Linguaggio e realtà
di Bruno Montanari
Tanto più la comunicazione diventa oggetto di analisi, quanto più le sue caratteristiche vengono esaltate dall’unicità ed esclusività dell’oggetto sul quale si concentra. E già il rendere esclusivo l’oggetto è di per sé un obiettivo strategico e questo si persegue attraverso il linguaggio. E’ perciò è su quest’ultimo che intendo spendere qualche riflessione.
Come esempio, parto da una espressione entrata di recente nell’uso: “lockdown”. Essa viene utilizzata dai giornalisti, e dai media in generale, poiché in una sola parola si veicola un messaggio semplice: “stare a casa”; e ciò avviene con una leggerezza che sembra essere inconsapevole del suo autentico significato e della realtà cui si riferisce nella lingua originaria. Sul ricorrere all’uso di una parola nella lingua l’inglese, e sulla sua abitudine, dirò in seguito.
Per il momento vediamo le possibili traduzioni in Italiano. Sono almeno due. Una più semplice, disponibile per chiunque voglia curiosare su Internet: “confinamento”; una seconda, più precisa, è quella che si ricava dal Cambridge Dictionary: a situation in which people are not allowed to enter or leave a building or area freely because of an emergency”.
Entrambe le traduzioni non si attagliano alla situazione per la quale l’espressione è usata dai “media” italiani.
La traduzione più semplice del termine è “confinamento”, che nella nostra lingua ha un significato ben diverso da quello, benevolmente domestico, di “stare a casa”, che attraverso il termine inglese si vorrebbe far passare. Infatti la traduzione italiana evoca l’esperienza del “confino”, come allontanamento dalla comunità politica di chi ne attenta alla integrità, all’ordine o anche alla salute (le dittature ne sanno qualcosa: Ventotene).
La seconda traduzione indica una situazione di restrizione in un edificio o in area a causa di una emergenza esterna; espressione che si riferisce a pericoli di tipo terroristico oppure, se si vuole ampliare l’ambito, a pericoli di tipo bellico in senso proprio. In altre parole è una espressione volta a tutelare l’integrità personale dipendente da un pericolo esterno effettivo. Anche in questo caso il termine si riferisce ad una situazione che non ha nulla a che vedere con lo “stare a casa” per la ragione che si tratta di una prescrizione “cautelare” destinata non a fronteggiare un pericolo, ma a prevenire un rischio. “Pericolo” e “rischio” sono concetti diversi: il pericolo è una situazione certa di cui non si può determinare il “quando”; il rischio riguarda un evento possibile, del quale non solo non si sa il “quando” ma neppure il “se”. Differenza che il diritto riconosce: il rischio si assicura, il pericolo si fronteggia, attraverso lo stato di necessità.
Tuttavia, proprio al fine di avvallare l’uso italiano dell’ inglese “lockdown” è stata diffusa, nel linguaggio mediatico, la metafora della guerra; metafora nella quale, infatti, vale la situazione di pericolo e non certamente quella di rischio. In guerra (anche io uso il termine in senso ampio e mataforico), infatti, bisogna salvare se stessi rinchiudendosi in luoghi sicuri per evitare le bombe del nemico; la pandemia, pur essendo un evento altamente drammatico, non ha le caratteristiche di una guerra, poiché il “contagio” non è una “bomba”. Il primo è un rischio, la seconda è una sicurezza. Non voglio proseguire su questo tema della inesattezza della metafora bellica a proposito del “coronavirus”, perché già altri ne hanno parlato. Mi interessa analizzare altre questioni legate al termine inglese..
La prima. Vi è da chiedersi perché usare una espressione così ambigua per indicare qualcosa di benevolo; e poi, perché usare un termine inglese e non qualcosa di più esplicito in italiano come “domiciliazione precauzionale”? Ciò che appare ad una analisi spregiudicata è che in Italia si sia attuato effettivamente un lockdown, costituendo una condizione di costrizione che nelle intenzioni del legislatore era a scopo cautelare (dunque “rischio”), ma la cui diffusione applicativa, invece, è stata interpretata come una situazione di pericolo, come si desume dalla esecuzione della restrizione indipendente dalla presenza delle condizioni materiali di rischiosità che sole la rendono giustificata. D’altra parte, una tale applicazione, del tutto anomala, è contraddittoria con l’idea stessa di “contagio”; il quale, per sua natura, implica necessariamente un contesto ambientale nel quale possa materialmente realizzarsi, pur rimanendo incerto sia il “se” che il “quando”. Fuori di un tale contesto, e poiché non ricorre una condizione guerra (per fortuna!), la norma si traduce effettivamente in un “confinamento”, nel significato restrittivo che ha in Italiano. Ne segue che la sua applicazione indiscriminata è illegittima, salvo a ritenere che il cittadino debba essere sottoposto a “custodia cautelare”, in quanto pericoloso come persona. In passato i governi operavano così nei confronti degli anarchici, ma doveva esserci l’occasione delle visite di Re e Imperatori. Non solo, ma segue anche un paradosso: che in molti trasgrediscono e basta, perché è nella natura logica del divieto l’alternativa secca “trasgressione”. Se, invece, le disposizioni si divulgassero con il linguaggio italiano, e non semplicisticamente con una sola parola in altra lingua, che piace tanto ai giornalisti, forse si educherebbe la gente a ragionare di più ed a seguire “regole” anziché trasgredire divieti! A ciò si aggiunge un sospetto. Il consentire la divulgazione in inglese, lingua al cui uso il popolo italiano è abituato in tutte le salse, consente di non assumersi la responsabilità giuridica della “realtà” della prescrizione che i funzionari pubblici sono chiamati a far rispettare e sanzionare.
