Ocasio-Cortez tra movimento e partito

di Mario Reale

1)  A proposito dello scambio di opinioni che Giorgio Cesarale ed io abbiamo avviato in merito alle recenti elezioni presidenziali americane, mi pare utile  leggere l’intervista, frutto di una lunga conversazione con A.W. Herndon, che A. Ocasio-Cortez, sempre più leader nazionale della sinistra del Partito democratico, ha dato al ‘New York Times’ del 9 nov. scorso. Mi tengo solo ai temi che più fanno al nostro caso, riesponendoli a senso e per sommi capi, quasi come titoli delle questioni. Dunque AOC pone al centro delle sue preoccupazioni l’unità del Partito democratico: obiettivo meritevole e persino necessario, che però Biden deve saper definire e conquistarsi, se non si vuole che, quando finalmente il radicalismo avrebbe carte da giocare, da ultimo con la pandemia, la regia del partito resti in mano ai più moderati. Biden – è il tema corrente di AOC – dovrebbe in realtà adottare l’agenda Sanders. La battaglia contro Trump s’è fatta, concludendosi più che in una vittoria, nel freno posto a una pericolosa decadimento dell’intero quadro politico.

AOC sostiene di aver combattuto fedelmente la sua battaglia nelle fila di Biden, ma ora, sostiene, s’è tornato alla conflittualità delle Primarie, mentre si tratta di ricostruire l’unità del partito: cominciando, da parte sua, col ricordare il monito della cattiva prova di Biden tra i latinos, in Florida come in Texas, e rispondendo alle accuse della destra interna nei suoi confronti, per il sospetto che sia stata causa della perdita di seggi democratici alla Camera, una difficoltà che si aggiunge a quella del Senato. La lamentela degli sconfitti è un classico: come potevo vincere con un partito estremista e socialista come quello di AOC, con SQUAD e BLM.  Molto sicura di sé, AOC, che ha raccolto più fondi di tutti i concorrenti, ed è stata eletta trionfalmente, con poco meno del 70%, nel distretto Bronx-Queens, dice di aver offerto sostegno a tutti i candidati di seggi traballanti: chi ha rifiutato ha perso, mentre i cinque che l’hanno accettato – sostenitori di ‘Medicare for All’ e di ‘Green New Deal’ – sono riusciti vincitori. La sconfitta va attribuita al fatto che i perdenti moderati sono stati abulici e obsoleti, qualificati con un’espressione che in italiano direi «culi di pietra».

Sotto la pressione di quell’escrescenza della democrazia costituita da Trump e dalle sue «truppe», c’è un evidente declino del partito, dice AOC, come s’era visto già dal secondo mandato di Obama rispetto alle speranze suscitate dal primo. L’appello rivolto da AOC, insieme con i movimento BLM e MFA alla destra del partito è : ‘non siamo nemici’. Ma la disponibilità vale con riserva: dipende, intanto, nella «Transition», dal segnale che si manderà con la composizione del governo Biden, con le posizioni riservate alla sinistra nella nuova Amministrazione; di qui, si capirà se continua l’ostilità nel partito verso tutto ciò che sa di progressivo, o se si apre un periodo di una collaborazione più aperta e leale tra le parti. Una profonda incertezza dunque segna l’atteggiamento di ACO, che non esclude neanche la possibilità di un suo ritiro dalla politica: nel breve periodo devono parlare i fatti, e solo a partire da questi sarà possibile stabilire una strategia per il futuro.

2)  Che tipo di strategia, relativa a quali scelte, potremmo liberamente chiederci andando oltre l’intervista a AOC? Qui vorrei formulare in breve due dei possibili quadri di riferimento che potrebbero aprirsi in questa situazione, ma che in generale costituiscono due ricorrenti alternative della politica moderna, e in particolare di     quella ispirata dal movimento operaio. Per comodità, e semplificando non poco, chiamo l’una scelta di movimento, l’altra di partito. La prima deve essere intesa come intransigente coerenza tra la politica di radicale opposizione al capitalismo nonché alla società che gli è conforme e, senza scarti, le forme politiche in cui questa tensione rivoluzionaria si esprime. L’espansione di una simile forza sul piano della società civile, sul terreno dove operano i movimenti, e quindi sul piano politico, avrà limiti di «classe», come si diceva un tempo. Ma pretendere che questa energia, senza nulla perdere del suo rigore, si estenda fino a diventare maggioritaria, di qui traducendosi in conquista del potere politico, pare, in condizioni «normali», nell’attuale situazione del mondo, molto improbabile, e persino contraddittorio, se non altro poiché si chiede a chi vive nella temperie rilassata delle odierne democrazie, e ai nostri stessi costumi di vita, una radicalità e un rigore esigente fuori moda e fuori tempo. Naturalmente, nulla vieta di pensare che ci possa essere un buon uso della filosofia della storia, che in certe contingenze economiche e politiche, forse mai «normali», con un diverso atteggiamento dello spirito del tempo, si diano condizioni perché le forze del nostro ipotetico movimento, si estendano, come per la propagazione di un moto naturale, da ogni lato.

