Il difficile «socialismo» e le sue inaspettate ricomparse.

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di Mario Reale

1) Lo squillante inizio del contributo di Nancy Fraser suona: «‘Socialism’ is back». L’affermazione, pur rivendicata con orgoglio, è subito sottoposta a una radicale e straniante domanda: che vuol dire esattamente oggi «socialismo»? Si può lottare per qualcosa il cui significato è ancora indefinito? Giusto partire da ciò che c’è (o sembra esserci), dopo decenni in cui sembrava impronunciabile persino la parola «capitalismo»; ma la realtà sembra sfuggirci di mano non appena ci poniamo questa domanda, quasi si trattasse di un fenomeno presente, e tuttavia acefalo, privo ancora di un volto sicuro. L’unico modo in cui si può sciogliere questa difficoltà, come per un verso fa la stessa Fraser, consiste nel riconoscere che i tradizionali contenuti assegnati alla parola – poniamo il controllo pubblico (o, persino, statuale) di tutti i mezzi di produzione, l’estinzione dello Stato, ecc. – sono ormai insufficienti e a volte improbabili, di fronte alle novità che il capitalismo nel frattempo ha saputo mettere in campo.  Sovraccarichi di anni e un po’ ingenui o polverosi, essi infatti oscurano, anziché illuminare, l’azione pratica dei socialisti: rimane sempre una «mala contentezza» rispetto a qualcosa che potrebbe pur sempre rappresentare una tradizione da consegnare ormai ai secoli XIX e XX. Di qui il senso di avere a che fare con mete che, se pur oggi sembrano muoversi nella direzione giusta e ci fanno vincere, domani potrebbero segnare il terreno delle nostre sconfitte. Lo stesso caso del «socialismo» in Cina, un tema da esaminare con cura, comprova, mentre se ne distanzia, il nostro assunto.

2) Da dove si comincerà per determinare meglio una parola-concetto così sfuggente come quella di «socialismo»? La via maestra sembrerebbe quella di ripercorrerne i sensi filologico-storici, magari risalendo al Manifesto del partito comunista. In quest’ambito concettuale, si dovrebbe dar conto almeno di due cose. Anzitutto, ricordare la lezione marxiana, fosse pure nella forma dell’epicedio o della premessa circa l’intrinseco nesso di capitalismo e socialismo; e quindi la necessità di tenere verso la realtà capitalistica, oggi fattasi molto più sofisticata, un atteggiamento non solo fermamente critico ma anche, aliquo modo, comprensivo: privo cioè di astio e monacale livore, alieno da considerazioni teratologiche, molte volte in contrasto con i nostri stessi modi di vita. E in secondo luogo, non si dovrebbe dimenticare come, accanto al termine «socialismo», ce n’è un altro, ben più gravoso per rilevanza teorica e per diffusione planetaria, che è «comunismo», e costituisce come la lunga durata del primo.

Capisco quanto possa essere malagevole affrontare quest’ultimo tema, in particolare circa i tentativi fatti al fine della sua «realizzazione» storica (non scevri peraltro d’ideologia, aggiustamenti e successive «integrazioni» teoriche); o in che misura la discussione di questo punto – non a caso lasciata morire non appena avviata – possa riuscire carica di deprecazione e anche di un qualche non sopito rancore. Consegnare l’evento del comunismo sovietico alla categoria del «puro errore», fino a gioire del suo annunciato e manifesto fallimento, come di vittoriosa ripresa delle sorti pacifiche, magnifiche e progressive della politica mondiale, ha costituito un trauma da cui il socialismo occidentale deve a parer mio ancora riprendersi. Non è sembrato nemmeno sufficiente far leva su un senso di fallimento intervenuto nel «comunismo», su qualcosa cioè non privo ai suoi inizi di una qualche machiavelliana «bontà» – circa gli uomini, poniamo, che decidono di prendere interamente in mano la loro storia, salvo poi mancare non tanto a causa di più prevedibili motivi, come la cronica carenza di beni materiali o il duro comando, ma perché, come diceva Pascal, l’homme passe infiniment l’homme. Ciò in realtà ha voluto dire che l’intera credibilità dell’intera sinistra è stata fortemente danneggiata.

