Il secolarismo arabo come forma dell’islamismo politico

Domenico Bilotti

Il giurista Ibn Khaldun era solito dividere le condotte umane secondo il loro inquadramento nella norma coranica: le azioni umane potevano, così, essere obbligatorie, raccomandate, indifferenti, disapprovate, vietate. Sul piano meramente fenomenologico, un giusperito del XIV secolo ragionava in modo non dissimile da chi aderiva alla tradizione romanistico-bizantina delle obbligazioni e da come, secoli dopo, avrebbe introiettato la cultura giuridica secolare. Nella politica del diritto, il punto di arrivo conta persino più del punto di partenza.

È in fondo questa asserzione metodologica che ci spinge a rivedere criticamente molte esperienze del socialismo islamico. Esse, sul piano esegetico, miravano a fondarsi su una visione radicalmente egalitaria che trovava una precisa rispondenza nell’obbligo dell’elemosina (zakat), come largamente praticato sin dal “governatorato” medinese di Maometto. È certo ardito ritenere che quella comunità politica possa essere ritenuta antesignana del moderno stato sociale di diritto, ma i riformatori del socialismo arabo e i loro epigoni misero spesso in atto, soprattutto nei loro primi anni di governo, provvedimenti equitativi in materia economica. La governance statuale si ergeva contro le pregresse sperequazioni compiute sotto l’egida dei corpi militari e delle elite religiose. Ben Ali in Tunisia (1987/2011), Gamal Abd el-Nasser in Egitto (1956/1970) e Mohammed Siad Barre in Somalia (1969/1991), sia pure irriducibili a un canone politico unitario, adottarono prestazioni sociali effettivamente importanti per i rispettivi popoli. Sol che entro breve la parabola politica di quei “riformatori” si concludeva in una sostanziale restrizione delle libertà civili e pretendeva di fissarne i limiti ripercorrendo forme di controllo religioso della popolazione. Si statuivano, cioè, permessi e divieti in modo da orientarli nel prisma della conformità etica e di assumersi il pieno diritto di sancire la (vera) ortodossia. I rischi di accentramento imboccati spesso crudamente erano gli stessi in cui precipitò l’azione del riformista nazionalista turco Mustafa Kema Ataturk, cinquant’anni prima. La laicizzazione coattiva delle strutture sociali per istituire una ragion di Stato (una narrazione dello Stato apparato, diremmo oggi) non è meno dogmatica dell’oltranzismo religioso.

Non stupisce che torsioni di questo tipo si realizzino soprattutto nella sfera della sessualità privata: regolamentare la sfera più intima della libertà individuale significa normare interamente la vita delle persone. Una visione persecutoria delle relazioni sessuali illecite (“zina”) orienta i rapporti tra cittadino e potere quanto e più di una riforma amministrativa: investe il potere del diritto assoluto di spogliare il cittadino nella sua privatezza sin dentro le più riposte scelte domestiche. In quella sfera di illiceità giuridica, restano talvolta fuori le violenze “correttive” (?) e invece spesso finiscono forme di unione adulterina, prematrimoniale e omosessuale. Non è casuale che declinazioni afflittive della sessualità lecita stiano attecchendo soprattutto nelle regioni di islamizzazione recente, in Africa o nell’Estremo Oriente: costituire un ordine nuovo non è sol far piazza pulita del vecchio; è ancor prima mostrare i muscoli della propria coattività.

L’Islam dei giorni nostri, in particolare le teorie pubbliche della comunità politica fondate sulla precettistica religiosa, utilizza ancora la giustificazione teocratica offerta dalla fede per legittimare la propria azione. Paradossalmente, argomentazioni religiose adottano i giuristi tunisini che difendono il divieto della poligamia e argomentazioni religiose sfoderano gli opinionisti turchi che invitano Erdogan a riconsiderare la punibilità dell’adulterio femminile. È ancora più stucchevole che l’osservatore esterno, soprattutto se di cultura laico-occidentale o se di ascendenza islamica ma da tempo incardinato nelle culture e nelle accademie occidentali, entri nel dibattito pretendendo di spiegare ai musulmani come si debba essere musulmani, ai leader religiosi come si debba attuare la religiosità nelle relazioni sociali. C’è, ben dentro le culture islamiche, un secolarismo arabo che, a prescindere se si professi credente o meno, da tempo combatte la battaglia di divaricare la fede dalle giustificazioni politiche, l’azione legislativa dalle polemiche dottrinali, la libertà individuale dalla conformità religiosa.

Lo si è visto nei movimenti politici dell’Islam mediterraneo nell’ultimo decennio. La più parte d’essi destituiva di fondamento i regimi politici in punto di fede, inveendo contro l’irreligiosità della corruttela pubblica e dell’autoritarismo; una minoranza parimenti generosa richiedeva, però, che i nuovi ordini costituzionali si liberassero dal giogo dei gruppi religiosi e che la convivenza non fosse più regolata da chi pretendeva di detenere il monopolio interpretativo della “legge santa”.

All’opposto, in ordinamenti islamici non arabi e non sunniti, ma identicamente riconducibili all’ambito gius-teocratico, come l’Iran, l’elevata commistione tra sfera religiosa e sfera politica, fino alla loro sostanziale inscindibilità, non ha impedito di approcciarsi agli strumenti tipici del diritto civile statuale codificato. Il codice civile iraniano, costruito mattone su mattone tra il 1928 e il 1935, rimanda a una tripartizione (“beni”, “persone” e “prove nelle azioni”) che non può ritenersi né violativa delle norme coraniche né da esse strettamente scaturente. Il diritto ha terminazioni che non hanno bisogno di abbracciare né di respingere le appartenenze di fede: alimentare questa consapevolezza non è né anti-islamico, né filo-islamico.

Il secolarismo arabo, da questo punto di vista, è realtà ancora poco nota, interna però alla cultura politica islamica, della quale condivide coordinate geografiche, formazione, istanze sociali percepite. Se nelle sue terre d’origine appare ancora blasfemo e antireligioso, quasi mai lo è nelle rivendicazioni formali e sostanziali che percorre. È un secolarismo contro le oppressioni mondane, non contro la manifestazione spontanea del credo.

Teorici musulmani inclini al dialogo interreligioso e studiosi occidentali favorevoli a relazioni paritetiche con la componente riformista dell’Islamismo politico dovrebbero tornare a figure come il sufi tunisino Ismail Hedfi Madani, vero promotore di un “ecumenismo islamico” fondato sul superamento della repressione (endo)religiosa negli ordinamenti fondati sull’Islam. Gli uni dovrebbero preservarne la proficua capacità di rivolgersi a ogni componente etnica, sociale e culturale del mondo arabo, senza estromettere le eterodossie; gli altri dovrebbero leggerne le tipicità dismettendo l’aneddotica folcloristica che talvolta scimmiottano – loro non pertinente – e concentrarsi invece sull’elevato contributo dialogico offerto. Se per Islamismo politico intendiamo le dottrine politiche sorte nell’alveo della cultura islamica, forme temperate di secolarismo arabo devono esservi incluse nell’ottica di espandere, a Est e a Ovest della Mecca, le libertà politiche così spesso sequestrate da corifei del potere che malamente indossano gli abiti di devoti della fede.