La cruciale domanda, che richiede responsabilità, è ora quella di chiedersi se, dopo il primo ventennio del nuovo millennio, con le sue inedite e terribili novità, siamo oggi in questa situazione ‘normale-eccezionale’. Tuttavia, poiché non ci possiamo affidare allo spontaneo movimento dei mercati capitalistici, e dobbiamo in tutti i modi, d’altra parte, premunirci da esiti all’apparenza rivoluzionari che in realtà possono divenire catastrofici, dobbiamo anche chiederci se il movimento (o i movimenti) di cui parliamo siano in grado di assicurare la tenuta politica di questo vasto sommovimento, di indirizzarlo in qualche modo, piaccia o no, di cercar di garantirgli la maggior durata. Certo, vi sarebbe il vantaggio, per la natura stessa dei movimenti, di non doversi rimettere a programmi dati e vincolanti, e persino, fino a un certo punto, star solo a guardare, lasciando che si diano spontanee forme creative di convivenza. Il rischio di una tensione dissolutiva sarebbe così bilanciato dalla soddisfazione di un’emancipazione che sa costruire nuovi modi di espressione umana, con una libera presa in carico della propria storia e delle sue molte possibilità.

Lavorando la propria specificità e parzialità i movimenti, che qui dobbiamo assumere di necessità come plurali, ottengono in qualche modo sempre risultati, poiché smuovono assetti tenaci e invivibili, mostrano come si fa, nascono ovunque dal basso e si organizzano in forme varie, mantenendo all’interno dei partecipanti una maggiore fraternité. E tuttavia, per la natura che abbiamo supposto nei movimenti, il limite, proprio mentre attivamente si lavora da più parti, sta sempre in un certo attendismo, nato dai ridotti orizzonti e dal frazionamento, senza nemmeno l’ombra, perciò, di poter disporre di  un’iniziale messa in moto, di una chiquenaude: lo spontaneismo della nascita e delle nuove forme sociali è anche spontaneismo del darsi o no di condizioni favorevoli, del presentarsi di «accidenti» che non dipendono da noi e che se non si danno.

3) In una stilizzazione né pragmatica né propriamente teorica, diverso e, ai nostri fini  opposto è il caso che riassumiamo nel titolo «partito». Se nei movimenti c’è un certo grado di soddisfazione e talvolta di esaltazione, da controllare, nei partiti che operano nella democrazia si mostra piuttosto in primo luogo oggi un senso di mestizia, che deriva da pretese, grandezza e titoli passati che si sono via via consumati nel tempo. Non c’è dubbio che il partito sia la forma moderna della politica, lo strumento storicamente essenziale della democrazia, capace di definirla, come sapeva bene Kelsen. La delusione nasce proprio dal deteriorarsi di questo glorioso vanto, che in Europa appartiene in origine all’inventiva del movimento operaio, dal senso di perdita che il suo illanguidimento induce non già nel gioco funzionale e istituzionale dei partiti, ma del loro venir meno nella politica democratica, come costruzione sociale che può dar senso dovuto a tutti i cittadini. Più impegnativa, a rigore, l’adesione e la (residua) militanza partitica, e più cocenti i disinganni che l’accompagnano. Ma se così è, bisogna passare ad altro, ed giusto che i movimenti acquistino tutte le loro chances.

Tuttavia, il partito continua a esprimere sempre, nella democrazia, il ricordo di una sconfitta della parte popolare, qualcosa d’ineludibile e punto di partenza d’ogni altra possibilità. Il memento s’esprime nella consapevolezza che ciò che un tempo faceva «paura» alle classi alte, costrette ad assestarsi, per timore della democrazia quanto meno nella repubblica, è diventato anche un loro possesso, e a volte, con i loro mezzi, persino un esclusivo gioco; che stiamo insomma, entro la stessa politica democratica, in una società pluriclasse, con forze e poteri asimmetrici, che non si vede dove né quando eliminabili. Il tratto dell’uomo democratico di sinistra è perciò non quello del fiducioso abbandono, ma quello della reticenza, del sospetto, della cautela e dell’accortezza. Prenderne atto vuol dire che, mentre non si deve mai negare che la democrazia ha costituito e ancora costituisce, tanto più in assenza di altre carte di pari valore, la propria patria, non si trova mai fino in fondo in essa veramente l’essere a casa dell’ heimat , poiché nemmeno nella vittoria scompare del tutto l’ombra del compromesso. Ed è sicuro che la perdita, non si dirà dell’introvabile trasparenza, ma persino della tranquilla fiducia, ha un costo, che il movimento non vuole assolutamente pagare. E tuttavia, nemmeno si negherà che, a causa delle molte lacerazioni che ci attraversano, il compromesso sia in generale un linguaggio nient’affatto spregevole, poiché, men che mai in politica, si può continuare a immaginare, qualcosa come i «gruppi in fusione» di una volta.

