Agnes Heller, Il male radicale. Genocidio, Olocausto e terrore totalitario, Castelvecchi, 2019

di Maria Chiarappa

La questione del Male Radicale rappresenta, ormai, il nodo nevralgico del pensiero post-bellico. Sebbene il problema del male occupi la riflessione filosofica nel suo intero, in quanto parte costitutiva dell’esistenza umana, l’indagine circa la sua radicalità rappresenta la cifra essenziale del pensiero moderno e contemporaneo. Ungherese sopravvissuta alla follia nazista, Agnes Heller nei quattro saggi raccolti in questo volume cerca di sciogliere quei dilemmi che hanno segnato la sua esistenza e la sua filosofia in maniera intima: come è stato possibile l’Olocausto? Esiste una ratio che permetta di comprendere un evento del genere? Che tipo di mondo permette che simili cose accadano? Cos’è la modernità? È possibile la redenzione?

Il concetto di “male radicale” è già ravvisabile ne La religione nei limiti della semplice ragione di Kant, nel quale il filosofo lo definisce come la tendenza naturale dell’uomo ad anteporre come movente l’oggetto del proprio desiderio particolare alla legge morale universale. Allo stesso modo, si ricorderà la riflessione di Hannah Arendt nelle celebri quanto controverse opere Le origini del totalitarismo e La banalità del male. Entrambi i pensatori rappresentano per Heller delle fonti continue di dialogo e di scontro su cui si forgia la posizione teorica dei saggi in questione. Se per Kant il male radicale è un difetto della volontà che antepone il proprio interesse particolare alla morale universale, oppure l’assenza di pensiero quale espressione della banalità dei burocrati nazisti che caratterizza la posizione arendtiana, per l’Autrice l’essenza radicale del male si contraddistingue nel singolare connubio fra pensiero e passioni che avremo modo di approfondire nel corso del testo. Constateremo, infatti, che il carattere discorsivo e astrattivo della ragione salirà sul banco degli imputati.

Prima di analizzare la natura del male radicale, Heller opera una distinzione fra mali naturali e male morale. I primi sono rappresentati da quei mali che fanno parte del destino umano comune, come la morte, o dalle catastrofi naturali che portano morte e distruzione e che colgono gli uomini impreparati. Tuttavia, non tutti i mali sono inevitabili, altri si possono prevedere e prevenire. D’altro canto, l’obiettivo dell’Autrice non è principalmente riportare la cronistoria della riflessione sul male, bensì spostare il focus edell’attenzione dalle cause positive, che forniscono una spiegazione positiva e assertiva, a quelle negative, ossia ponendo l’accento sul “cosa non è stato fatto”, definendo la responsabilità umana come omissione, pigrizia e negligenza nel prevenire mali prevedibili. Oltre a questo concetto, di derivazione cristiana, è innegabile che il male morale scaturisca dalle azioni malvagie che gli uomini commettono. Nel problema in questione, il male consisterebbe nell’eliminazione violenta e sistematica di altre vite.

Dunque, in cosa differisce il male radicale dagli altri mali? In cosa consiste la sua radicalità?

Per poter rispondere a tali domande è necessario focalizzare il nucleo centrale del pensiero dell’Autrice, il quale getta le sue radici nella normatività del principio fondamentale della modernità secondo il quale tutti gli uomini hanno pari diritto alla libertà e alla vita. Il ruolo svolto dalla massima fondamentale è essenziale poiché funge da principio della condotta morale, è la bussola dei valori moderni fondati sull’universalismo. Come accade in ogni epoca, i giudizi di valore sono situati nel tempo e nello spazio, motivo per cui è possibile giudicare certe azioni e persone malvagie solo in riferimento ai principi costituenti una determinata società. Tuttavia, Heller fa una distinzione cruciale fra l’azione malvagia e l’essere malvagi, poiché la prima sospende o contravviene i principi culturali di appartenenza, mentre il secondo elemento prevede non solo la negazione dei principi ma anche la creazione di nuovi valori totalmente contrari ed eretti a virtù. Emblematico è il riferimento all’opera La legge di Thomas Mann, secondo il quale i nazisti sanciscono un comandamento nuovo che impone il “Devi uccidere” al “Non uccidere” della tradizione biblica. Infatti, è proprio il connubio fra ragione e passioni, fra teorizzazioni del male e mobilitazione degli istinti aggressivi il presupposto psicologico che permette l’affermazione di un’ideologia quale strumento di dominazione del terrore totalitaristico. Non a caso, l’Autrice sostiene che “L’ideologia è un’invenzione” (p. 69) dal momento che impiega frammenti di teorie filosofiche e scientifiche facendolo confluire nel corpus del credo ideologico che divide Verità e menzogna in due versanti. Il pensiero strumentale e tecnologico caratteristico della modernità si fa, dunque, veicolo per l’esercizio sistematico della violenza e la massima fondamentale dell’era moderna viene sostituita dall’ideologia, sia essa definita in termini di razza, classe o religione.

