“Costruire e abitare” in Giorgio Agamben
Lo scorso 7 dicembre Giorgio Agamben in qualità di ospite d’eccezione ha tenuto una conferenza sul tema “Costruire e abitare” in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola di Dottorato in Scienze dell’Architettura dell’Università La Sapienza. Interessante risulta l’invito stesso fatto al filosofo, suggerendo come l’architettura non sia una scienza puramente tecnica bensì un’attività che custodisce la dimensione dell’umano.
Per questo motivo, Agamben precisa che il fil rouge metodologico della sua riflessione ruota attorno all’archeologia che tenta di attingere all’arché, termine che la stessa “architettura” custodisce nella sua radice, che Agamben definisce come “lo scarto fra il punto di insorgenza di un fenomeno e la tradizione dei saperi che ce lo trasmette”. In più di un luogo il filosofo ha affermato che l’archeologia e l’indagine del passato sia la sola via di accesso al presente, a condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. L’interrogazione alla radice del suo intervento, infatti, si propone di offrire una diagnosi critica della situazione presente dell’architettura partendo dall’ipotesi che il nesso intimo fra costruire e abitare si siaspezzato e che l’apriori storico dell’architettura moderna sia l’incapacità ditenere insieme l’arte del costruire e l’arte dell’abitare.
Senza avanzare pretese di validità storiografica, Agamben suggerisce che nel XIX secolo con la nascita delle Facoltà di Architettura nelle Università gli uomini sembrano aver perduto la capacità di costruire la propria casa come attività naturale esercitata per secoli, e con essa la possibilità di sentirsi “a casa”, riflessione che fa eco al concetto di “professioni disabilitanti” di Ivan Illich che, nel saggio Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, evidenza l’insorgere di professioni che hanno condotto al monopolio e all’espropriazione di un’attività prima condivisa da tutti.
In termini estremi, l’ipotesi della rottura spiega il fenomeno per cui sia stato possibile costruire i campi di concentramento, edifici in cui non sarebbe mai stato possibile abitare. Come si può, infatti, costruire l’inabitabile? E inoltre, l’obsolescenza del concetto di abitazione trova una più recente applicazione nella polemica sollevata dall’exsindaco di Venezia e filosofo Massimo Cacciari che definisce “discorsi da anime belle” quelli di coloro che criticano lo stato di assedio turistico dei centri storici delle città d’arte rispetto a una desiderabile messa a punto dipolitiche di reinsediamento abitativo.
Per questo motivo, il metodo archeologico che passa attraverso il linguaggio fornisce uno strumento per indagare lecondizioni di validità e di possibilità dell’architettura.
Per far chiarezza sul rapporto tra costruire e abitare, occorre partire dalla sovrapposizione nella cultura occidentale di due dimensioni diverse dell’abitare e dell’abitazione all’interno di un unico vocabolo. Benveniste nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee e sottolinea due termini latini che corrispondono a due differenti dimensioni concettuali di “casa”: in primo luogo si definisce la domus come casa-abitazione, intesa come luogo di appartenenza a una famiglia; in secondo luogo, il termine aedes sta per la casa-edificio, da cui deriva in senso stretto il verbo aedificare, costruire. In questo senso, i vocaboli latini per “casa” coincidono nello spazio ma rappresentano realtà diverse che interessano da una parte la sfera sociale e politica e dall’altra la sfera tecnica. Infatti, l’antico locativo domi, “essere a casa”, non implica il trovarsi in un certo edificio ma l’appartenenza a una gens, a una famiglia, un contesto dove sono possibili le relazioni sociali e giuridiche altrimenti impossibili da ricoprire al di fuori. Il vocabolario di Benveniste, pubblicato nel 1969, fa emergere dunque la natura inizialmente non architettonica della casa, sottolineando quindi la divisione fra il momento tecnico del costruire e la natura umana e politica della casa-abitazione.
Al contrario, l’unità fra costruire e abitare è sancita dalla celebre conferenza Costruire, abitare, pensare tenuta a Darmstadt nel 1951 da Heidegger. Egli sostiene che la radice altotedesca del verbo bauen,“costruire”, è buan, “abitare”, e dunque solo l’abitare dà senso al costruire. L’uomo è un essere che costruisce perché abita e quindi l’architettura è il tentativo di tenere insieme queste due categorie essenziali.
Tuttavia, l’attenzione di Agamben si sposta di nuovo sull’indagine linguistica evidenziando come in latino il verbo habitare derivi da habeo, “avere” e ritorna sull’analisi affrontata da Benveniste nel capitolo “Essere” e “avere” nelle loro funzioni linguistiche dell’opera Problemi di linguistica generale riguardo lo stretto nesso tra i verbiausiliari “essere” e “avere”.
