L’utile, la “Buona Scuola” e il diritto alla noia

Stefania Lombardi

Un tempo il totalitarismo era politico e circoscritto in uno o più Stati. Oggi è la politica a essere sotto scacco di un totalitarismo più potente e più invisibile che pervade ogni settore e che valica i confini statali per divenire globale. Per questo anche l’istruzione è merce, segue le regole del Mercato, del guadagno, di ciò che questa società controllata dal Mercato considera “utile”. Non si studia più per piacere o diletto, non si amano più i libri, ma si usano come mezzi e fonti di guadagno. Se in un processo educativo si premia (e/o si punisce) per un risultato scolastico, lo studio diviene mezzo e non più fine, è merce di scambio per qualcos’altro e non fine a se stesso, per il puro piacere del libro. Questo porta a una svalutazione (non solo monetaria) delle facoltà umanistiche, considerate come un “parcheggio” per ricchi che possono permettersi queste “perdite di tempo” (perché il tempo, si sa, è denaro). Il Mercato non si accontenta più di indirizzare gli adolescenti, ormai adocchia persino i bambini e i lattanti da nido con spot mirati per loro e rispettivi caregiver. Uno dei progetti che meglio risponde a queste “logiche” è, in Italia, quello della “Buona Scuola” (Legge 107/2015)[1].      L’utile, il produttivo, è assunto a Legge, al punto da volerne permeare l’infanzia stessa, ovvero quel terreno che è sempre stato lontano dall’utile in quanto libero; in effetti, l’utilità è l’essenza della morale degli schiavi per dirla con Nietzsche. C’è un motivo per il quale l’infanzia è territorio di libertà[2]: è formazione a vivere, non è formazione per sviluppare una competenza particolare. La formazione a vivere include il gioco[3] che non è solo una mera “palestra di vita” ma creatività, creazione, intuizione, coscienza di sé, libertà. La prima vera “competenza” per la vita è il Q.E. (l’intelligenza emotiva) che ci permette di comportarci adeguatamente in ogni situazione e ci aiuta a districarci in circostanze apparentemente senza via d’uscita; va di pari passo con la felicità; i primi tre anni di vita sono importanti per quest’apprendimento che s’imprime grazie alla “mente assorbente”[4] (Montessori). Per questo motivo, come aveva già rilevato Montessori un secolo fa, la mente del bambino è diversa in varie fasce d’età, e a volte persino opposta a seconda dell’età. Le principali fasce sono 0-3 anni (la cosiddetta “mente assorbente”); 3-6 anni e 6-12 anni. Ogni fascia necessita di un approccio diverso se non addirittura opposto. La “Buona Scuola”, ignorando pietre miliari della pedagogia[5] date illusoriamente per acquisite accomuna due fasce in un’unica fascia, la 0-6 anni, dimenticando che tra 0-3 anni e 3-6 anni l’approccio è persino opposto.   Si ignorano i bisogni di base dei bambini[6] in nome del profitto, dell’utile che è la morale degli schiavi, o forse proprio per quello, perché a questo il totalitarismo del Mercato mira in modo neanche tanto implicito. Si pensa esclusivamente allo sviluppo del Q.I., che altro non è che “allenamento” a risolvere situazioni tramite deduzioni “logico-matematiche”, competenze non sempre ancora del tutto acquisite a 6-7 anni, figuriamoci prima (per queste e molte altre ragioni non hanno senso le prove INVALSI). L’utile, il produttivo, è anche, paradossalmente, il fabbricatore del superfluo, del “surrogato”, spacciato come indispensabile. La nostra è, a ben vedere, l’epoca del surrogato , in cui, invece che soddisfare le richieste della prima infanzia, che sono fisiologiche, si sostituisce quell’appagamento mancato con un surrogato. Il surrogato ha varie forme: può essere un ciuccio (che riproduce il bisogno di suzione e di rassicurazione del neonato, senza avere, tuttavia, quel calore e quel “ritmo” del battito cardiaco materno e/o del “caregiver”); un biberon (che oltre alla non paragonabile qualità dell’alimento, non ha valore di nutrimento che è anche relazionale; esso è solo un “mezzo”, un distante, freddo e a-ritmico mediatore e non un contatto diretto); una coperta e/o una culla (surrogati dell’abbraccio come risposta a quel bisogno di contenimento, di essere avvolti e abbracciati in una relazione) ; oppure un distante passeggino che, come mezzo di trasporto, non possiede la forma “fisiologica” di una fascia porta-bebè che fa sentire protetti e sicuri, “pelle a pelle”, con il “caregiver”, cullati dai suoi movimenti; sono questi movimenti che favoriscono l’acquisizione della conoscenza del proprio corpo, del proprio sé, della propria autonomia. Sono parte dell’educazione alla libertà di montessoriana memoria, fortemente in contrasto con l’educazione alla schiavitù dell’utile. I bambini portati in fascia, come accade ancora in molte zone dell’Africa, sanno stare seduti già a 4 mesi e camminano a 9 mesi[7].“Il bambino ha bisogno di essere dipendente dalla madre per la conquista della propria autonomia con i suoi tempi. La dipendenza serve per sperimentare la sicurezza e l’accettazione da parte della madre, oltre che per allenarsi entrambi in una comunicazione non-verbale fatta di sguardi, gesti, pianto, e istinto che determina già in sé l’evolversi della relazione! Pochi hanno fiducia nella capacità di autoregolazione del neonato e nella competenza materna nel comprendere e rispondere in modo appropriato ai suoi bisogni. Nella nostra cultura viviamo il paradosso di voler rendere i bambini autonomi da subito, facendo esattamente il contrario di ciò che serve a loro per esserlo!”[8].

