LA CONNESSIONE ASSENTE. Digitalizzazione degli spazi e contrazione dei diritti

di Francesco Iacopino (*)
Domenico Bilotti (**)
[Guardare avanti: esercizi di utopia razionale]

Abstract: La sospensione prolungata di tutte le attività di contatto relazionale ha determinato l’ampio ricorso agli strumenti informatici per concretizzare nell’emergenza i livelli essenziali di divisione sociale del lavoro. Gli strumenti cognitivi che il web offre al mondo del diritto vanno certo intestati a fondamento di risorse euristiche ed ermeneutiche prima sconosciute; tuttavia, la sensazione sempre più percepita è che l’utilizzazione delle piattaforme telematiche in luogo della ineliminabile ordinarietà della relazione sociale si stia rivelando un escamotage, neanche troppo raffinato, per comprimere ulteriormente, sotto l’alveo rassicurante di un paternalistico stato d’eccezione, situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente protette. Il punto di equilibrio dovrà essere ancora una volta dato dal know how tecnico-procedurale maturato tramite l’esperienza umana del processo giurisdizionale e dall’assiologia dei principi democratici. Indisponibili alle scelte di comodo e al detrimento incondizionato delle professioni, della ricerca, della soggettività critica.

I-Una recente sentenza della VI Sezione penale della Corte di Cassazione, la n. 1822/2020, ha inequivocabilmente ribadito la riconducibilità dei messaggi attraverso l’applicazione WhatsApp, al pari degli sms conservati nella memoria di un apparecchio cellulare, al novero di documenti, “di tal che la relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche”.
Su altro tema, una pronuncia della IV Sezione, presso la medesima Corte, n. 22039/2018, ha espresso una indiretta petizione di principio a favore della partecipazione dell’imputato alle udienze che lo riguardano – ritenendo la videoconferenza normalmente esperibile soltanto nei confronti di soggetti, attualmente e non in passato, sottoposti al regime penitenziario del cd. 41-bis per la particolare efferatezza dei reati commessi. Nella pronuncia de qua, la Corte non ha mancato di precisare come anche il legislatore del 2017 – che ha ampliato (con la Legge n. 103) il catalogo delle previsioni della partecipazione a distanza – abbia mantenuto la precedente locuzione nel ribadire la regola della videoconferenza per chi si trovi allo speciale regime detentivo: “sono state applicate le misure di cui all’art. 41-bis”. Non si può che far riferimento ad una situazione in atto e non anche ad una situazione relativa al passato, altrimenti “si produrrebbe un’interpretazione estensiva della norma che non pare corrispondere alla ratio legis, quasi a creare un “marchio” di pericolosità permanente per tutti coloro cui sia stata applicata, anche in passato, la misura in questione, anche se poi revocata”.
Le due pronunce sembrano ben espressive dei rapporti tra il diritto e la Rete in un concreto contesto statale e non nella dibattuta, ma ancora inafferrabile, necessità di coordinamento internazionale che una giusta funzione di controllo e repressione, verso le condotte illecite realizzate via web, imporrebbe nella cooperazione giudiziaria e sostanziale tra gli Stati.
Nel primo caso, l’esigenza materiale è quella di poter utilizzare rapidamente ed efficacemente in un processo la trasmissione dati di una chat così diffusa da avere soppiantato le lettere a mezzo posta, gli sms telefonici e, in buona parte, le stesse comunicazioni telefoniche. La controvertibile base del ragionamento sarebbe questa: le garanzie “rallentano”, rispettare una procedura costringe i tempi a dilatarsi, la giustizia per essere efficace non può rinunciare a un certo tasso di sommarietà. Sol che una giustizia troppo frettolosa non è giustizia: porta al pubblico dominio o, almeno, alla circolazione fatti privati spesso a dir poco collaterali rispetto al processo; devasta le strutture formali e sostanziali su cui si poggia il suo operato; moltiplica l’insoddisfazione e il senso di frustrazione dei presunti rei e delle vittime reali. Evitare che la diffusione di una pratica finisca per eludere il controllo cui soggiacciono le altre è una caratteristica esigenza della politica del diritto intesa in senso esclusivamente preventivo. Si noti a riguardo l’amplissima giurisprudenza di merito in materia di pubblicazioni a mezzo stampa contro ciclostilati e produzioni autonome negli anni Sessanta e Settanta: pronunce che talvolta facevano rimpiangere non certo il socialista anarco-mutualista Proudhon ma addirittura il religiosamente liberale John Locke.
