La IX uscita di Pagine Heideggeriane ospita un contributo di Elisa Zocchi su Heidegger, Aristotle e la dimensione patica dell’esistenza. Il saggio si interroga sul valore degli stati affettivi nella nostra vita a partire dal contributo di Heidegger interprete di Aristotele e in direzione della specifica proposta teoretica del filosofo di Meßkirch in relazione alla componente pre-logica dell’esistere.

Francesca Brencio

PATHOS E BEWEGTHEIT: ARISTOTELE ALLE ORIGINI DEL PENSIERO DEL PATICO

di

Elisa Zocchi

Introduzione

Andare alle origini del pensiero heideggeriano sembra diventata occupazione banale, per gli studiosi. Lo si fa talvolta per cercare lo scandalo, per accusare il filosofo di essere corrotto fin dall’origine da un qualsivoglia pensiero “contro” qualcuno o, semplicemente, per accusarlo di scarsa originalità. Ci sembra però ancora possibile un tipo di confronto che sappia donare qualcosa al pensiero di oggi, il nostro, e non solamente a quello di, o meglio su, Heidegger, che in un circolo continuo su se stesso rischia quasi l’asfissia. Per respirare a pieni polmoni nell’affrontare una domanda tutta personale nel confronto con Heidegger, è sorta spontanea l’esigenza di dialogare insieme a lui con l’autore con cui egli, a sua volta, ha dialogato maggiormente.

La domanda che ci ha mosso è forse semplice, eppure mai banale: che valore hanno gli stati affettivi? Qual è il ruolo dell’affettività, del momento patico nella nostra esistenza? Ciò che nel confronto con Heidegger vogliamo comprendere è se il fatto di essere soggetti ad affetti indipendenti da noi sia un elemento di chiusura, limite e soffocamento o sia invece segno del suo rapporto con l’essere, come eccedenza, e se l’uomo possa arrivare a coglierlo come dono, occasione e tratto “positivamente” distintivo della sua umanità e libertà. Ci sembra infatti che proprio in quei momenti “pre-logici” si nasconda la possibilità per il sorgere di un vero rapporto con le cose e con gli altri. In ultimo, forse, ma non sarà questo luogo a ricercarlo, con l’Altro.

1. Heidegger e il problema del pre-mondano

Nel 1919 un giovane Heidegger è alle prese con uno dei primi corsi universitari a Friburgo, L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo (diventato poi noto con il nome di Kriegsnot Semester), in cui per la prima volta diffonde tra i propri allievi una sentenza destinata a formare il suo pensiero futuro: “Bisogna spezzare la supremazia del teoretico”[1].

È proprio quest’idea che allontanerà definitivamente Heidegger dal maestro Husserl, grande sostenitore di questo primato, segnando la strada che lo porterà alla tematizzazione del concetto di essere-nel-mondo e alla redazione della sua opera più celebre, Essere e tempo. Nel corso del ‘19 emerge anche lo strumento per tale abbattimento: è la prima ed ancora incerta scoperta di ciò che qui viene chiamato pre-mondano e che, a tutti gli effetti, è precursore dell’esistenziale della Befindlichkeit. Senza poterci soffermarci sul corso del ‘19, è interessante capire che già nel confronto con Husserl, per via negationis, Heidegger comincia a comprendere che se prima della conoscenza si colloca un momento cosiddetto pre-teoretico (quel significativo già scoperto dalla prima fenomenologia), prima ancora di tale momento se ne riscontra un altro. Più a fondo del significativo si colloca il pre-mondano, il momento patico dell’esistenza, il momento affettivo, che permette la stessa conoscenza e il rapporto col mondo. Cosa ci porta a tale certezza? Come poter parlare di un momento affettivo capace di generare lo stesso momento teoretico? Cosa insomma ci fa pensare che l’essere-nel-mondo anzi, ancor di più, la stessa Befindlichkeit di Essere e tempo sia in un certo qual modo ciò che chiamiamo patico, affettivo?

