Americana I

di Giorgio Cesarale

 

La bella riflessione di Mario Reale sul mio pezzo intorno ai risultati delle elezioni presidenziali statunitensi affronta essenzialmente tre questioni, che sono di grande rilievo nel presente contesto politico. Cercherò di snodarvi attorno le mie considerazioni tenendo conto che ciascuna di tali questioni trapassa nell’altra secondo una logica ascendente, di crescente importanza tematica:

1) il giudizio sulla traiettoria politica di Bernie Sanders. Reale scrive a riguardo che forse “Bernie Sanders, che è trattato troppo male da GC (un vecchio amore «reprobato» ?), ha capito delle cose. E cioè: che da una catastrofe come quella di Trump si poteva uscire solo da «destra», che la «sua» sinistra avrebbe, con ottime probabilità, perso, che bisognava dare una mano al futuro, tenendosi anche pronto, senza tatticismi, a un eventuale ritorno delle proprie forze sulla scena politica”. Il punto di partenza dell’analisi è condivisibile: a un certo punto delle primarie democratiche, nelle settimane immediatamente successive al Super-Tuesday, Sanders ha capito che i margini della sua azione si stavano inesorabilmente restringendo, che non avrebbe avuto molto senso proseguire la sua campagna fino alla conclusione delle stesse primarie, rappresentata dalla Convention estiva del Partito democratico. Quattro anni prima, quando la sfidante era Hillary Clinton, era stato possibile, ma nella primavera del 2020, con il rapido diffondersi del Covid-19 e l’acutizzazione della crisi istituzionale innescata da Trump, una battaglia di resistenza avrebbe avuto meno chances. Che, a quel punto, Sanders abbia deciso di ritirarsi dalle primarie democratiche non mi pare dunque illogico; come l’ha fatto suscita invece interrogativi più forti: nel mio articolo, accenno all’assenza di qualsiasi seria attitudine negoziale da parte sua, peraltro ampiamente legittimata dal significativo successo in alcuni Stati (vincere le primarie democratiche in California, uno Stato che ha il quinto PIL del mondo, non è uno scherzo). Tra virtuali pacche sulle spalle, vasta profusione di convenevoli, generosi attestati di stima (“Joe is a friend of mine”, era la premessa di ogni ragionamento di Sanders sulla politica di Biden), Sanders non è riuscito a strappare pubblicamente alcuna concessione, reale o persino simbolica, a Biden, indebolendo di fatto la sua posizione e quella dei suoi sostenitori. La mobilitazione per il single-payer system (il nostro servizio sanitario nazionale) rappresentata dallo slogan “Medicare for All” (il quale è, conviene ricordarlo, approvato dalla stragrande maggioranza di tutti gli americani, non importa se democratici, repubblicani o indipendenti) trova per esempio ancora oggi in Biden un fiero avversario.

Perché questo? Reale scrive che in quel momento è stato conveniente non abbandonarsi ad alcun “tatticismo”, giacché la posta in palio era più alta: la cacciata di Trump. Dissento: l’unità antifascista – posto poi che dall’altra parte vi sia davvero, strictu sensu, un fascista e non l’espressione di ancora più sottili e complessi fenomeni di malaise della democrazia – non può avere solo un significato politico difensivo, non può coincidere con l’arretramento delle prospettive di più radicale riformulazione degli assetti sociali e politici.  Qui, piuttosto, viene a mio giudizio in luce una vecchia tara della sinistra socialista di ascendenza “massimalista”, la quale sa essere talvolta efficacissima sul terreno dell’agitazione elettorale e della propaganda culturale, ma è avara di concreti e misurabili risultati. Nel mondo anglosassone, questa tradizione ha messo radici solide e tenaci, ed è giunta a caratterizzare vasti settori della sinistra interna al Labour Party, dai Bevanites (i seguaci di Aneruin Bevan) degli anni ’50 ai Bennites (i seguaci di Tony Benn) degli anni ’80-’90. Ma un’attitudine simile non manca neanche negli USA, anzi Bernie Sanders può esserne considerato uno dei massimi campioni: efficacissimo nell’azione di propaganda (sono rimasti nella memoria pubblica i suoi discorsi parlamentari contro la guerra in Iraq del 2001, viceversa appoggiata da Biden), Bernie ha tuttavia manifestato più dubbie capacità nel mutare i rapporti di forza dati;

