Perché la Fiat licenzia MicroMega (la fredda legge della Repubblica della fabbrica)

di Antonio Cecere

Abbiamo appreso dalla stampa che la dirigenza di «GEDI» licenzia la storia e l’esperienza intellettuale della redazione di MicroMega. La notizia arriva fulminea, ma nessuno deve rimanere stupito, perché MicroMega è il baluardo della sinistra illuminista, quella Repubblica delle lettere che sappiamo bene essere incompatibile con la Repubblica della fabbrica.

Su questa dicotomia scrivevo appena un anno fa in un piccolo pamphlet uscito a corredo di un dialogo con Lamberto Pignotti (Lessico Resistente- Kappabit editore-2019), dove denunciavo, senza mezzi termini, che il sistema-industria del capitalista alto borghese fosse ormai la forma di autorità̀ che aveva preso il posto della figura dell’autocrate dell’Ancien Régime. Nel secondo novecento l’industria, come dice Pignotti, «non è tanto quella che si vede, quella delle ciminiere e delle macchine, […] ma quella che non si vede, o che ormai non vediamo più perché l’abbiamo sott’occhio, e che entra in noi. L’industria è il cibo, il vestiario, l’alloggio, il divertimento» (1968). Pignotti vede bene come l’industria si sia fatta sistema, linguaggio, identità̀ collettiva, superando l’idea di un sistema di produzione di oggetti e diventando, di fatto, essa stessa, il sistema unico della produzione di senso della società contemporanea. Quella tecnologia che per gli illuministi era funzionale al miglioramento delle condizioni di lavoro degli uomini diventa, oggi, una nuova forma di appropriazione delle risorse comuni trasformando il lessico politico delle democrazie contemporanee. L’industria, invece di essere strumento per la produzione degli oggetti utili all’uomo, produce i nuovi modelli di senso che plasmano, giorno per giorno, la vita e la coscienza dell’uomo moderno. In questo modo, il capitalismo industriale si è fatto senso comune, modello di appartenenza. A questo scopo tutto deve diventare “industria”, anche la cultura e l’arte. L’industria culturale, con i suoi ricchi artisti e il suo dare un prezzo ad ogni opera, ingloba e addomestica ogni espressione dissenziente, comprando e includendo nel sistema ogni voce critica non consente la sopravvivenza di chi si mostra autenticamente indipendente. Quando la produzione intellettuale diventa oggetto di consumo, un artista assume valore unicamente in base al prezzo delle sue opere; allo stesso modo, l’importanza di un intellettuale è misurata in base alla redditività̀ del proprio diritto d’autore. «L’industria si fa proposta di vita, […] lo si voglia o no, ogni forma d’arte, risulta ormai determinata dall’industria», così chiosava già Pignotti nel 1968.

Noi aggiungiamo che non solo l’arte, ma anche il pensiero adegua la sua forma alle necessità dell’industria, visto che non può più esistere, nel sistema del capitalismo odierno, nessun ruolo nella società̀ senza produzione e vendita. Non scrivi, non pensi se il tuo discorso non vende. Sei un intellettuale organico alla vittoria di un partito? Organico alla visione di un giornale? Adatto alla formazione di cittadini della società̀- fabbrica? Allora esisti, produci e vieni ricompensato con il tuo reddito. I grandi gruppi editoriali, affiliati all’industria produttrice di beni di consumo, accettano persino le critiche, tollerate per avvalorare la narrazione di libertà che la società consumistica occidentale intende tenere come immagine di sé. Ma queste critiche devono essere sempre ossequiose, con il piglio del dissidente di sistema.

La redazione di MicroMega non è im-piegabile allo scopo degli interessi della società dell’avanspettacolo consumistico. Come piazzare una pubblicità di sorridenti famigliole tra un articolo critico nei confronti della Chiesa e un altro di denuncia alla classe dirigente mostrata nella sua nuda banalità? Si potranno mai vendere merendine zuccherose su una rivista sempre acida contro il sistema-vita del Paese?

Come ebbe a dire John Swinton (1829-1901), nel 1880, in un discorso ai suoi colleghi del New York Times all’interno di un dibattito sulla libertà di stampa: «Il lavoro del giornalista consiste nel distruggere la verità, nel mentire senza riserve, nel pervertire i fatti, nell’avvilire, nell’aggrapparsi ai piedi di Mammona e vendere il proprio paese e la propria razza per guadagnare il pane quotidiano o ciò che gli equivale, il salario. Voi lo sapete come io lo so, allora chi può parlare di stampa indipendente? Noi siamo i burattini ed i vassalli degli uomini ricchi che si nascondono dietro la scena. Loro muovono i fili e noi danziamo. Il nostro tempo, i nostri talenti, le nostre possibilità e le nostre vite sono proprietà di questi uomini. Noi siamo delle prostitute intellettuali». In pratica Swinton ammoniva che il giornalista, quello che sbarca il lunario, è un uomo pagato per tenere il proprio pensiero e le proprie opinioni lontano dal giornale.

Gli USA sono l’avanguardia del capitalismo, una Nazione in cui la politica e la cultura esistono per proteggere il sistema e per diffondere il lessico del consumismo. Ma proprio tra gli americani ricordiamo esperienze dissidenti che hanno fatto scuola. Riviste come Politics (1944-47) o Dissent ( dal 1954) furono le prime a chiarire che il vero ruolo dell’intellettuale è quello di inventare, giorno per giorno, nuovi discorsi per coprire il nulla che la stampa produce come critica al sistema di controllo sociale, della burocratizzazione, della seduzione «totalizzante» del capitalismo sulle masse sempre più tese a indebitarsi, per ottenere consumi voluttuari, che è e la prima evidenza di un capitalismo capace di portare la maggioranza del popolo dalla sua parte e spegnere sul nascere qualunque dissenso organizzato.

Da tutto questo, risulta evidente il fatto che la Repubblica della fabbrica non può ammettere che qualcuno stia lì a denunciare un Macron che vende armi all’Egitto, tra un pianterello per gli eccidi di giornalisti satirici e una rituale lamentazione per la detenzione ingiusta di prigionieri politici. Non può consentire ragionamenti sul nuovo colonialismo industriale delle compagnie petrolifere o critiche a Mamma Chiesa durante le feste del Natale, dove il fatturato per oggetti di consumo, e grassi insaturi, è al suo apice.

La critica, quella radicale, non vende e non aiuta i fatturati, lo sanno bene alla Fiat, e la Fiat con i soldi (propri) non scherza. Conoscendo bene Paolo Flores D’Arcais, Cinzia Sciuto, Giorgio Cesarale e tutti i maledetti illuministi di questa ultra trentennale coterie di radicali rompipalle, mi rendo conto che il licenziamento sia un atto dovuto.

Se non sei organico al sistema sei fuori, questo lo aveva spiegato il grande fondatore di Dissent, Irving Howe (1920-1993), in un noto e ruvido J’accuse al ruolo del Philosophe nell’era geologica del grande capitale: «quando la società lo respinge, è un’altra prova della meschinità sociale; quando gli concede un posto onorevole, lo compra. Di fatto è un isolato, oppure un venduto».

Il capitalismo è questo, non fa sconti a chi non è allineato alle logiche del profitto aziendale e alle esigenze del mercato.

Antonio Cecere