A permettere tutto questo è il confronto con quell’autore che segnerà per sempre il cammino heideggeriano, soprattutto circa tale problematica: Aristotele. Il primo importante suggerimento circa l’importanza di quest’autore per la tematica affettiva è il fatto che il termine Befindlichkeit compaia per la prima volta nel 1924 in un corso di lezioni dedicato proprio allo Stagirita: i Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie[2]. È proprio il 1924 infatti l’anno in cui Heidegger abbandona definitivamente i termini Erlebnis ed Erfahrung a favore della Befindlichkeit[3]. Esso compare come traduzione di due termini che crediamo essere profondamente legati: πάθος e διάθεσις. L’affettività, l’essere emotivamente situati, è dato dall’essere passivamente colpiti e genera perciò una disposizione etica, un’apertura al mondo e agli altri, funzione che ulteriori indagini che qui non abbiamo modo di compiere rintracciano nella Befindlichkeit del 1927. Occorre ora dimostrare la liceità di questo “perciò”; per farlo occorrerà non solo lavorare sui termini che Heidegger traduce con Befindlichkeit, ma anche sulla lettura che Heidegger dà generalmente di Aristotele, sempre mantenendo come filo rosso il tema di nostro interesse, il πάθος.

Iniziamo con il manifesto tema del corso: la Retorica. La retorica è descritta da Aristotele come la possibilità di persuadere: essa si gioca sempre nel parlare con altri, in un miteinandersein. Funzione della retorica è far nascere nell’ascoltatore un giudizio, una certa opinione, agendo non solo sulla comprensione ma anche e soprattutto sull’aspetto emotivo. Il discorso del retore ha tre momenti strutturali: di cosa si parla (λόγος), come si parla (ἦθος), a chi si parla (πάθος). È proprio quest’ultimo che ci interessa: cosa intende qui Aristotele con πάθος, e come lo interpreta Heidegger?

Questi πάθη, gli affetti, non sono stati dell’anima, si tratta di una Befindlichkeit del vivente nel suo mondo, nel modo in cui egli è posto rispetto a qualcosa, come egli si lascia rapportare a qualcosa[4].

Il πάθος non è un semplice stato d’animo momentaneo ma il vero e proprio trovarsi nel mondo, il sich befinden; sich befinden indica in tedesco propriamente il “come ci si sente”, la situazione affettiva di cui si è soggetti – eppure include in sé il senso di trovarsi spaziale, be-finden: il modo in cui qualcuno viene posto rispetto a qualcosa. “Egli è posto”, “egli si lascia rapportare”: si parla qui di una disposizione, qualcosa che subiamo, che ci viene incontro. Esattamente come i πάθη non sono da noi scelti o programmati ma ci vengono incontro, ci avvolgono. Ciò che il retore deve coinvolgere e stimolare, nell’esempio retorico, non è allora uno stato momentaneo dell’anima ma propriamente una Befindlichkeit des Lebenden in seiner Welt: gli affetti di cui si parla non sono stati d’animo fugaci e superficiali, ma ne va propriamente del mondo, in un rapporto che non è stabilito in modo teoretico bensì eminentemente patico. Per questo per Heidegger la Befindlichkeit non sarà solamente una dimensione esistentiva bensì esistenziale. Proseguiamo allora per questo sentiero.

2. Il πάθος aristotelico

Il termine πάθος compare in tutta l’opera aristotelica; il luogo in cui esso è più chiaramente sistematizzato è il libro 10 della Metafisica, nel quale è inteso secondo quattro sensi: i. πάθος come attributo, ossia come una qualità del sostrato che può mutare (l’essere bianco, l’essere dolce…) ii. πάθος come il cambiamento in sé di una caratteristica, come l’έργον del mutamento (la pelle che al sole diventa scura); iii. il cambiamento doloroso di una qualità (πάσχειν) iv. il dolore in senso pieno, le grandi sofferenze (πάθη). Tutti i significati, in generale, riguardano l’idea di mutamento, associato ad un passivo essere affetto da parte del soggetto.

Se passiamo a Categorie, possiamo notare invece come Aristotele intenda il πάθος in senso parzialmente attivo. Prendiamo l’esempio della paura; per Aristotele, se in una situazione spaventosa ci abituiamo a comportarci in modo coraggioso, il coraggio si farà strada nel nostro atteggiamento. Questo ha come necessità primaria il perdurare e ripetersi nel tempo di una determinata situazione, ad esempio quella spaventosa, e il ripetersi del nostro atteggiamento: la persona coraggiosa “affronta (ὑπομένει) e ha ardire come e quando si deve” e “patisce (ὑπομένει) e agisce (πράττει) secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione”[5].