L’imperativo della produttività, dell’utile, coinvolge le parti del globo più industrializzate e non soltanto l’Occidente; sarebbe interessante vedere se la distanza colmata con oggetti al posto delle relazioni sia presente in ogni contesto industrializzato o se sia solo una prerogativa occidentale.
Di solito le società non consumistiche, non votate all’”utile” e alla “produttività” sono anche ad alto contatto[9]. Prescott J. W., psicologo dell’età evolutiva, nel 1975 pubblicò Baby pleasure and the origins of violence in cui, analizzando gli stili di accudimento in 49 culture nel corso del tempo, riscontrò futuri maggiori episodi di violenza e di aggressività nei soggetti e nelle culture che nel corso della prima infanzia erano stati accuditi a basso contatto fisico. La società occidentale è un esempio di società a basso contatto. Le relazioni sono mediate da oggetti, gli oggetti sono la base della produzione, dell’utile. Attualmente, nella occidentale Europa, un Horizon Prize, cerca idee da premiare volte a prevenire la mortalità e morbilità materna e neonatale nei paesi poveri; sono usati dei preamboli volti a far intendere come le soluzioni debbano essere non solo “close-to market” come si dice in questi casi, ma anche una sorta di “esportazione” del modello occidentale, dell’utile e produttivo, nei paesi poveri. Alla faccia della modestia! Questa è colonizzazione, e per giunta paternalista! L’intento di per sé sarebbe fantastico e molto importante se non ci fossero quei sottintesi, nemmeno tanto impliciti. A che serve, quindi, una facoltà umanistica? Già porre questa domanda è frutto della società dei consumi, del surrogato, del Mercato globale. Una facoltà umanistica (e non si parla solo a livello universitario, ma generale) è lo sforzo di pensare, di osservare in maniera critica la realtà mediante strumenti che forniscono una visione d’insieme che le “competenze tecniche” non hanno; è lo sforzo di non essere schiavi, di resistere al totalitarismo del Mercato tramite il continuo esercizio della ragione. I tecnicismi e la produttività nella primissima infanzia sono il tentativo di minare le basi di questa capacità di sforzarsi a pensare per resistere a certe forme di schiavitù ed essere attori (e non spettatori) della propria realtà. Anche alcuni progetti di “project management nella scuola primaria”, nonostante le buone intenzioni, possono rientrare nella casistica del tecnicismo precoce, soprattutto quando è il bambino/a stesso/a a voler saltare l’intervallo per terminare il progetto nei tempi[10]; soprattutto nelle scuole primarie, la ricreazione è un diritto: serve a staccare e scaricare energie; è un darsi una pausa per apprendere nelle migliori condizioni possibili (come dovrebbe essere l’apprendimento, soprattutto in quella fascia d’età). Dietro l’imperativo dell’utile e della produttività a qualunque costo è nato anche il progetto MAAM (Maternity as a Master), di cui si riporta un estratto dal sito web di presentazione:

“Da centinaia di migliaia di anni, la natura lavora per affinare le capacità di cura delle madri, in funzione di preservare la prole e perpetuare e migliorare le specie. Già dalla gravidanza, il cervello della madre inizia a lavorare di più e in modo più efficace; quando il figlio arriva le energie aumentano: nonostante il carico di lavoro e di responsabilità, nonostante la mancanza di sonno, il genitore sviluppa una sensibilità speciale, quasi dei “super poteri”. Non lo dicono le madri, lo dicono studi antropologici e scientifici e lo può sperimentare chiunque, anche senza procreare. Non è infatti l’atto generativo ad innescare il cambiamento, ma l’esperienza di cura. Immaginiamo ora di portare le competenze necessarie alla cura fuori di casa, per esempio sul lavoro: autorevolezza, intensità di relazione, investimento continuo sull’altro, capacità di ascolto, strategie motivazionali.”

COSA SUCCEDEREBBE?

