedi in file ordinate, 5) l’apertura delle mani[ref]È interessante notare che Maimonide fece riferimento allo stare seduti in file (Sura lifne sura) in M.T. H. Tefilah, 11:04. Siamo anche in possesso di un affascinante tradizione islamica che associa l’apertura e allungamento delle mani con culto ebraico. Vedi Kister, ‘”Non vi Assimilate …’ La tashabbahii … “, p. 332.[/ref].

Egli aggiunge inoltre l’abluzione rituale dei piedi (in aggiunta a quella delle mani) prima della preghiera e immersione in acqua dopo un’emissione seminale; costumi questi che si possono osservare tra gli ebrei delle terre arabe prima del XIII secolo[ref]Vedi Naftali Wieder, ibid, pp.10-25.[/ref].

L’enfasi sulla postura fisica, dal punto di vista di Abraham, mirava a sincronizzare “il culto interiore del cuore con il culto esterno degli arti” in accordo con le parole dei Salmi: «Il mio cuore e la mia carne cantano per il Dio vivente»[ref] Citazione da: Ps. 84:3.[/ref]. Certe posture erano viste sia come mezzi per il raggiungimento di determinati stati interiori, che come l’incarnazione esterna del raggiungimento di quegli stati interiori.

È interessante notare inoltre che Abraham considerava le proprie modifiche del rituale nella sinagoga come più in sintonia con la Legge ebraica e più in generale con la tradizione precedente a quella del padre. Mentre il padre aveva eliminato un costume con una solida base nel Talmud, lui aveva solo cercato di reintrodurre riti ormai trascurati ma che avevano una chiara base biblica e talmudica.

Nonostante questo tentativo, egli si lamentava, che la comunità in generale era più disposta a seguire le ordinanze emesse dal padre, piuttosto che la proposta delle proprie modifiche e questo è facile immaginare che costituisse una fonte di amarezza per Abraham anche perché l’aspirazione delle sue proposte – mai imposte – era di segnare un cambiamento importante nella gestione delle questioni comunitarie e nel rinnovo di pratiche considerate da lui ormai obsolete.

La sua strategia, coerente per ciascuna riforma, era quella di seguire e rispettare un criterio tripartito secondo l’ordine: Scrittura, Tradizione e Ragione. Un ordine logico che, tuttavia, andava visto come schema di lavoro applicato da Abraham nel complesso delle sue attività di guida della comunità. Per Abraham era necessario e obbligatorio seguire questo “schema di lavoro” a seconda delle circostanze, con lo scopo di glorificare il nome di Dio, ringraziarlo per la sua bontà e supplicarlo per la sua misericordia.

È utile specificare che il termine “obbligo” (al-wujub) rinvia a un imperativo (al-luzum) o a una necessità (al-darurah). “Obbligo”, a volte, può avere un significato meno assoluto quindi, e indicare in generale qualcosa di lodevole e auspicabile ma non imposto (al-mandub ‘ilaihi al-gair darurt), come quando si dice che una persona dovrebbe (yajibu) essere generosa e coraggiosa. Il termine “obbligatorio” (al-wajib), dunque, va usato in questo contesto più come sinonimo di necessario (al-darurt) ed encomiabile (al-mandub ‘ilaihi).  Nell’ambito della terminologia islamica, con “obbligatorio” (wajib) si intende l’azione che viene raccomandata (mandub ilaihi), mentre la Legge ebraica considera due diversi gradi di impegno e fornisce due significati distinti per la nozione di obbligo religioso.

Proprio a questo proposito, Abraham ha mostrato di avere una certa moderazione in materia di obbligo religioso: riteneva lo zelo per i costumi e le pratiche religiose importante ma non fondamentale per il benessere della vita religiosa della comunità.  Nella sua visione e nel suo impegno per rivitalizzare la vita religiosa comunitaria, cercò di evitare un confronto diretto con il pubblico dei fedeli, promuovendo le sue modifiche senza prendere una posizione esplicita contro la resistenza locale.

Questo, tuttavia, non gli impedì di promuovere pubblicamente e al grande pubblico, dei cambiamenti che lo portarono inevitabilmente in conflitto con gli studiosi a lui rivali nell’Egitto dell’epoca. Alle accuse dei suoi avversari, il Nagid, tuttavia, non esitò a rispondere argomentando e difendendo le sue riforme.