In entrambi i casi il verbo utilizzato è ὑπομένω, e sembra occupare il posto che finora era occupato da “essere affetto”, πάσχειν. Le virtù sono dunque acquisite nel tempo, esattamente come acquisite nel tempo sono le affezioni finora in questione. Questo mostra dunque lo stretto legame tra l’azione (πράξις) e l’affezione (πάθος) in Aristotele; un legame che riecheggia quello tra la categoria del fare (ποιεῖν) e dell’essere affetto (πάσχειν). Vediamo così emergere il legame tra l’affezione e la disposizione passiva in cui l’uomo è posto proprio dall’affezione, grazie al patire; questo “essere disposto” è indicato dal verbo aristotelico ὑπομένω. Esso esprime la nozione di rimanere, perseverare, restare mentre si è soggetti a qualcosa; è questa una sorta di “attività passiva”, trattenersi cioè nella propria posizione sotto i colpi di qualcosa di esterno. Pensiamo alla disposizione (ἕξις) del coraggio: si tratta di permanere in modo attivo davanti a ciò che ci viene incontro. Se ci fosse solo la paura in sé, l’oggetto esterno che impaurisce, non avremmo alcuna nuova disposizione morale, e il πάθος sarebbe solo un affetto psicologico: rimarremmo in una visione dualista. Essendovi invece disposti a lungo, può emergere nell’uomo la disposizione a un particolare stato affettivo come quello del coraggio (διάθεσις). Possiamo dunque desumere che, così come le disposizioni morali attive (ἕξις) si sviluppano per ripetizione e abitudine, allo stesso modo le disposizioni morali passive (διάθεσις) si sviluppano da un πάθος ripetuto e abituale, da un affetto. Solo da tale disposizione passiva può poi, secondariamente, sorgerne una attiva; un ἦθος, un atteggiamento.

Dopo questo piccolo affondo su Aristotele, torniamo ad Heidegger: è infatti lui a tradurre διάθεσις con Befindlichkeit, e possiamo ora capire perché.

Poiché gli atteggiamenti interni (γενόμενον) all’anima sono tre – passioni (πάθη), capacità (δύναμις) e disposizioni (ἕξις), la virtù deve essere uno di questi[6].

Heidegger determina il significato di πάθος partendo direttamente dal fatto che esso sia un γενόμενον dell’anima. γενόμενον è infatti “ciò che avviene all’essere”, quindi il πάθος è “ciò che diviene nell’anima”[7]. Se l’anima determina chi siamo, il πάθος determina il nostro essere chi siamo: il πάθος è dunque un Seinsbegriff. Ed è anche nell’analisi del passo di Metafisica in cui i 5 significati da noi appena elencati di πάθος vengono analizzati che compare la vera intenzione del cammino heideggeriano: Heidegger infatti interpreta tutti i significati di πάθος come qualcosa che “muove”, che colpisce e mi cambia. Sottolineando sempre l’aspetto del mutamento, emerge come il πάθος sia “genuinamente relato” all’essere un ente vivente (das Sein des Lebenden), in particolare al suo essere “disposto in una certa maniera (Je-und-je-sich-Befinden)”[8]: il πάθος colpisce sempre qualcuno (schlägt einen ein) e lo pone in una determinata disposizione (Befindlichkeit).

Ecco dunque comparire chiaramente il termine che diventerà uno dei tre esistenziali di Essere e Tempo; esso sorge per indicare come il πάθος non sia un momento isolato, un mutamento qualitativo qualsiasi all’interno dell’esistenza ma anzi che esso colpisce il soggetto nel suo essere disposto nel mondo, in un contesto, e ogni affezione riconfigura questa disposizione. “Il πάθος non è un girare o cambiare che avviene di per sé, da solo, ma un modo dell’essere disposto (Sichbefinden) nel mondo che, allo stesso tempo, pone una possibile relazione con l’ἕξις”[9].

È dunque chiaro che per Heidegger il momento affettivo non è un gradino da superare per entrare poi nel vero rapporto col mondo tramite la teoresi ma anche anzi, ogni rapporto si può stabilire solo a partire da un essere-disposto, proprio cioè da quel momento affettivo che apre l’uomo e lo dispone in un determinato atteggiamento. Questo il significato delle Stimmungen, termine che solo più avanti prenderà forma nel pensiero heideggeriano: le tonalità affettive ci aprono al mondo e ci intonano, ci accordano con la voce (Stimme) del mondo. Proprio per questo crolla ogni dualismo: soggetto e oggetto sono un tutt’uno in un alone affettivo generato proprio dalla ferita del πάθος.