Il Male radicale, dunque, è un problema moderno, lo scandalo di una civiltà che ha professato l’universalizzazione dei valori della libertà e della vita e che ha assistito alla nascita delle democrazie liberali. La modernità è così fondata su un fondamento che non fonda e che nasconde nei suoi recessi la possibilità sempre presente di un regime totalitario proprio in virtù della scelta fra una pluralità di valori morali. La differenza fra il male premoderno e quello moderno giace proprio nel carattere universale della massima fondamentale, per questo motivo non si riesce a giustificare qualsiasi azione che la sostituisca e che intacchi le norme che sottintende.

“La libertà di parola a favore del principio fondamentale e la mobilitazione della sua potenza critica sono le uniche prove del suo riconoscimento” (p. 63).

Per descrivere Agnes Heller tratta la Germania nazista come un caso particolare di Stato totalitario che vede nell’ideologia e nel terrore le condizioni necessarie del suo potere, e lo fa prendendo in considerazione i concetti simbolici di gulag e Auschwitz, entrambi incentrati sull’operatività del terrore inteso come esercizio sistematico della violenza e sentimento di paura. In primo luogo, il termine gulag indica la selezione casuale dei bersagli da colpire che non si rivolge più solo ai soldati bensì si estende ai civili e agli innocenti. La mancanza di ratio nella scelta delle vittime rende vano e impossibile qualsiasi tentativo di giustificazione degli atti terroristici, la paura diventa soverchiante dal momento che nessuno sa chi sarà il prossimo. La casualità e l’irrazionalità di questa condotta mette in evidenza il principio della deterrenza a scapito di quello punitivo, dal momento che è difficile imputare a dei civili innocenti qualsivoglia colpa o responsabilità. Se la prassi del gulag è comune alla Germania nazista e ad altre forme di Stato totalitario, Auschwitz è invece il termine simbolico che esemplifica in maniera esclusiva il genocidio sotto il regime di Hitler. Qui viene a mancare perfino la casualità della selezione: tutti gli ebrei vanno eliminati, il terrore si concentra e non espande il suo effetto poiché sono solo gli ebrei, tutti gli ebrei, a essere un bersaglio e il resto della popolazione non ha nulla da temere. L’uomo inteso come singolo non ha più alcuna validità, la sua individualità viene ridefinita: si diventa membri di un gruppo difettoso da debellare.

Ancora una volta, in cosa consiste l’unicità e la modernità di Auschwitz inteso come simbolo del Male Radicale?

In primo luogo, quest’ultimo è il simbolo della “soluzione finale della questione ebraica”, formula che mette subito in evidenza un’esigenza di problem solving.  Ci fu un susseguirsi di prove ed errori prima di realizzare che il treno e il gas permettessero lo sterminio di massa, a testimoniare che lo svolgimento di un compito non richiede passioni bensì competenze. È evidente che qui è in atto un impiego e una mobilitazione inedita e perversa della logica strumentale moderna che si ispira ai principi di economia ed efficienza, i quali puntano a trarre il massimo risultato con il minimo sforzo attraverso procedure, conoscenze e strumenti al passo coi tempi. La razza propugnata dai nazisti, infatti, è diversa dall’etnia in quanto non si fonda sulla nozione di appartenenza bensì sulla certificazione di un dato biologico determinato, benché invisibile, da scovare e debellare. Proprio nel caso delle scienze è possibile vedere in atto la ragione viziata dal male che plasma un sapere ormai ideologizzato e operativo.