Il vero punto in questione è fino a che punto possono spingersi i compromessi senza dannarsi l’anima. Il limite è frutto nel partito di una perenne lotta, una trattativa cui non pone fine nemmeno un’autorevole leadership. Concentrandoci ora sul solo problema organizzativo, l’ampiezza degli uomini e delle correnti che si riconoscono in un partito è già in se stessa, prima dei parlamenti, un’immagine – un tempo si sarebbe detto uno «specchio» – di ciò che accade in una società dalle molte, sempre più sfrangiate e nuove, classi, o di condizioni e ceti diversi. L’unità è un bene irrinunciabile, da riguardare con cura, ma la complessità che oggi ci costituisce non sopporta più confronti con il passato, non consente più vecchie forme di adesione a un vincolo comune. E ciò vuol dire, naturalmente, complessità e divaricazione degli interessi, da quelli macroscopici, economici e di potere, alle piccole differenze di cui ci nutriamo che generano «narcisismo», come diceva Freud, e dunque altri sfrangiamenti. Il partito è al suo interno una scuola di democrazia: si deve trattare senza rinunciare ai propri principi: la sinistra, specie nella «sinistra», deve continuare a parlare, pena lo sfaldamento del tutto, il proprio linguaggio, e tuttavia saperlo articolare, finché non s’intraveda il limite della resa all’avversario, in modi liberi e comprensivi, capaci di tener conto dei principi e delle esigenze di altri, in base al condizionamento della realtà.

Potrebbe sembrare che per questa via si proponga l’esigenza di un partito il più possibile concentrato nei suoi indirizzi e nelle forze che li esprimono. Ma è vero il contrario. Voglio dire, con Rousseau, che solo dal gran numero delle piccole differenze nasce la volontà generale. E mi pare opportuno citare, non come modelli, ma come  lezioni, fossero pur lievi, del passato tramontato, ma che potrebbero continuare ancora a servire, il «partito nuovo» di Togliatti, cui l’ultimo Laclau guardava con grande interesse, o la socialdemocrazia di Willy Brandt, là dove c’erano sindacalisti e trozkisti, gruppi religiosi e movimenti gay. Si tratterebbe insomma, di cercar ancor oggi di integrare (in qualche modo) esperienze tra loro molte diverse se non opposte del far politica, dalla destra delle piccole riforme ai gruppi della sinistra più radicale e minoritaria e, sul piano del costume, da realtà più tradizionali ai movimenti lgbt; di provare a tener insieme non una classe che non si trova, ma il maggior numero possibile di sfumature di classe. Certo, c’è il pericolo che il tutto somigli a quelle divisioni di sette e partigiani all’interno della grande divisione partitica, che Machiavelli e Rousseau temevano, ma si può anche pensare a parzialità che, perseguite con vigore, siano tuttavia riportabili, nella politica come grande arte, a un disegno comune, essendo ascrivibili, sia pur con enorme fatica, in una generale prospettiva di cambiamento.

4) Mi rendo conto che sto parlando, se non di un’utopia, di un wishfull thinking, alzando troppo il tiro rispetto a un’esperienza che, come quella dei partiti, ha mostrato le corde. Ma il partito va difeso in linea di principio e teoricamente, perché, come che stiano le cose, rappresenta veramente una straordinaria invenzione moderna, tanto che, a pensarci, non viene in mente per sostituirlo nulla di nuovo. Dovrebbe costituire quasi un’ideale sfera protetta questo complesso e fragile ritrovato, che il mondo liberale non è riuscito mai a capire per quel sospetto trascendimento delle singole individualità che sembra di necessità comportare, e di fatto comporta, senza però che la libertà ne esca veramente intaccata. Non credo che proprio questi pensieri alberghino nella mente di AOC, pure sono quelli che ha suscitato in me osservatore. Ho diviso in due il ragionamento tra movimento e partito, ma il problema alla fine si pone solo quanto alla capacità di riuscire ancora a fare un partito, agiato e stretto nel perseguimento dei suoi scopi, di predisporsi a vincere una scommessa difficile e persino alquanto improbabile. Questo fine non è in contraddizione, e anzi può convivere tranquillamente con la prospettiva e la pratica dei movimenti, con cui ha pure una segreta solidarietà. Non si richiede alcuna preventiva esclusione: l’insieme delle opzioni possibili è ancora inferiore alla bisogna. Ciò che invece si domanda è una grande e presso che insostenibile pazienza: la capacità di ricominciare ogni volta quasi da capo, la fatica di pensare cose nuove, la sopportazione delle defezioni e degli inganni svelati, lo sguardo lungo come una scommessa su uomini e cose, la forza di non rinunciare alla speranza.