Altro indizio del crollo di ogni dualismo è la trattazione di quello che abbiamo visto essere in Aristotele il terzo significato di πάθος: la vita del corpo con le sue emozioni e passioni. Citando infatti il De Anima, “tutti i πάθη sembrano essere legati al corpo”[10]:

Heidegger riconosce che ogni affezione è affezione di un corpo. Egli guarda ad un Aristotele anti dualista: passioni e corpo sono inseparabili, non esiste materia bruta ma corporeità (Leiblichkeit): ogni affezione dunque è una modificazione globale della vita umana, dell’ἐντελέχεια che la costituisce e che va di pari passo con il suo esser nel mondo corporeo (leibmäßig). È necessario abbandonare definitivamente ogni tipo di dualismo: Heidegger in questa lettura si colloca in una dimensione anteriore a ogni ripartizione tra materiale e immateriale, divisione che resterà comunque latente fino alla nascita del concetto che maggiormente esprime questa unità, ovvero sia la citata Stimmung; per ora però i πάθη vengono descritti come “fenomeni originalmente uniti, la cui unità è dovuta all’essere stesso dell’uomo”[11].

Il momento patico, originaria unità dell’uomo, non è allora un gradino da scavalcare per raggiungere la vera conoscenza; abbiamo infatti appena mostrato come il significato ad esso attributo da parte di Heidegger è quello di movimento-verso, di apertura-a, poiché lo dispone sempre in un determinato modo. Questo il vero significato di Befindlichkeit, con un grosso debito nei confronti di Aristotele: essere passivamente colpiti significa trovarsi disposti in una certa maniera, essere affettivamente intonati e permanere in tale intonazione con il mondo. Siamo sempre disposti, siamo sempre affettivamente intonati – si passa da uno stato all’altro, da un affetto ad un altro, ma da essi non possiamo mai uscire. Eppure questa finitezza, questo essere sempre intonati, non è un limite negativo, quanto piuttosto la più grande risorsa: le tonalità affettive ci aprono, non sono momenti da superar ma anzi situazioni che ci dispongono in un apertura, in un movimento-verso. Propriamente, esse aprono e spalancano ai momenti successivi, quello teoretico e quello etico.

Un esempio per ciascuno dei due; per quanto riguarda il primo, l’esempio più noto è quello della paura che porta a deliberare[12]. La centralità di questo aspetto è insita nella scelta stessa di analizzare la Retorica: in tale opera infatti l’obiettivo è proprio quello di far sorgere un giudizio, un’opinione, sulle basi delle emozioni provate dall’ascoltatore[13]. Heidegger durante tutto il corso dell’analisi non smette di sottolineare come i πάθη siano “il Boden sul quale cresce (erwächst) il parlare e nel quale ciò che viene detto continua a crescere”[14].

Per questo, fondamentale perché il giudizio sorga è la disposizione dell’ascoltatore, esattamente ciò sui cui l’oratore deve agire. Egli può farlo, può cioè influenzare la sua διάθεσις (Befindlichkeit) solo grazie al fatto che essa trae la sua origine nel πάθος (anch’esso tradotto proprio con Befindlichkeit). È dall’essere affettivamente situato che può dunque sorgere un giudizio. Piacere e dolore ci forniscono un orientamento, un orizzonte all’interno del quale il giudizio sorge; proprio quell’orizzonte di cui la conoscenza teoretica è carente, quella visione d’insieme orientante che la speculazione successiva non può dare ma che può sorgere solo da un orizzonte ben più vasto e originario. Sul terreno del πάθος sorge dunque il λόγος, la possibilità di parlare (come anche di tacere) e dunque entrare in contatto col mondo. La pre-logicità del πάθος non indica insensatezza, una zona senza ragione o senza parole ma piuttosto il crescere della determinazione del λόγος in quanto carattere originario del prendersi-a-cuore il mondo che accade nel πάθος, l’apertura cioè a noi del mondo, il suolo da cui cresce il λόγος.

Volgiamoci ora alla seconda determinazione che abbiamo visto emergere, il πάθος come fondamento del momento etico. Il retore infatti, per far sorgere nell’ascoltatore una certa credenza, agisce sulla διάθεσις, la sua disposizione passiva; quello che la lettura di Heidegger guadagna è in aggiunta il rapporto tra le emozioni e l’ἕξις, la disposizione attiva, dovuta precisamente all’idea che ogni stato emotivo sia intrinsecamente diretto all’esterno, aperto alla definizione di sé e del mondo, offra cioè possibilità di svelamento e, anche, quella dell’attimo della decisione. Nella lettura heideggeriana l’ἕξις rappresenta una particolare modalità di πάθος nella quale il momento del raccoglimento prevale sulla tendenza alla dispersione; essa è “il giusto sentirsi situati (das rechte Sichbefinden)”.