 

 

 7.

 

Il mondo degli ebrei egiziani agli albori del XIII secolo, i cui contorni storici sono stati appena esplorati in queste pagine, è stato caratterizzato da una profonda incertezza economica e da una rapida trasformazione spirituale a causa di agitazioni politiche e periodiche ondate di immigrazione. La figura del Nagid Abraham, senza dubbio, può essere ricordata come quella di chi ha dedicato la sua esistenza alle profonde trasformazioni della vita ebraica egiziana, che ha servito la sua comunità nella sua veste ufficiale più alta per oltre trent’anni e che è stato coinvolto sotto molteplici aspetti nelle dinamiche della sua generazione.

Tuttavia, Abraham ha svolto il suo ruolo primario in quanto custode della vita religiosa per le comunità ebraiche perseguendo con determinazione le riforme più importanti nella pratica liturgica e nella devozione sinagogale. Sulla scia degli insegnamenti del padre, Abraham sembra aver tentato, nella sua opera etica, la via avviata un millennio prima dai rabbini palestinesi, riprendendo metodi e idee della filosofia non ebraica a lui contemporanea (in particolare le interpretazioni arabo-islamiche dell’etica di Galeno e di Aristotele) e cercando di adattarli e applicarli alla sua religione e alle dottrine morali fissate da quest’ultima: un compito difficile che probabilmente non riuscì né a completare né a far accettare dai suoi correligionari come avrebbe voluto, ma che gli avrebbe dato un ruolo chiave nella storia del pensiero. La difficoltà del compito assunto da Abraham si trova naturalmente nel fatto che la religione ebraica del suo tempo era ormai, essa stessa, una forma di “etica” rigida e fondamentalmente immutabile, non dissimile in questo dall’Islam, sicché il tentativo di razionalizzarne la morale adeguandola alle esigenze dei suoi contemporanei cozzava contro la tradizione, sulla quale quella religione si fondava. La religione ebraica medievale era sentita dai suoi membri come una forma di fedele e rigorosa obbedienza ad una “Legge”: una legge superiore e fondamentalmente immutabile, che era stata trasmessa da Dio attraverso i suoi profeti, a cominciare da Mosè, e che era stata successivamente interpretata nei minimi dettagli attraverso le discussioni compiute su di essa dai rabbini, considerati i suoi interpreti ufficiali. Abraham Maimonide non voleva essere un semplice interprete della Legge religiosa ebraica, ma un filosofo e “teologo” ebreo che cerca di fondare il suo pensiero sulla metafisica di Aristotele, alla luce delle interpretazioni di quel pensiero offerte dalla filosofia arabo-islamica medievale, e sforzandosi di concordarla con i seppur pochi elementi teoretici di base della sua religione. Una sintesi tra il misticismo islamico e il pietismo rabbinico. Attraverso il suo ruolo di Nagid, egli ha cercato di ricostruire uno specifico “universo spirituale”, prendendo in prestito elementi della teologia islamica, del Sufismo, del razionalismo (ispirandosi a tal proposito alla figura paterna) e del rabbinat o tradizionale. Con i suoi scritti ha legittimato le sue tesi impegnando il lettore in una sorta di “percorso iniziatico”, per mezzo del quale (e dopo un intenso cammino spirituale) era possibile giungere all’incontro mistico con Dio; non senza un passaggio attraverso l’annullamento di sé per accedere allo stato spirituale di servizio di Dio.

È per questo che nel paesaggio medievale ebraico, seppur nel solco della tradizione, Abraham Maimonide detiene una posizione di unicità e innovazione in qualità di promotore di un vero dialogo e di una più autentica cultura dell’incontro. L’incontro e il dialogo, infatti, si fanno «cultura dell’incontro», quando si vuole progettare qualcosa che coinvolga tutti; e che non è un bene in sé, ma è un modo per fare il bene comune nella convinzione che le religioni, come si evince nel documento firmato dal Papa e dal Grande Imam Aḥmad al-Tayyeb ad Abu Dhabi, non incitino mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità o  estremismo.