Ci è chiaro anche l’indirizzo ermeneutico della seconda pronuncia: che un processo si svolga soltanto in video, non in aula, e magari con una connessione che nella riproduzione dell’audiovideo non raggiunge la necessaria fedeltà e completezza rispetto al vissuto reale, significa dar per normale una situazione di perimetrata eccezionalità. Nella dottrina dello Stato di orientamento democratico, l’eccezione è tale non perché assoluta, ma perché “eccezionalmente” giustificabile. Quale che sia la raffinatezza di criteri che la cultura liberal-democratica, laico-socialista o cristiano-personalista ci abbiano offerto, la legittimità di un’emergenza dipende in sostanza e sempre da un vincolo di proporzionalità: se l’emergenza giustifica istituti e atti che non mirano alla sua pacifica soluzione, questi ultimi devono essere travolti dalla judicial review. Elevare a generale ciò che è al più configurabile come specialità legata a una serie di circostanze soggettive e oggettive significa modificare la Costituzione materiale di un ordinamento. Il cambiamento della regola in quel caso lede un principio, non si limita ad aggiornare una norma.
La rapida propagazione del Corona-virus sul processo italiano ha fotografato e implementato i limiti di sistema sui quali da tempo le professioni chiedono un ripensamento largo, un’inversione legittimata en juriste. Nel mese di Febbraio, quando la politica era attenta a preservare una fisionomia generale di ordinarietà, gli uffici giudiziari si sono mossi in ordine sparso: alcuni anche con enorme volontà e buona intenzione, tutti purtroppo in assenza di criterio ordinante. Dalla decretazione presidenziale di Marzo in poi, si è affermato, ora tacitamente ora expressis verbis, un generale favore verso la lontananza, la connessione, l’espletamento solo telematico delle incombenze – in tutti i campi dell’agire comunicativo, suggerirebbe Habermas; in ogni manifestazione del rapporto tra il diritto e la ragione, direbbe Luigi Ferrajoli. Questa situazione è variamente giustificata e difesa sulla base dell’imponderabilità dei contagi, della necessità di continuare a diluire, in fase 1, 2, 3 …, ogni ipotesi di “compresenza” e possibilità di partecipazione (fisica) al giudizio, che i capisaldi del contraddittorio avevano tuttavia ritenuto essenziali a presidio del giusto processo accusatorio (come già aveva detto la Corte EDU nella nota sentenza, ormai del 2001, “Pellegrini contro Italia”).
Com’è stato efficacemente e autorevolmente sostenuto (Vincenzo Maiello), il governo, strumentalizzando in chiave retorico/opportunistica la drammatica emergenza in atto, intende sospendere fino alla data del 30 giugno – termine che tuttavia rischia di essere spostato in avanti a causa della non pronosticabile evoluzione della pandemia – le condizioni di agibilità del giusto processo penale di matrice costituzionale. D’un colpo, questo viene a perdere le sembianze di luogo fisico, smarrendo, con esse, la funzione di liturgia alla quale la democrazia costituzionale affida il compito di celebrare – anche sul piano simbolico – il primato della “ragione discorsiva”. Costruire un processo nel quale ciascuno dei protagonisti partecipa “da remoto” significa virtualizzare un contesto comunicativo che proprio alla simultanea presenza fisica degli attori del contraddittorio deve la sua specifica capacità epistemica di strumento privilegiato ai fini di un’affidabile ricostruzione dei fatti e di un proficuo confronto di tesi antagoniste. Questo dialogo ha bisogno del “teatro” dell’aula di udienza, perché, come ha scritto Franco Cordero, esige “acustica e ottica perfette”.