ovverosia una sorta di situazione armoniosa resa possibile anche dall’esercizio della φρόνησις, che Heidegger in questo testo traduce con Umsicht. È interessante a proposito notare, come ricorda più volte Gadamer, che Heidegger era solito tradurre φρόνησις con Gewissen, coscienza[15]. Se pensiamo a Essere e tempo, dove la coscienza si pone come luogo cruciale dell’attimo della decisione, e lo accostiamo a quanto appena detto, secondo cui la “giusta Befindlichkeit” è quella dell’armonia, della scelta, ossia proprio di quell’attimo della decisione (Augenblick), possiamo osservare come il luogo della coscienza sia intrinsecamente legato a quello della Befindlichkeit, meglio ancora, delle emozioni e del fondamento patico. Ci sembra infatti che il momento del raccoglimento, della decisione, sia possibile a partire dalla direttività fondamentale data da piacere e dolore, in generale diremmo da quella sfera che l’uomo non può controllare, dominare, scegliere. Qualcosa viene prima (la sfera pre-mondana, il piacere o il dolore), qualcosa non si lascia cancellare ma permette che davanti ad esso ci si disperda o ci si raccolga, ci si appropri di sé resistendo. L’atteggiamento da prendere, la scelta, (meglio: l’unica scelta che faccia sorgere un “come” del vivere) nasce proprio dall’inoggettivabile – che pure è fonte e origine di ogni futura oggettivazione. L’impossibilità di oggettualizzare gli elementi originali di piacere e dolore li colloca nel fondamento dell’esistenza, al punto da definirle Grundbefindlichkeit. Il come del vivere (l’ἕξις, direbbe Aristotele) può sorgere solo da ciò di cui non possiamo a tutti gli effetti disporre. Non intendiamo qui la banalissima idea di un atteggiamento che nasca per controllarli: si negherebbe qui quello che abbiamo finora dimostrato, poiché se così fosse il “come” sorgerebbe dal momento riflessivo, teoretico, addirittura scientifico. L’analisi di Aristotele ci ha invece mostrato come ben lontano sia il dualismo che vuole una ragione al controllo di fugaci emozioni e che piuttosto proprio le emozioni abbiano qualcosa da dirci sul Grund della situazione umana, sul suo essere originariamente disposta da qualcosa di inoggettivabile. Come detto poco sopra, la scelta del “come” non ha affatto il carattere di un razionale controllo sopra la follia dell’emotivo ma una decisione di unità, di rifiuto del disperdersi in altro da sé e di tenersi invece sotto controllo, nel senso di essere propriamente se stessi, ovvero seguire quegli elementi che già nell’affettività intrinsecamente risiedono. L’orizzonte aperto è dunque ben più radicale di un mero dominio teoretico, e suggerisce piuttosto che il come del vivere possa sorgere da esperienze concrete e radicali. In questo senso gli stati emotivi (piacere e dolore a rappresentanza di tutti, ma vedremo l’irrazionalità dell’angoscia, la paura per il male, la contraddizione dello spezzarsi di ogni Stimmung…) sono il segno più evidente di questo orizzonte: prima della significatività da noi data, prima del momento scientifico, prima di ogni divisione “razionale/irrazionale” essi mostrano evidentemente una via aperta alla definizione di un Wie dello stare umano, di un senso. È già negli stati affettivi che si nasconde un’importante direzione del vivere, è già in essi che siamo definibili “umani”: è già nell’esistenziale fondamentale della Befindlichkeit che si spalanca la possibilità per il Dasein di essere pienamente se stesso, di non disperdersi ma di permanere nel proprio Da- e custodirlo.

Manca ancora un ultimo passo, prima di concludere. Se è vero infatti che il pathos aristotelico plasma potentemente il concetto di Befindlichkeit che accompagnerà Heidegger per molti anni, occorre capire quale sia il fattore fondamentale che permette ad Heidegger questa lettura dello Stagirita, fino a farlo diventare quasi un fenomenologo: perché da sempre Aristotele viene letto come vicinissimo al dualismo anima-corpo, mentre per Heidegger è occasione di parlare di  corporeità (Leiblichkeit), di momento patico come apertura?

 

3. L’interpretazione heideggeriana di Aristotele

La lettura metafisica di Aristotele ha condotto a una visione dualista fondamentalmente a causa della lettura della ψυχή come οὐσία, come una sostanza fissa e stabile per cui ogni mutamento – prime su tutti, le emozioni – sarebbe visto come dannoso e da controllare. Stessa sorte subisce la divisione tra sensualità e ragione, che in Aristotele non viene mai propriamente chiusa o definitivamente risolta ma che rimane invece una domanda mentre in una lettura sostanzialistica della coscienza conduce al primato della ragione sui sensi, soprattutto finalizzata alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima. Così facendo, i sentimenti e ogni sorta di affetto vengono sminuiti e non ricoprono alcun ruolo all’interno del processo conoscitivo o nella vita pratica e anzi, compito di una buona etica sarà il controllo delle emozioni da parte della ragione.