Benveniste mette in rilievo il ruolo dei verbi ausiliari avere ed essere e mostra la complessità della loro relazione. Essi mancano in numerose lingue e in alcune di queste il verbo avere è sostituito da forme verbali come “essere a”, “essere di”. Entrambi sono verbi di stato ma corrispondono a due stati diversi secondo cui essere è lo stato di colui che è e avere è lo stato di colui che ha. Formula alquanto tautologica che Agamben approfondisce esaminando le copiose declinazioni di habeo. Da esso, infatti, deriva habilis, qualcosa che si presta bene all’uso, che è capace; habitus inteso come modo di essere, contegno, abito, disposizione; l’espressione habitare secum,abitare con sé, avere un certo abito di sé, uso di sé.
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Abitare, dunque, non denota solamente lo stare abitualmente in un luogo ma un avere stabilmente o di solito, avere l’habitus di qualcosa. I significati di essere e avere si confondono a tal punto che avere un certo modo di essere fa dell’abitazione una categoria ontologica. In questo modo, abitare significa, come sostiene Agamben, “creare, consolidare e intensificare abiti e abitudini, modi di essere e di vivere”. Secondo questa accezione, ciò che appare interessante è la reciprocità fra modo di essere e modo di vivere che ha un risvolto etico, per cui la casa non si definisce come tana o nido ma come un luogo in cui esercitare intensamente i propri abiti. È proprio in relazione a questa definizione che l’architettura e gli architetti sonochiamati a misurarsi per ripensare la crisi radicale dovuta alla rottura fra costruire e abitare.
All’appello che Agamben fa rivolgendosi al pubblico di specialisti, segue la sua riflessione riguardo due elementi architettonici: la casa e la città accanto alle quali si accostano rispettivamente la porta e il mundus.
In primo luogo, la porta contiene in sé i significati differenti di apertura, soglia e chiusura, serramento. Per ovviare alla mescolanza dei significati, Simmel nel saggio Ponte e porta aveva distinto la porta dal ponte proprio per la possibilità della prima di essere chiusa, di definirsi come elemento di separatezza piuttosto che di unione, funzione alla quale invece risponde il ponte. Inoltre, il vocabolario latino conosce quattro termini per “porta”: porta, che rinvia all’idea di passaggio; ostium, da cui “uscio” che indica un’apertura che può essere chiusa; ianua, da Ianus il dio bifronte che segnala proprio labidirezionalità della soglia; e foris, termine che non si è conservato nelle lingue romanze se non nell’avverbio “fuori”. Foris è la porta considerata non come oggetto materiale ma come ingresso della casa intesa sia come aedes che come domus sede della famiglia, per cui fori indica il trovarsi fuori dalla sfera famigliare e denota il forestiero, l’estraneo. Ciò che è straniero, quindi, risponde al termine che originariamente corrispondeva allo“stare alla porta”.
Contraria alla porta a serramento è la porta che Carlo Scarpa adagia al suolo davanti all’ingresso dello IUAV di Venezia e cheAgamben utilizza come esempio per introdurre i concetti di città e mundus.
Il mundus è l’apertura circolare cheRomolo aveva fatto scavare nel rito di fondazione della città di Roma e in cui i suoi compagni gettano un pezzo di terra natale. Esso è l’umbilicus urbise funge da comunicazione non solo fra presente e passato ma anche fra vivi e morti. Inoltre, nei tre giorni dell’anno in cui si apre il lapis manalise la cavità è aperta, mundus patet, tutte le attività, specie quelle militari, vengono sospese perché i Mani, i defunti invadono lo spazio profanodei vivi. Il mundus nel senso originario è dunque questa cavità in cui veniva calato un ragazzo per trarre auspici, il mondo nel senso antico non corrisponde alla totalità degli enti ma a questa dimensione verticale e archeologica che la porta di Scarpa quasi richiama attraverso gli strati-gradini immersi nella vasca.
In ultima analisi, il metodo archeologico intrapreso da Agamben nel suo intervento intende proprio restituire all’architettura la sua funzione politica nel senso destinale della città e del rapporto che i saperi intrattengono fra presente e passato. Quest’ultimo è definito da Agamben in maniera ambivalente sia come il “ciò che è stato” ma anche come il “ciò cheavrebbe potuto essere e non è stato”, sfumatura di significato che per Agamben è importante in quanto in essa si prepara il futuro, il quale si crea solo facendo “progetti per il passato”. È dal passato che viene la possibilità, non dal futuro o dal presente che per definizione sfugge, per questo se il nesso tra costruire e abitare è spezzato ricomporlo significa fare progetti per il passato, significa cercare dei loci per il possibile per quella congiunzione che legittima l’architettura sottraendola dall’edificazione di spazi inabitabili.
Maria Chiarappa
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