Aumenterebbero l’empatia, le capacità di relazione e di delega. Il gruppo diventerebbe più forte e coeso: in sintesi, più efficace.           Si potrebbe arrivare a dire dunque che l’esperienza di cura sia a tutti gli effetti un percorso formativo, un allenamento sul campo di autentica leadership. In una parola: un master. Maam – maternity as a master, ribalta drasticamente il modo di pensare alla maternità sul lavoro e rivoluziona l’idea stessa di leadership. Le aziende spendono denaro per costruire contesti artificiali dove i manager possano esercitarsi alla leadership, quando la maggior parte di loro ha già una palestra di provata efficacia in casa propria. Le aziende perdono il capitale umano costituito dalle donne che abbandonano il lavoro dopo i figli, proprio nel momento in cui diventano più competenti. L’esperienza di maam dimostra che investire sulle neomamme può aumentare la competitività di un’azienda”.[11]

L’idea in sé sembrerebbe sensata, carina e originale ma è, in larga parte, solo una risposta di sopravvivenza a una colpevole carenza di politiche adeguate a sostegno della maternità. Invece che lottare per pretendere politiche adeguate si fa il gioco del Mercato e si parla il suo linguaggio: quello della produttività. Nel progetto c’è solo l’adulto, l’adulto occidentale produttivo per forza e non il bambino, l’adulto di domani, con le sue esigenze che cozzano, spesso e volentieri, con l’adulto occidentale. Fermo restando che una donna debba avere la possibilità di portarsi dietro il figlio/a piccolo/a ovunque, anche al lavoro, ove non ci fossero alti rischi di pericolo per la salute. Dietro al “produttivo” c’è l’utile per antonomasia: lo schiavo. Educare alla libertà è esercizio di pensiero critico che s’interroga, in autonomia, sul mondo. Ecco gli strumenti delle materie umanistiche! Dovrebbero essere un diritto, un bene comune, un patrimonio dell’umanità. Questi strumenti sono “intangibili”, ma non “invisibili”. Siamo così accecati dal surrogato, dai consumi del Mercato che ci concentriamo solo su cose “tangibili” e per questo ci poniamo la questione dell’utile. Se ci interrogassimo, invece, su “tangibile” e “intangibile” potremmo vedere quanto la questione stessa sia mal posta.

[1] Il testo definitivo della legge si può consultare qui: http://www.liceimanzoni.it/wp_manzoni/wp-content/uploads/2015/10/LaBuonaScuola2015_testo_definitivo_gazzetta.pdf

[2] Al riguardo si consiglia Educare alla libertà di Montessori M. (Mondadori, Milano, 2008)

[3] Sul gioco non c’è soltanto Homo ludens di Huizinga J. (Einaudi, Torino, 2002) tra i saggi più significativi, ma anche I giochi e gli uomini di Callois R. (Bompiani, Milano, 2000) e il pezzo Per una teoria del gioco e della fantasia in Verso un’ecologia della mente di Bateson G. (Adelphi, Milano, 1977).

[4] I primi cenni alla “mente assorbente” sono in Montessori M., La formazione dell’uomo, Garzanti, Milano, 1993.

[5] Basterebbe, oltre alla lettura di Montessori, anche solo una rapida lettura di un qualsiasi scritto del neuropsichiatra infantile Winnicott D., assieme a qualche pubblicazione di Bowlby J.

[6] A tal riguardo quasi tutta la produzione scientifica del pediatra spagnolo Carlos González è molto chiara.

[7] Vedere, al riguardo, le ricerche dell’etnopediatra Elena Balsamo nel suo Sono qui con te (Il leone verde, Torino, 2014), saggio divulgativo con un ricchissimo apparato di paper scientifici aggiornati a supporto.

[8] Negri P., Sapore di mamma-Allattare dopo i primi mesi , p. 137, Il leone verde, Torino 2009.

[9] Si è presa per buona l’interpretazione dominante di “alto contatto fisico”, sebbene non del tutto precisa a onor del vero. Come ha già rilevato il pediatra spagnolo Carlos González nel suo Cresciendo juntos (Temas de hoy, Barcelona 2013), il termine è tratto, tramite traduzioni non proprio felici, dalla teoria dell’attaccamento di John Bowlby, l’attachment theory . Tale teoria sostiene che tutti i bambini (tranne, forse, alcuni rari casi patologici) stabiliscono un legame di attaccamento che può essere sicuro o insicuro. L’attaccamento sicuro o insicuro non dipendono tanto dal contatto fisico o meno ricevuto, quanto dalla prontezza della risposta ai bisogni principali di un neonato. Il contatto fisico è molto importante, ma è una delle conseguenze della prontezza di risposta ai bisogni della prima infanzia.

[10] A tal riguardo, invito a questa lettura: http://www.pmi-nic.org/public/digitallibrary/Evento%20Parma%20-%20Presentazione%20WG.pdf

[11] http://maternityasamaster.com/