A questo proposito la posizione della Fraser è complessa. Da un lato dice di non voler muoversi né al modo del vecchio socialismo bolscevico, né seguendo il cammino della più corriva socialdemocrazia occidentale. Questo ritengo sia giusto: il «comunismo» non poteva non essere criticato, e tuttavia il modo più produttivo di elaborare il lutto per la sua morte può consistere solo in una libera ricerca, ancor più inventiva e spregiudicata, sul «socialismo» (qui sì) oggi possibile. Ma in altre cose della Fraser – esemplarmente nella bella intervista fattale da Giorgio Fazio per «MicroMega» (6/2019) – mi pare di scorgere un troppo semplice uso del termine «socialismo», quasi una facile Urbanisierung da gente per bene. Per esempio non si riesce a spiegare perché mai all’annunciato crollo del comunismo abbia fatto seguito non la vittoria, ma il declino, piuttosto generalizzato e prossimo, delle socialdemocrazie occidentali.

3) Ma veniamo ora a ciò che c’è di più rilevante nello scritto della Fraser. Per una  lunga stagione, la parola ‘socialismo’ è sembrata andar indenne da dubbi circa la sua estensione, significato e qualità, riguardo al suo non poter/dovere non sopravvenire (con un’inflessione di filosofia della storia). Così, già nella formulazione interrogativa con cui la questione è posta, si avverte un senso di liberazione. L’affrancamento dal modello di socialismo, originariamente del giovane Marx, seppur necessario, non può essere tuttavia mai lieve e fatuo, per il carico straordinario di speranze e lotte, di sacrifici e attese, che il movimento operaio vi ha congiunto; come se le energie mobilitate in un lungo cammino facessero hegelianamente aggio sulla stessa meta o destinazione finale. Resta vero però che per troppo tempo il socialismo è stato concepito al modo di un’idea chiara e distinta, destinata certamente a realizzarsi. Il problema oggi è forse, alla fine, che né la parola si può più nominare, al pari del Dio ebraico, invano, né si possono veramente, abbandonare del tutto i significati che in essa, seppur problematicamente, sono contenuti. Sulla parola si vedrà: come dice Machiavelli «e’ sono le forze che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze»; ma il concetto di qualcosa come il «socialismo», in quanto orizzonte che potenzialmente contiene una migliore e più alta, più sociale e insieme più libera, condizione umana sembra non poter essere comunque lasciato cadere.

Dare in ogni caso un congedo alla parola (e ad alcuni contenuti che vi sono stati connessi) è necessario, perché sotto la sua bandiera si sono anche consumate scelte gravi e costose per i partiti del movimento operaio. E’ il significativo caso, ad esempio, dell’immediato primo dopoguerra mondiale in Italia, quando importanti correnti del socialismo proponevano il modello di «fare come in Russia», cioè un puntuale rovesciamento rivoluzionario della situazione data (o e contrario è il caso della grande socialdemocrazia tedesca che, sotto nome di socialismo, votò, con sua «ruina», i crediti di guerra per la carneficina del 1914-’18). La forza trainante dell’iniziativa politica leninista faceva dimenticare in Italia l’altra e fondamentale tesi dello stesso Lenin, per cui la rivoluzione d’ottobre s’era svolta nei «punti più bassi» del sistema capitalistico mondiale, attraverso una rivoluzione «contro» Il Capitale, come scrisse acutamente Gramsci. Proprio per la divisione sociale del lavoro rivoluzionario, in Italia non si poteva fare come se si fosse stati in Russia:  la strategia imperniata sul modello della rivoluzione d’ottobre ebbe per questo déplacement – insieme si capisce a molte altre cause e responsabilità – un peso nella gravissima sconfitta politica inferta dal fascismo al movimento operaio. Liberazione insomma vuol dire possibilità di riacquistare indipendenza e piena libertà di movimento, capacità di reggere il «riscontro de’ tempi» e dei luoghi, di ricominciare con forze più fresche, vivificando la grande lezione di Marx.

4) L’interesse maggiore dello scritto di Fraser risiede, se non mi sbaglio, nella distinzione tra il capitalismo come specifica forma economica e il capitalismo che si fa (o aspira perennemente a farsi, senza mai poter riuscirvi interamente, se non per via catastrofica) principio strutturante di un’intera società. Non si tratta di una distinzione del tutto nuova, perché varie volte è stata affrontata, direttamente o nell’implicito, nelle discussioni critiche sul capitalismo specie di parte femminista, anche se la Fraser ha il merito di farne un problema generale e anzi sistemico. C’è dunque per Fraser una critica di portata «più ristretta», da considerarsi ormai «tradizionale», al capitalismo come sistema economico, ed è quella svolta, per intero e in modi tuttora compiutamente validi, da Marx. C’è poi, oltre Marx e anche in contrasto con la sua teoria, la critica a una società innervata e per molta parte dominata, occupata o «colonizzata», dal capitalismo, e questa ha carattere nuovo, «più largo» e «non-economico».