La lettura heideggeriana porta invece una visione tutt’altro che dualista di Aristotele. La ψυχή viene considerata non in senso statico ma come la primaria ἐντελέχεια dell’uomo. La determinazione fondamentale dell’uomo, la sua Wesenbestimmung è individuata nel λόγος; esso però non dice solo il “che cos’è” dell’uomo ma anche (e soprattutto) il suo ἔσχατον, ciò a cui tende e che quindi lo determina in quel che è. Sostanza per Heidegger non è dunque qualcosa di statico e definitivo ma il vitale atto, la continua determinazione attiva di uno tra i molteplici possibili. Nel vivente la ψυχή è la prima ἐντελέχεια, il giungere alla vita stessa. Questo dunque porta a guardare all’anima non solo come sostanza ma anche come origine del movimento e, soprattutto, come τέλος, come ἔσχατον a cui tendere; è l’anima in quanto ἐντελέχεια a tenere unita la vita, determinandone il fine e la tendenza. Per questo l’anima apre al mondo, e ogni organo del vivente collabora con essa per permettere tale apertura; non esiste in Aristotele disprezzo dei sensi, in quanto l’anima senza essi non avrebbe alcuna possibilità di definire il proprio τέλος e, dunque, la propria essenza[16].

Per confermare e concludere questa breve interpretazione, guardiamo ad una piccola opera che nasconde in sé forse l’aiuto più grande alla comprensione della problematica del vivente affettivamente connotato: Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica, meglio noto come Natorp Bericht[17]. In questo scritto programmatico Heidegger dichiara l’indirizzo che vorrebbe dare ai suoi studi: il suo intento, nel 1922, era tutto rivolto ad Aristotele. Parte di questo scritto confluirà nelle lezioni su Aristotele del 1924 che abbiamo analizzato, molti aspetti verranno però tralasciati, quantomeno in modo esplicito. Molto di quanto contenuto in questo testo può fornire una chiave interpretativa per la comprensione del patico non solo in questi primi anni del lavoro heideggeriano, ma anche in scritti successive che non analizziamo qui. Solo dopo averli letti è infatti possibile, a nostro parere, capire pienamente cosa Heidegger veramente intendesse.

Il titolo “pubblico” Natorp Bericht non sembra indicare solo il destinatario dello scritto, ma coglie in pieno il centro della questione qui trattata. Per Natorp infatti non esiste coglimento immediato dell’Erlebnis, poiché ogni auto-osservazione è una riflessione che sezionando e scomponendo l’oggetto ne intacca l’originalità. Contro questo sappiamo che Heidegger si schierava già da tempo: se con Natorp condivide la ricerca intensa e radicale dell’origine, egli è convinto che sia possibile un accesso originario ai vissuti, rintracciabile con una riformulazione del senso dell’intuizione fenomenologica. Occorre un’ermeneutica della vita fattizia, occorre che la filosofia sia attuazione della tendenza della vita ad autocomprendersi ed interpretarsi, mantenendosi al suo interno. Non qualcosa di aggiunto a posteriori ma la riflessione su un elemento già presente. Questo il primo obiettivo di Heidegger: il tentativo di verificare la provenienza dei concetti filosofici fondamentali attraverso la vita fattizia[18].

I concetti non oggettivanti, che Heidegger chiama retroconcetti (Rückgriffe), pre-concetti (Vorgriffe) sono proprio quelli che esprimono l’intenzionalità specifica della vita nella sua tensione, nella sua “tendenza motivata”. Perché allora studiare Aristotele? Perché alla domanda circa l’intento di studi Heidegger redige un testo in cui dichiara di voler studiare negli anni successivi l’Etica Nicomachea, la Metafisica e addirittura la Fisica?

Anche laddove per principio gli oggetti non vengono più chiamati in causa in senso rudimentale come sostanze (cosa da cui del resto Aristotele era ben più lontano di quanto non venga comunemente insegnato) e dove non si fa questione degli oggetti secondo le loro qualità occulte, l’interpretazione della vita si muove comunque in concetti fondamentali, impostazioni problematiche e tendenze esplicative che sono sorti all’interno di esperienze d’oggetto di cui noi oggi da lungo tempo non disponiamo più[19].