2) nel novero delle capacità politiche bisognerà inserire anche quella di saper riconoscere gli alleati sinceri separandoli il più possibile da quelli meno sinceri. Va da sé che si tratta di una operazione che richiede molta perizia, molta finezza nell’utilizzo della scala dei grigi. Ma talvolta non è molto difficile farlo, se non altro perché gli avversari si dichiarano esplicitamente, per lanciare un preciso segnale al proprio campo. Prendiamo, a tal proposito, una recentissima intervista a Tony Blair, apparsa un paio di giorni fa sul quotidiano “La Repubblica”. Fra un pensamento e l’altro – per lo più un mucchio di solenni banalità – l’ex leader del New Labour, la creazione del quale “è stato il mio più grande successo” (Margaret Thatcher), ha ricordato, in tono diffamatorio, che “il populismo di destra non si sconfigge con il populismo di sinistra”, i. e. il socialismo, e che bisogna scordarsi qualsiasi velleità trasformatrice, perché bisogna virare “al centro”; proposito finalmente realizzabile da quando Keir Starmer è il nuovo leader del Labour, perché con lui “almeno si può parlare: da Corbyn ricevevo solo porte in faccia”. Meglio ancora anzi, si può aggiungere, da quando Corbyn è stato violentemente estromesso dal Labour. Ma che non si debba andare tanto per il sottile con i socialisti lo ha dichiarato pochi giorni fa, sull’altra sponda dell’Atlantico, la parlamentare democratica Abigail Spanberger, la quale ha invitato i colleghi di partito a non usare “mai più” la parola “socialismo”, poiché in questo modo si alimentano false aspettative. I lavoratori, le donne immigrate, i giovani, le minoranze oppresse, non hanno il diritto a una organizzazione politica autonoma, con la propria teoria, il proprio programma, le proprie bandiere. E se il redbait, la propaganda maccartista, non basta, bisogna passare alle vie di fatto: il “New York Times”, non certo una gazzetta bolscevica, ha parlato di lunghi conciliaboli nel 2019 intorno al

matter of What To Do About Bernie and the larger imperative of party unity [which] has, for example, hovered over a series of previously undisclosed Democratic dinners in New York and Washington organized by the longtime party financier Bernard Schwartz. The gatherings have included scores from the moderate or center-left wing of the party, including Speaker Nancy Pelosi of California; Senator Chuck Schumer of New York, the minority leader; former Gov. Terry McAuliffe of Virginia; Mayor Pete Buttigieg of South Bend, Ind., himself a presidential candidate; and the president of the Center for American Progress, Neera Tanden. “He did us a disservice in the last election,” said Mr. Schwartz, a longtime Clinton supporter who said he would support former Vice President Joseph R. Biden Jr. in this primary[ref]https://www.nytimes.com/2019/04/16/us/politics/bernie-sanders-democratic-party.html [/ref].

Insomma, Pete Buttigieg, il figlio dello stimato studioso di Gramsci, Joseph Buttigieg, sedeva, nella primavera del 2019, al tavolo con altri maggiorenti del Partito democratico e un finanziere di Wall Street per capire come “fermare” Bernie. Ce ne ha dato una precisa testimonianza un anno dopo, prima dichiarando falsamente di aver vinto le primarie in Iowa e poi riallineandosi a Biden proprio nel momento in cui Sanders stesso stava per scoccare, con il Super-Tuesday, il colpo decisivo [ref]AOC ha cominciato a capire la ferocia e la determinazione con cui il centro liberale sta combattendo i socialisti e nella sua ultima intervista al NYT ha usato, a riguardo, toni preoccupati: “Externally, there’s been a ton of support, but internally, (the party) been extremely hostile to anything that even smells progressive”. Il suo futuro politico dipenderà dalla esatta valutazione di questa ferocia e di questa determinazione e dai mezzi che appronterà per rispondervi.[/ref].

Usciamo dalla cronaca politica, per venire a una più generale e sostanziale analisi di fase: il centro liberale che emerge dalle righe dell’intervento di Reale è “moderato”, disponibile a fungere da camera di compensazione fra gli “estremismi” di destra e di sinistra. Ma a me appare piuttosto il contrario: oggi il centro ha perso, nella maggioranza dei paesi occidentali, la sua antica moderazione, si è fatto particolarmente estremista (come ha compreso Balibar parlando dell’“estremismo di centro” come una delle peculiarità più interessanti dell’attuale condizione). Noi italiani lo sappiamo bene, avendo assistito non solo a una lunga storia di metamorfosi del centro (prima liberale, poi cattolico, infine liberale e cattolico), ma anche al progressivo scolorirsi del suo moderatismo, prima in veste “tecnocratica” (Monti) e poi in quella “populista” (i 5 stelle).