Dubito che la critica marxiana al capitalismo, che Fraser rapidamente riassume, a cominciare dai caposaldi di valore-lavoro e sfruttamento possa essere oggi tenuta ferma in ogni sua parte. Tutto in qualche modo deve essere ridiscusso, e nonostante ciò, continuo a credere che questo sia un modo, «postmarxista», non della messa a bando, ma persino della fedeltà alla complessiva lezione di Marx. Osserverei anzi come sia persino dubbio che in Marx si possa porre la distinzione proposta da Fraser, o dire che dal suo orizzonte sia assente la critica al capitalismo-società. E ciò proprio quando quest’ultima si mostra non cumulativa con la critica all’economia politica, ma tale da liberare, nel rapporto di economia e società, la complessiva capacità critica di Marx, al di là delle strettoie in cui è stata angustamente (o «analiticamente») rinchiusa.

5) A proposito della critica economica al capitalismo, me la caverò ora, al modo di Hobbes, con una sorta di formula «poore, nasty, brutish, and short». Per quanto riusciamo a vedere intorno e innanzi a noi (è una precisazione non irrilevante perché non si abbandoni il terreno storico) dal capitalismo (purtroppo) non si «esce», o non se ne «fuoriesce» del tutto, attraverso un suo pieno superamento. In esso si ritrova, oltre che le infinite patologie, la fisiologia dell’economia moderna; né si saprebbe veramente dove tornare indietro (prima della Firenze dei secoli XIII-XIV che per Marx, è già quasi interamente capitalista?) o andare avanti (verso una catastrofe sistemica?) quando complessivamente si abbandoni ex abrupto una forma economica così duratura, complessa e pervasiva. Proprio Marx del resto ci insegna che non dall’esterno, per via politica, si potrebbe abbattere il complesso meccanismo capitalistico, ma solo per sua matura autodissoluzione. Con le rivoluzioni del ‘900, non si è «superato» il capitalismo, ma, come è stato scritto, ci si è solo «separati» da esso, del resto sulla base di un impianto economico di pianificazione largamente basato sull’economia neo-classica.

6) Ciò vuol forse dire che ci si deve abbandonare, fatalisticamente, al capitalismo così com’è? Io credo (e spero) proprio di no; ritengo anzi che le lotte profonde e incisive contro di esso dovrebbero piuttosto presupporre questo punto. Rimettersi agli uomini «tels qu’ils sont» non è mai una cattiva scelta. Ed è proprio qui che s’iscrive la seconda questione posta dalla Fraser, cioè il rapporto tra la società e il capitalismo con le sue condizioni di possibilità, luogo tra l’altro deputato per riprendere il dialogo con Marx (i Grundrisse sono uno straordinario strumento a questo scopo). La Fraser, alla fine, mi pare che tenda a spostare tutti i pesi da questo lato, nonostante qualche puntiglioso indugio sui veridici e conseguibili fini del socialismo. Con un tratto invece da pensiero negativo, la cosa sarebbe da dire così: la questione non sta nel positivo lavoro intorno al «socialismo», ma nella sostenuta analisi critica del capitalismo; ogni volta che questo terreno sia dissodato, rivoltato, e ne emergano nuove forme di emancipazione, proprio là sta il socialismo. Il modo di dire il socialismo è quello di mostrarlo come il non del capitalismo, del quale si richiede un continuo lavoro ai fianchi, una critica radicale che arrivi a colpirne le armi più sofisticate e stupefacenti, e insieme anche più parassitarie e mortificanti. Gli uomini avranno poi tanta inventiva da poter decidere quel che verrà dopo. La sola e affilata critica del capitalismo, als ob ne andasse ogni volta del suo crollo definitivo, dovrebbe testimoniare per il socialismo. Se, con il poeta, non possiamo dire chi siamo, dobbiamo, questo sì, dire cosa non siamo. Abbandonata realisticamente la «dipintura» del socialismo come inutile «menù per le cucine dell’avvenire», resta il lavoro critico da cui prenda senso e corpo l’intensificazione del nostro essere umani.