La risposta è dunque semplice: per la genuina tendenza di Aristotele alle “cose stesse”, l’approccio descrittivo-ermeneutico ai fenomeni. Per questo quando Heidegger si domanda circa la possibile auto-interpretazione della vita guarda ad lui, con sguardo fenomenologico. Ed è per questo, vedremo, che guarda soprattutto alla Fisica e all’Etica Nicomachea: si interessa al pratico, al concreto, alla cosa stessa. Questo è racchiuso in una dichiarazione che svolge un ruolo fondamentale nel nostro cammino:

La ricerca filosofica è l’attuazione esplicita di una motilità fondamentale della vita fattuale e si mantiene costantemente al suo interno[20].

La vita fattuale ha una motilità fondamentale (Grundbewegtheit), indagare la quale è compito del filosofo. Con Bewegtheit s’intende d’ora in poi la definizione ontologica ed esistenziale, mentre Bewegung è la caratteristica mondana dell’ente. La motilità non è dunque solo un problema mondano, ma diventa un vero e proprio Grundprinzip. Sappiamo da quanto svolto finora che la vita fattuale qui intesa da Heidegger è quella pre-mondana, le tonalità affettive. Esse sono parte della concezione di motilità che Heidegger vuole mettere a fuoco, ed è proprio per questo che ci rivolgiamo a questo breve saggio per trarre le nostre conclusioni. Ciò che con Heidegger cerchiamo è la definizione della motilità fondamentale (Grundbewegtheit) della vita umana nell’autoriferimento pratico-decisionale che la caratterizza. Qual è il nucleo profondo di questa fatticità? Perché essa viene sempre definita motilità fondamentale (Grundbewegtheit)? Perché cioè guardare alla Fisica, al problema della motilità, al punto da arrivare a definirla “il libro fondamentale dell’Occidente”[21]?

La risposta è proprio il motivo che ci ha spinto al Natorp Bericht: la vita fattiva, le tonalità affettive, sono modi del dispiegarsi della motilità fondamentale della vita umana. Il πάθος è movimento e l’uomo, affettivamente intonato, è movimento-verso. L’affettività non è solo passivamente connotata ma è già, in sé, attività, tendenza-verso. Se come abbiamo dimostrato infatti l’affettività, l’essere affettivamente connotato è per il Dasein elemento di apertura, di movimento-verso, e se tale movimento è la caratteristica principale della fatticità, diventa chiaro perché occorre indagare la Grundbewegtheit a livello ontologico, antropologico, e non solamente come problema fisico. Essa diventa proprio il ponte tra la fisica e l’antropologia, ciò che risponde alla domanda circa il legame tra il πάθος come qualcosa che subiamo e come spinta per l’azione. Il Dasein è già movimento-verso perché la sua οὐσία, vedremo, non è sostanza immobile e statica che subisce qualcosa ma che, in sé, sarebbe già perfetta e conclusa una volta creata; al suo fondo c’è piuttosto una motilità radicale, un movimento-verso. Ancora una volta Heidegger trova in Aristotele le risposte alle domande provocate da Husserl, ancora una volta demolisce l’interpretazione tradizionale che pone come perno della lettura aristotelica il concetto di sostanza e ancora una volta rimette al centro la finitezza come costitutiva dell’umano. Nella Fisica Aristotele tematizza la vita nei termini di movimento, e Heidegger lo legge proprio sotto questo aspetto: da fenomenologo o, ancor meglio, mirando ad un’ontologia. Per Heidegger infatti, stiamo per vedere, la descrizione della motilità degli enti nella Fisica non riguarda solo gli enti inanimati o il livello “mondano” che vada poi spiegato con altri principi. L’interesse per la Fisica di Aristotele è in verità un interesse ontologico: egli studia il movimento degli enti per capirne la fatticità e, dunque, il significato, il senso. Nella Fisica egli trova il grimaldello per rompere il sistema, per far emergere come lo stesso Aristotele vada riletto e ricompreso come filosofo della vita prima che più dei principi primi: la Fisica viene letta da Heidegger come un trattato sulla vita, sull’essere in vita e sull’essere dell’uomo. Per questo noi, che miriamo allo studio della fatticità nel suo aspetto affettivo, veniamo ricondotti al problema della motilità racchiuso nelle pagine della Fisica. “Nella sua Fisica Aristotele guadagna una nuova impostazione di principio fondamentale da cui derivano la sua ontologia e la sua logica”[22].