3) perché questo venir meno della funzione di mediazione politica assunta storicamente dai partiti “centrali” dello scacchiere politico? Il tema è davvero complesso, così complesso da non poter essere consumato nel giro di poche note. Ma, in un certo senso, esso si collega al terzo punto toccato da Reale nel suo intervento: quali contenuti, oltre che forme organizzative, devono assumere le forze più avanzate della sinistra nella attuale costellazione? Quali posizioni esse cioè devono assumere di fronte a un centro che non si fa più agente della “modernizzazione gentile” [ref] “Gentile” vuol dire qui, a scanso di equivoci, negoziata, contrattata, aperta al compromesso, non pacifica.[/ref] del capitale, come è stato per lo più, nei paesi occidentali, fra il 1945 e il 1989, ma agente di una “modernizzazione regressiva” (Oliver Nachtwey), strumento di una ricomposizione politica più adeguata alle incerte condizioni del capitalismo mondiale, anno domini 2020, e cioè dopo un terribile financial crash nel 2007-2008 e un ancora più terribile corona crash (Grace Bleakely) nel 2020? Reale scrive che

Certo, taluni passi sono necessari e comuni anche all’America: si tratta di rafforzare o introdurre quelle misure di Welfare, in particolare riguardo alla sanità e alla scuola, che, utili e razionali, devono far parte del concetto stesso di cittadinanza democratica. Ma la sinistra è sicura che le sue tradizionali ricette, a cominciare da una qualche statalizzazione, o persino pubblicizzazione, dei mezzi di produzione, siano ancora sufficienti a vincere, specie in paesi di così forti spiriti animali come l’America, che non inducano a prevedibili sconfitte?; che basti il ritorno a Keynes, per affrontare l’oggi; che una sorta di vago sentore di economia di guerra non aleggi ancora nel suo immaginario?

Sono in gran parte d’accordo: le misure di Welfare, soprattutto dove non esistenti, sono imprescindibili, ma alle menti più sgombre dal pregiudizio dovrebbe risultare chiaro che in un contesto affetto da un insieme di fenomeni a sfondo catastrofico (finanziarizzazione fuori controllo, crescita impetuosa delle diseguaglianze economiche, migrazioni globali, cambiamento climatico, ora anche pandemie), non bastano né le politiche keynesiane di deficit spending, che aiutano soprattutto a differire la risoluzione dei problemi, né il ritorno, auspicato dai neoliberisti di destra e di sinistra, a una “sana” competizione intercapitalistica, utopica nella misura in cui anno dopo anno cresce il livello della concentrazione e della centralizzazione dei capitali[ref]Il tipico fraseggio del centrosinistra anni ’90 (“bisogna fare le privatizzazioni con le liberalizzazioni, altrimenti passiamo dal monopolio pubblico a quello privato”) è nullo in se stesso: le privatizzazioni+liberalizzazioni+lo Stato solo come regolatore non hanno ripristinato la concorrenza, perfetta o imperfetta che sia, con benefici effetti per i consumatori, come recita la dottrina, ma solo aumentato la taglia dei monopoli che ora invece di combattere nell’ambito del mercato nazionale o continentale, combattono sul terreno del mercato mondiale. Privatizzazioni e liberalizzazioni vanno cioè lette come strumenti intermedi per aumentare, a livello mondiale, il grado di centralizzazione del capitale.[/ref]. Il riferimento al New Deal può essere costruttivo, ma in un senso storicamente e politicamente meno corrivo, più preciso di quello presente nel discorso medio della sinistra borghese – e cioè come il risultato dell’intreccio virtuoso che esso seppe generare fra le nuove forme dell’autorganizzazione di classe e di massa (dal sindacato CIO ai comitati anti-sfratto e ai gruppi di artisti chiamati a lavorare nel suo ambito) e la potente trasformazione degli apparati di Stato, capace di fissare e codificare la nuova configurazione dei rapporti fra le classi. Senza dimenticare però che neanche il New Deal, pur essendoselo posto come obiettivo, fu sufficiente per superare la grande depressione degli anni ’30. Per quello si dovette aspettare la seconda guerra mondiale[ref]Il discorso, come si può intuire, anziché finire qui dovrebbe piuttosto ricominciare, riagganciandosi alla più generale discussione contemporanea sulla questione del socialismo. In Nancy Fraser per esempio (rispetto alla cui proposta abbiamo, con Mario Reale, riflettuto sulle stesse colonne di “Filosofia  in movimento”), si è riaffacciata la vecchia problematica, sollecitante e allo stesso tempo ambigua, delle “riforme di struttura”.[/ref].