7) Nel poco spazio che mi rimane vorrei ora soffermarmi sul rapporto tra socialismo e democrazia. Esposta nella forma più stringata, la mia tesi, contro puntuali rotture rivoluzionarie, è che il socialismo costituisca una (complessa) possibilità della democrazia. In realtà, non c’è nessuna necessità di pensare la democrazia solo nella forma del socialismo, al modo delle vecchie democrazie socialiste. La democrazia è un valore in sé, qui nel preciso senso per cui costituisce la forma originaria e costante di ogni pensare politico, con una funzione simile a quella svolta in logica dal puro principio d’identità, o meglio d’identità-diversità. Un solo esempio mi basti. Machiavelli (ma la cosa vale in qualche modo persino per Hobbes) non sarebbe riuscito a dare giudizio del principato e delle sue varie forme degenerate se non avesse avuto previamente in testa la fondamentale esperienza repubblicano-democratica.

Il problema è ora dato dal rapporto che deve instaurarsi tra democrazia e socialismo. Sono noti i tentativi, all’interno della storia del movimento operaio, di risolvere il socialismo stesso nella democrazia. Non dico ora di soluzioni alla Bernstein, ma anche di posizioni più complesse e difficili, quali ad esempio il concetto togliattiano di «democrazia progressiva»: comprensibile per un grande e nuovo partito di massa, ma insieme, tale da stemperare il concetto di socialismo (che nemmeno è nominato) in quello di democrazia. E lo stesso si potrebbe dire di una delle probabili fonti di questa convinzione circa l’aderire «naturale» della democrazia al «popolo» (un’opinione paradossalmente condivisa anche dagli autori del Federalist), ossia delle brillanti tesi dell’ultimo Engels dell’Introduzione alla ristampa, nel 1895, delle Lotte di classe in Francia di Marx. Non è in questione qui la giusta convinzione che la democrazia moderna, persino già nelle posizioni ora criticate del Manifesto (il suffragio universale come primo compito del proletariato), sia un prodotto diretto e consapevole del movimento operaio, quanto la mancanza di una specificità del socialismo nel grande corso dell’evoluzione democratica.

Il problema è dunque se, nel quadro democratico, il socialismo abbia ancora una sua dicibile peculiarità, se se ne possa insomma ancora parlare in quanto intervenuta novità nel continuum stesso della democrazia. Può servire qui un paragone con altre qualificazioni o specificazioni della democrazia. La più nota di queste è la liberaldemocrazia, che esprime da un lato i necessari valori che potrebbero dirsi dell’uomo moderno, i diritti e le garanzie delle persone, contro irrigidimenti autoreferenziali o puramente giacobini; ma, dall’altro lato, afferma la prepotente tensione a fare della democrazia una semplice estensione, priva di autonomi valori e di proprie realizzazioni, dell’universo liberale: democrazia come «realtà empirica» non «ideale», diceva Croce, «attuazione» e non «concetto regolativo». E il socialismo? Ritengo che a esso spetti – ne fa fede anche la costituzione italiana – il compito di essere, come la plebe per Machiavelli, «guardia della libertà», strumento di difesa dell’«essenza e valore» della democrazia, «parte» massimamente interessata alla conservazione del tutto, del largo sistema repubblicano in cui per la prima volta è giunta all’emersione politica.

Il socialismo insomma avrebbe il positivo, continuo e controcorrente, compito di salvare la democrazia, sgombrandola dalle pesanti occupazioni che il capitalismo ne fa, svuotandone e stravolgendone il senso. Un capitalismo, congiunto a forme ancor più intollerabili d’ingiustizie pre-capitalistiche, come la rendita e l’ereditarietà familistica, che genera un carico sempre più intollerabile di diseguaglianze C’è tuttavia ancora di più. La democrazia «occupata» può esser solo dal socialismo salvata dai processi catastrofici in cui rischia di perdersi. Un tempo si diceva: ‘Socialisme ou Barbarie’; oggi pare che per vie diverse, siamo tornati allo stesso bivio. L’uscita dalla pandemia, con il suo enorme carico di dolore, potrebbe assumere dimensioni di vero disastro, di assalto ai forni, se il socialismo non dà una mano. Non si tratta qui di parlare ai buoni sentimenti (che sono sempre cosa buona), ma proprio agli interessi – lasciando pure da parte ora la canagliesca protervia (mai seriamente combattuta) del free riding, di ladri evasori e fini elusori – di chi vuole, anche giustamente, difendere i propri risparmi. Ancora Machiavelli dice che la nobiltà romana, «per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte».