DOCUMENTO PROGRAMMATICO
di
Bruno Montanari
Premessa
Particolarmente diffusa è l’opinione circa l’inutilità dei cosiddetti studi umanistici, degli interessi ad essi associati, dei progetti da essi ispirati. Ma, a fronte di questa asserita inutilità, qualcuno dovrebbe spiegarci come mai, nonostante il primato della tecnica, dello scientismo e della prospettiva economicistica, si assista ad un evidente disorientamento generalizzato, ad una crisi che non è soltanto economica ma anche sociale, visto il degrado del tessuto e delle relazioni umane. Inoltre, l’impressione è che la progressiva affermazione del capitalismo finanziario, sostituitosi al classico capitalismo industriale e produttivo, coincida con una speculazione sulla crisi e sulla decrescita. In altre parole, più si sta male più margini di profitto sembrano esserci per coloro che, in nome del puro economicismo, giocano guadagnando sulla crisi. Crisi, che di giorno in giorno mostra sulla scena del mondo i suoi possibili profili catastrofici, dalla fame alle guerre, in atto o in potenza.
A ciò si aggiunga che il diffondersi, e l’affermarsi come esclusivi, dei modelli di pensiero “scientifico”, per la struttura delle categorie di ragionamento che necessariamente comporta, impedisce l’affermarsi di un pensiero “critico”.
Se le cose stanno così, occorre ribaltare l’intera prospettiva, poiché la complessità della società attuale, irriducibile a modelli di comprensione esclusivamente tecnico-economici, chiama in causa l’approccio umanistico quale chiave di lettura imprescindibile. Certo, è bene essere consapevoli di come ragionare in questo senso equivalga ad una dichiarazione di resistenza culturale. Il primato tecnologico, infatti, ha condotto a misurare l’impiego del nostro tempo e della nostra fatica esclusivamente su criteri materiali di natura esclusivamente quantitativa (poiché la “quantità” è l’unica dimensione “misurabile”), quali l’immediatezza, la rapidità, l’utilità, l’efficienza. In realtà, seguendo tali criteri di misura si rischia di guardare ad un agire pratico tipicamente funzionale alla performatività del sistema, senza spazi critici. Il pericolo di questa distorsione consiste nel costruire retoriche dell’azione, del calcolo e della prassi letteralmente insignificanti: un’azione funziona forse oggi per l’obiettivo presente ma, visto che non ci assumiamo l’onere di comprenderne il significato, non ci aiuta né a leggere né a governare la realtà a medio e lungo termine.
Se per garantire il funzionamento, oggi e soltanto per oggi, di un’azione, può bastare raccogliere dati e collezionare informazioni, per leggere, governare e orientare la realtà, secondo autentici fini generali, bisogna conoscere la realtà stessa e non solo esserne informati. Bisogna affrontare il quotidiano con metodo, consapevolezza storica e sensibilità culturale, insomma con l’approccio tipico degli studi umanistici. Ciò che è in questione, quindi, è il modello di conoscenza: non solo non ne esiste uno solo, ma ogni modello assolve a finalità diverse. Quello scientifico ha funzioni prevalentemente applicative, il modello di tipo umanistico serve a sollecitare la capacità sociale di critica, ed entrambi hanno uguale cittadinanza nella formazione del sapere.
Di quest’ultimo tipo di conoscenza si avverte la necessità in un Paese, come il nostro, in cui si assiste ad una crisi delle infrastrutture sociali. Una crisi, cioè, del tessuto delle relazioni tra gli uomini che tiene insieme una comunità nazionale e rende possibili le imprese dei singoli, da quelle economiche a quelle sociali, dai progetti materiali a quelli spirituali, individuali e collettivi. La democrazia non è infatti riducibile ad una forma di governo. Si tratta, piuttosto, di una concezione etica fondata sulla comunicazione consapevole. Per questo gli strumenti potenzialmente democratici, dai partiti ai media, per esser tali devono essere veri luoghi di formazione. Se questo è uno scenario condivisibile, allora occorre ripensare a ciò che può trasformare un semplice ambiente sociale anonimo, ove vige l’individualismo egoistico di massa, in una vera e propria “società”, che possa esprimersi con un’ “opinione pubblica” propriamente intesa. In questa operazione sono in gioco più di cento anni di storia: dalle istituzioni democratiche ai sistemi di protezione sociale, passando per le riforme del mercato economico, del lavoro e per una riconfigurazione del sistema partitico e sindacale. Questo percorso non può non avvalersi di forze diverse, di diversa provenienza professionale e culturale, capaci di indicare direzioni, proprio a partire da quel rilancio della ricerca e della riflessione di tipo umanistico in grado di diffondere una maggiore consapevolezza delle coordinate storiche e concettuali entro cui le nostre vite, le vite di tutti, si inquadrano. Un tale sforzo potrà fornirci nuove lenti per scrutare il nostro fumoso orizzonte.
Proposta
Del resto, quest’orizzonte andrebbe non soltanto scrutato ma anche compreso. L’obiettivo è, infatti, sapersi orientare di fronte ad uno spazio indistinto. Ma il punto è che una tale opera di orientamento e, quindi, di azione, presuppone l’esistenza di un ambiente sociale riconducibile ad una identità di “soggetto”, riconoscibile per un tessuto culturale, relazionale ed economico-produttivo, comune. Una tale ricostituita “soggettività” del sociale sarebbe nelle condizioni (così come è avvenuto nella storia moderna) di far sentire il proprio peso quando si tratta, come oggi, di ripensare il modello stesso della convivenza. A questo proposito, al di là delle diverse opzioni politiche ed ideologiche, l’esigenza posta di recente di dar vita ad un soggetto sociale non riducibile ai partiti e neppure al sindacato, in grado comunque di incidere sulla scena politica, coglie proprio il senso di una necessità storica. La necessità, cioè, di opporsi ad una frammentazione ambientale esasperata ed al pulviscolo di interessi e lobby incapaci di pensare ad un quadro condiviso di scelte sociali di fondo. Una tale frammentazione, privando la società di qualsiasi forma soggettiva di coesione, conduce all’isolamento sociale delle istituzioni e ad una loro progressiva delegittimazione, cui contribuisce anche una sorta di autorefenzialità lobbistica.
Occorre, allora, concentrarsi sull’obiettivo di fondo: la ricostituzione di un soggetto sociale, che non vuol dire “pensiero unico”, ma, al contrario, luogo entro il quale possano svilupparsi e prendere forma quelle diverse “visioni del mondo”, che alimentano una democrazia parlamentare. “Luogo” che consente di tenere fermo un nucleo simbolico di esperienze e principi condivisi da tutti.
In definitiva si tratta di recuperare il “peso” della Politica sulle regole imposte dall’economia finanziaria, cui segue la tensione, che viviamo quotidianamente, tra democrazia parlamentare e scenari sovranazionali.
Bruno Montanari
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