Tuttavia, la ricerca delle cause che hanno condotto all’Olocausto è una questione destinata a rimanere aperta poiché l’Autrice sostiene di intercettare delle condizioni necessarie, e non delle cause. In primo luogo, viene esaminato l’antisemitismo, fenomeno già esistente da millenni in Europa e che aveva dato sfogo a qualsiasi espressione di violenza ma che non può considerarsi causa sufficiente poiché fino a quel momento non aveva mai messo in moto un meccanismo di distruzione di massa. In secondo luogo, anche il totalitarismo si presenta solo come condizione necessaria in quanto può far capo a ideologie diverse, che non sempre si accompagnano a genocidi; inoltre, il terrore nel caso tedesco ha eliminato il principio di deterrenza derivante dalla selezione causale, portando a restringere più che a espandere il sentimento di paura e sottomissione dei regimi totalitari. Inoltre, l’argomento secondo cui la modernità sarebbe la causa sufficiente dell’Olocausto, poiché porta con sé le minacce del nichilismo, della perdita valori tradizionali e l’ascesa dell’Uomo-dio, trova una sua controparte nella constatazione che la modernità ha fornito anche le armi per combatterlo poiché l’idea dell’esistenza di diritti dell’uomo, della tolleranza, dell’uguaglianza e l’esercizio del dubbio metodico di matrice cartesiana rappresentano i nemici materiali e spirituali dell’Olocausto. Infine, reputare il moderno progresso tecnologico come la causa dello sterminio di massa degli ebrei d’Europa, pur mantenendo un fondo di verità nell’imprescindibilità del loro impiego per il raggiungimento di un obiettivo omicida, è inesatto dal momento che la tecnologia in sé non è né buona né cattiva ma può essere asservita a scopi buoni o cattivi.

Inoltre, la domanda sul “perché” rimane frustrata poiché non si troverà mai una spiegazione razionale ad Auschwitz. Rimane uno scandalo la resistenza al male da parte di alcuni e il collaborazionismo entusiasta da parte di altri, non lasciando altro spazio alla supposizione che il male radicale sia l’abisso innato della volontà umana. Per questo motivo la domanda ontologica posta da Heller acquista una dimensione teologica: gli incredibili sforzi bellici della Germania nazista hanno preferito condurre una guerra contro Dio piuttosto che contro i nemici diretti. Questa guerra si scatenò con la cancellazione degli unici testimoni che avrebbero potuto assistere alla resurrezione di Cristo, permettendo così il ritorno delle divinità pagane germaniche e l’innalzamento del Führer a Dio. In effetti, dal punto di vista razionale gli ebrei non potevano essere sterminati in blocco e non si comprende il motivo per cui si decise di impiegare risorse incalcolabili per trasportare e deportare uomini per l’intera Europa piuttosto che combattere gli Alleati. La ragione strumentale raggiunge così l’assurdità. Un ulteriore elemento di irrazionalità si manifesta proprio nell’atteggiamento moderno di rinnegare l’epoca presente, auspicando il ritorno di divinità fuori dal tempo presente non costretti più a “porgere l’altra guancia” e facendosi portatori di un’utopia negativa.

La riflessione di Agnes Heller è intrisa di riferimenti teologici che richiamano le forze principali della cultura ebraico-cristiana, in questo caso il modello del male è costituito da Satana, colui che non necessariamente commette atti malvagi ma che induce gli uomini a commetterli convincendoli che il male sia giusto e virtuoso. Diaboliche sono le teorie che confondono il bene col male, è dunque nelle teorizzazioni del male e non nella debolezza del carattere che alberga il male. Il totalitarismo affonda le sue radici in queste teorizzazioni che sono andate a sostituirsi alle morali tradizionali, costituendosi come discorso totalitario, come linguaggio condiviso e contagioso che se interiorizzato conduce una persona comune a denunciare alla polizia i propri cari, atto che solo qualche tempo prima avrebbe ritenuto riprovevole e inaccettabile. È proprio l’intricata rete di sofismi e autogiustificazioni a far sì che il male morale eserciti una certa forza di attrazione. Alla stregua di un virus, Heller opera in più di un’occasione la distinzione fra il malvagio, ossia colui che ha contratto la malattia del male, e il diabolico, l’artefice che ha diffuso la malattia creando le condizioni dell’espansione massiccia del male. I primi subiscono un’alienazione del sé e dopo la disfatta possono ritrovarsi disorientati o tentare di liberarsi del proprio sé totalitario rinnegando il passato. Questi, privi di giudizio morale autonomo, rispecchiano in un certo senso il carattere banale del male per la Arendt, che vede nella sconfitta e nell’abbandono del sé totalitario la sconcertante normalità di un burocrate ordinario. Il diabolico, invece, è coerente con i propri principi e addita il fallimento dell’opera alla debolezza dei propri seguaci. Proprio questa coerenza rappresenta lo scarto fra la posizione dell’Autrice e quella della Arendt. I criminali nazisti non sono dei mostri, e dunque degli esseri inumani privi di razionalità, bensì degli uomini estremamente razionali, fedeli e coerenti con i propri principi, perfettamente lucidi di applicare in azione le loro teorizzazioni malvagie. È proprio accanto alla questione della colpa che la Heller si interroga sulla pena nel secondo saggio. La questione cruciale riguarda l’esistenza o meno di Costituzioni o leggi che puniscano penalmente gli atti criminali e la possibilità che si dia l’obbligo morale di sottoporle a giudizio. In questo saggio la Heller apre una finestra su questioni di natura morale e giuridica dal momento che il problema della pena si presenta con il crollo del potere totalitario. La riflessione sulla pena porta a chiedersi se sia davvero possibile fare giustizia contro simili crimini dato che i veri responsabili che determinarono le condizioni utili a perpetrazione di crimini atroci si sono sottratti a qualsiasi punizione o giudizio perché hanno posto volontariamente fine alla propria esistenza. Come dice efficacemente l’Autrice,