II-Sembra bene chiarire che le presenti riflessioni non muovono da alcuna concezione aprioristicamente ostile nei confronti delle nuove tecnologie. Da quando si sono palesate le norme profilattiche e di distanziamento sociale, imposte dal tentativo di contenere pragmaticamente i contagi da Covid-19 (obiettivo raggiunto in larga ma non decisiva misura), l’utilizzo dei ritrovati telematici ha consentito che alcune libertà individuali e collettive potessero mantenere una qualche concretizzazione nel vissuto dei destinatari del loro riconoscimento. Le piattaforme web hanno consentito una tribolata, ma generosa, prosecuzione della libertà di insegnamento di cui all’articolo 33 della Carta. La libertà di riunione è stata esercitata nelle forme strette dei seminari e dei circoli virtuali: sul piano teoretico-ricostruttivo, ciò significa tradire uno dei presupposti fenomenologici tipici delle libertà associative; sul (contingentato) piano operativo, si è mantenuta una qualche vivacità interna delle formazioni sociali il cui ruolo è espressamente sancito all’articolo 2 della stessa Costituzione. Infine, hanno cercato di capitalizzare l’utilizzo delle tecnologie le confessioni religiose, dando sovente dei loro riti possibile fruizione online – che è comunque ipotesi di attuazione molto sui generis, almeno sul piano empirico, dell’articolo 19 e del diritto di libertà religiosa. Non tutto il web è stato male: non si può pensare divenga l’ambiente applicativo permanente dei diritti, perché i diritti esercitati soltanto tramite piattaforma sono diritti dimidiati, accomodati, porzionati. Adagiati in confezioni in cui non riescono ad entrare.
Per il dopo, se mai un dopo arriverà e qualcuno non proverà a trovare conveniente l’ibernazione delle procedure democratiche, sembra da rimettere in gioco una riflessione sui rapporti tra materialità e virtualità nel fenomeno giuridico. Questa relazione complessa è tradizionalmente passata da fasi diverse.
Agli albori del diritto commerciale (rectius: mercantile) della cristianità medievale prima e comunale poi, per esempio, la smaterializzazione del credito favoriva circolazione della proprietà e del possesso, diminuendo le controversie relative alla loro titolarità. Si è però detto, proprio nel diritto dell’economia, che la smaterializzazione è cosa evidentemente diversa dalla materiale apprezzabilità del bene e distinta pure dal capitale cognitivo che è centrale nei processi produttivi odierni. Ritenere che la rappresentazione possa sostituire sempre e comunque la partecipazione, che la digitalizzazione soddisfi ogni esigenza sostanziale ricompresa in discipline che tradizionalmente hanno promosso e tutelato quelle esigenze, che la cautela da interinale diventi indeterminata … è il peggior regalo che si possa fare alla cessazione dell’epidemia.
Si farà l’errore di ritenere una popolazione disciplinatamente e prolungatamente sottoposta a misure di contenimento, attuate con poteri eccezionali di sorveglianza, una popolazione meglio governabile. Il ragionamento tuttavia non tiene: si esercita solo con più facilità un potere esecutivo, non è detto affatto che lo si eserciti meglio. Certo, non lo si esercita con più rispetto delle libertà fondamentali.
Un saggio di Realino Marra, pubblicato sui Materiali per una Storia della cultura giuridica nel I fascicolo del 2011, rifletteva con molta ponderazione sulla natura antinomica degli italiani. Sulla propensione all’ammuina, all’aggiramento della regola come soddisfazione di un radicale sospetto, spesso utilitaristico, nei confronti dello Stato e della comunità. Lo storico Paul Ginsborg si è molto occupato della genesi di questo sospetto, soprattutto nell’Italia meridionale unitaria, quella che, come ben notava Antonio Gramsci, rimpiangeva il sanfedismo e magari i Borbone, ma soprattutto in spregio al senso di dominazione eteronoma che permeava nell’estensione d’efficacia delle codificazioni piemontesi. Proprio per queste ragioni, però, pensare che la radicale scarnificazione burocratica digitale risolva i problemi e tuteli i diritti è fasullo – il mezzo è contenuto nella mentalità del fine, diceva un confuciano esperto di arti marziali. La modulistica web atterra i popoli della comunicazione informale, ma è anche inutile se la regolamentazione che quei moduli devono recepire è illeggibile tanto su carta quanto su schermo. Affidare il diritto solo alle chat, prosciugandolo di ogni ipotesi di contraddizione materiale e di conflitto, non lo rende pacifico: lo renderebbe sterile. Un privatista come Giorgio Resta, oltre dieci anni fa, quando andavano di moda i processi anticipati in televisione, coi modellini e le mappe e gli attori che rappresentavano gli imputati o gli indagati o peggio ancora le persone informate dei fatti come colpevoli o complici, ammoniva contro gli “oracoli” del processo spettacolarizzato, da new media, da simulazione. La telematica è uno dei più sottovalutati strumenti della nostra contemporaneità legale. Per far finta che questo gap di alfabetizzazione non esista, trasformare l’infrastruttura digitale da strumento a fine, da maschera a viso, da travestimento ad anima, significherebbe far dell’eccezione la vera, nuova, impersonale, strategia del governo.

[*] il presente studio deve intendersi frutto della riflessione congiunta dei due Autori. Ai soli fini della valutazione, il paragrafo I è da riferirsi all’opera di Francesco Iacopino; per gli stessi motivi, il paragrafo II a quella di Domenico Bilotti.
(*) Avvocato del Foro di Catanzaro – Componente Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione dell’Unione delle Camere Penali Italiane
(**) Docente di Storia Contemporanea e delle Religioni – Università Magna Graecia di Catanzaro