Sono partito da questo esempio linguistico per mostrare come esso metta in forma una realtà così semplificata (e qui l’inglese come vedremo è decisivo) capace di produrre decisioni dagli esiti discutibili. Pensiamo alle proposte che vanno in giro circa la ripresa a scaglioni. Una delle proposte è la dislocazione nel tempo in base alla età o in base al sesso: le donne prima degli uomini e i giovani prima degli “anziani”. Dove conduce una modalità operativa così conformata? Conduce ad una visione discriminatoria; porta cioè a concepire esperimenti fondati su fattori di discriminazione umana. Cosa implica una concezione di questo genere? Implica una antropologia costituita in base ad un paradigma tipologico che differenzia la condizione umana in base alle caratteristiche culturali, alle condizioni sessuali, anagrafiche, mentali, fisiche; in base, più in generale, alla dicotomia “normalità” / “diversità”, dove i due termini si caricano, nella percezione comune (sia pure erroneamente), di significati valutativi e dunque spesso discriminatori. Rappresentazione tipologica, della quale la storia ha sperimentato sufficienti aberrazioni. Purtroppo oggi ci si esprime tipologicamente con una leggerezza comunicativa che tradisce la superficialità intellettuale e l’ignoranza di coloro che ne parlano (non solo in Italia, sia ben inteso), i quali dovrebbero leggersi quanto scrive Guido Calabresi a proposito del tema delle “scelte tragiche”.
Il punto è qui: il nesso tra linguaggio e rappresentazione tipologica che chiama in causa l’ “Inglese”. Una lingua non è solo sequenza di parole, ma è un “sistema di pensiero”. D’altra parte, che una lingua sia l’espressione logico-semantica di un sistema di pensiero lo si vede nelle traduzioni. Si pensi al ruolo delicatissimo del traduttore nelle negoziazioni politiche, il quale potrebbe costruire, con il suo intervento, un esito negoziale diverso da quello voluto dalle parti. Anche qui vi sono nella storia esempi drammatici.
Da questa premessa segue che se una cultura importa, per abitudine linguistica, espressioni di altra lingua, con esse importa anche il corrispondente sistema di pensiero. Così l’affermazione della lingua inglese è decisiva, poiché veicola e diffonde una forma mentis, che è propria della cultura che ne è alla origine e che finisce per in-formare i modi di ragionare delle culture contaminate dal suo imperialismo linguistico. Mi spiego.
L’inglese è una lingua che è la “rappresentazione semantica” di un mondo pensato secondo il paradigma empiristico-utilitarista; esso si svolge secondo l’alternativa costi/benefici, che dà luogo ad realtà “oggettiva” in quanto calcolabile. Non è senza significato che l’affermazione globale della lingua inglese sia strettamente collegata all’affermarsi globale dell’economia finanziaria e della tecnologia informatica, dove il paradigma costi/benefici dell’una e la semplificazione linguistica (0 / 1; SI / NO) dell’altra, si sviluppano perfettamente secondo il paradigma della calcolabilità tipologica.
L’imperialismo linguistico inglese ha determinato abitudini mentali di tipo economicistico-tecnologico dove i processi di “standardizzazione” (uso non caso il termine inglese-americano) sono essenziali per il raggiungimento dello scopo, proprio per la loro insensibilità alla non-tipizzabilità propria dell’ “umano”. Di qui, per le generazioni formatesi dentro quella “abitudine”, (fino al punto che in Italia, nelle comunicazioni commerciali, il latino “plus” si trasforma in “plas”, o “media” in “midia”!) il ragionare tipologico appare un processo mentale così spontaneo da essere seguito senza alcun sospetto critico.
In definitiva, la “calcolabilità” produce “sistemi di sapere” che si pongono oggi come egemonici, proprio perché presunti “oggettivi”, rispetto ad altri sistemi, che non fondandosi sulla calcolabilità, non sarebbero affidabili nella assunzione di decisioni. Mi riferisco all’attuale egemonia del sapere economicistico rispetto a quelli politici, giuridici, etici, i quali ne dovrebbero assumere a priori i dati, in quanto, per definizione, “oggettivo”, per quanto anch’esso non sfugga alla controvertibilità a seconda delle scuole di pensiero. Per non parlare dei saperi teoretico-umanistici come la filosofia (con i corollari costituiti dalla teologia, e dalla epistemologia) cui aggiungerei la fisica e la metematica, che sono saperi non fondati sulla calcolabilità aritmetica ma che cercano di intravedere il mistero del “mondo” in cui viviamo. Filosofia, Matematica e Fisica costituiscono l’apice del sapere umano; al contrario, l’imperialismo della lingua inglese, diffuso dai modelli economicistico e tecnologico-informatico, e che ha inquinato il linguaggio comune, allena la testa a costruire una realtà rappresentabile, semplicisticamente, mediante combinazioni semantiche sintetizzabili in caselle tipologiche, cui ci si abitua a rispondere con delle crocette.
In conclusione: meno decisionismo su standard, meno Inglese; assunzione, invece, di responsabilità politica e giuridica, nella consapevolezza che il decidere sottintende una rappresentazione della realtà, che è in primo luogo umana e complessa, quindi, non è semplicisticamente calcolabile né tipizzabile.