“Se le teorie del male sono in grado di costituire una base di potere abbastanza durevole, con ogni probabilità chi commette il male non sarà mai punito. Gli autori dei crimini più esecrabili riusciranno a farla franca. È questa la ragione della nostra impotenza di fronte al male: il bene può resistere al male finché il male è ben visibile, ma diviene impotente a contrastarlo dopo la sua caduta” (p. 56).

Per questo motivo, sempre alla stregua di un’infezione virale, è necessario diagnosticare le fasi acute e croniche del totalitarismo: le sue prime manifestazioni hanno un’elevata visibilità che incute terrore e sottomissione, pur promanando una certa forza di attrazione dato che le teorizzazioni del male, oltre a costituire il lato oscuro dell’animo umano, si dotano di una serie di raffinati sofismi; nella fase di consolidamento, invece, l’effetto virale svanisce portando con sé l’oblio della fase acuta. A tal proposito, emerge lo spirito di redenzione che contraddistingue la trama del suo pensiero poiché l’uomo è chiamato a esercitare la sua responsabilità e azione nelle fasi iniziali che preannunciano qualsivoglia regime totalitario, mobilitando le risorse spirituali e materiali per la difesa dei valori che caratterizzano il mondo delle democrazie liberali. La difesa del pluralismo, delle idee di libertà, vita, tolleranza e solidarietà sono le armi con cui combattere le basi psicologiche del terrore che si annidano nel nichilismo e nella perdita dei valori tradizionali.

La domanda circa l’essenza dell’Olocausto continua sul terreno teologico e artistico, ambiti a cui il pensiero dell’Autrice è intimamente legato e mediante cui è possibile attingere alla dimensione dell’ineffabile. È possibile rappresentare l’Olocausto? Domanda che, come è noto, fa riferimento alla celebre espressione di Adorno secondo il quale è impossibile scrivere poesie dopo Auschwitz. Certo, quest’ultimo è il simbolo del male radicale e come tale si affianca agli altri due simboli trascendenti, il Sinai e il Golgota, che lo scrittore ungherese Imre Kertész elenca in L’Olocausto come fenomeno culturale. In quanto tale, Auschwitz nega e annulla le promesse della legge morale e della salvezza. Come esprimere, dunque, l’orrore? La memoria collettiva è fatta di racconti, ricordi e ricostruzioni dei sopravvissuti che confluiscono nella memoria culturale portatrice dei simboli trascendenti, degli Eventi che continuano a sprigionare la loro natura mitopoietica e morale attraverso le espressioni artistiche dello spirito umano. Quindi, è possibile e si deve rappresentare l’Olocausto poiché il lavoro sull’immaginazione costituisce la speranza che qualcosa di simile non accada mai più, affinché si protegga il nostro mondo dal simbolo del Male Radicale. Attraverso la memoria culturale i morti che possono raccontare la Verità su Auschwitz ricevono la loro messa commemorativa sotto forma di rappresentazioni, elementi vivificatori che dispiegano un eterno presente grazie alla trasmissione della memoria. Il passaggio sulla memoria dei sopravvissuti e sull’eredità delle generazioni future mette a chiare lettere l’esperienza diretta dell’Autrice, testimoniando lo snodo nevralgico che caratterizza l’attività dei sopravvissuti: il dovere di ricordare. Il linguaggio impiegato, infatti, è estremamente sensoriale e trasmette una sensazione di calda umanità. Come riporta l’ultimo messaggio che suo padre Pàl gettò dalla fessura del treno piombato, “Nonostante tutto quello che è accaduto negli ultimi anni, non ho mai perso la fede che anche se il Male può prevalere per un breve periodo, alla fine il Bene sarà vittorioso. Ogni persona buona porta il suo granello di sabbia per la sua vittoria finale” (p. 8).

Castelvecchi ha pubblicato altri saggi dell’Autrice, fra cui Il valore del caso. La mia vita, G. Hauptfeld (a cura di), 2019; Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, trad. it. Di M. M. Rocci, 2018; Breve storia della mia filosofia, Trad. it. Di C. Astore, 2016.