Heidegger dichiara subito il motivo del suo interessamento ed emerge fin dalle prime righe del testo come la sua interpretazione sarà evidentemente di privilegio della Fisica sulla Metafisica. Il tema centrale del trattato aristotelico è l’ente, o meglio “l’ente nel come del suo essere-mosso (Bewegtsein), il vero motivo dell’ontologia aristotelica”[23].

Essere-mosso significa essere volto a qualcosa (Aussein auf etwas); è proprio questa caratteristica ciò che Heidegger chiama Vorhabe, condizione preliminare – la motilità della vita fattiva che possiede l’intenzionalità. Ossia, abbiamo visto finora, l’affettività. Come nel 1919 definiva l’aspetto patico vorweltlich, e nel 1927 sarà la Befindlichkeit, nel 1922 ci sembra intendere il Vorhabe: quella motilità subita e al contempo attiva che caratterizza l’affettività, l’essere-mosso. La domanda guida del Natorp Bericht suona infatti:

In quanto quale oggettualità (Gegenständlichkeit) di quale carattere d’essere è interpretato ed esperito l’essere-uomo, l’essere nella vita (im Leben Sein)? Qual è il senso dell’esserci in cui l’interpretazione della vita imposta a priori l’oggetto uomo? In breve, in quale pre-possesso ontologico (Seinsvorhabe) sta questa oggettualità?[24]

Tale prepossesso ontologico è definito chiaramente, secondo Heidegger, proprio dal carattere di motilità dell’ente: le sue sono “ricerche, il cui oggetto è esperito nel carattere dell’esser-mosso, nel cui che-cosa è a priori dato anche qualcosa come il movimento. Una ricerca di questo tipo si trova nella Fisica aristotelica”[25].

Ecco allora che per Heidegger e per noi con lui è fondamentale guardare alla Fisica: qui l’ente ha come caratteristica fondamentale il fatto di essere mosso e, come conseguenza, quello di poter produrre, potersi a sua volta muovere. Ed è mosso in quanto volge a qualcosa, in quanto aperto-a: aperti ad un’etica, ad un atteggiamento attivo e non solo passivo. Ed è proprio per questo che la Fisica diventa per Heidegger non tanto un trattato sulla filosofia della natura quanto piuttosto una vera e propria ontologia della fatticità: perché mette a tema la caratteristica prima dell’ente, il suo tendere-a. Esattamente quel che Heidegger da fenomenologo in quegli anni cercava indagando il problema dell’intenzionalità.

Il passo successivo che occorre fare è svolto da Heidegger in maniera in parte aderente alla tradizione: il movimento-verso è sinonimo di mancanza, di imperfezione (στέρησις). Eppure Heidegger è rivoluzionario, poiché individua proprio nella mancanza, nel divenire e nella potenzialità le categorie fondamentali che dominano l’ontologia aristotelica. “Nell’interpretazione heideggeriana, στέρησις sorge da un ben definito modo di pensare il e di dar ragione del movimento, cioè da quella visione del mondo che pensa il divenire come carattere fondamentale di questo mondo-natura finito, imperfetto e temporale e che mai possono essere attribuiti alla sfera perfetta dell’essere”[26]. Se per Aristotele questo è negativo poiché mancanza, per Heidegger è il nucleo centrale e la prima definizione della caratteristica essenziale dell’essere: la finitezza. Questa attenzione alla στέρησις nella lettura di Aristotele permane anche in scritti di molto successivi come Vom Wesen und Begriff der Φὐσις. Aristoteles, Physik B, 1 del 1939. Qui infatti la motilità viene definita come “lo stare-in-opera che non è ancora pervenuto alla sua fine, è da produrre, da portare a presenza”[27]. In questo scritto giunge a compimento quanto accennato nel Natorp Bericht, tematizzando il concetto di ἐνέργεια come costituito da privazione (στέρησις) e atto (ἐντελέχεια), e viene chiarito che “nella στέρησις si nasconde l’essenza della φύσις”[28]. Il movimento, passaggio da potenza a atto, non è qualcosa da definire bensì da descrivere (in quanto originario è impossibile da definire, non esiste per esso un genere). Heidegger segue la descrizione aristotelica della struttura del passaggio: l’atto non realizza la potenza facendola divenire atto, l’attualità della potenza consiste nel tenersi ferma (Halten) nel suo carattere potenziale. La motivazione heideggeriana per questa lettura segue Aristotele: poiché egli fa esempi sempre di un movimento produttivo (la costruzione di una casa, la creazione di una statua) Heidegger si sente confermato nel sottolineare che i movimenti sono sempre causati da una mancanza. Tale στέρησις sta fin nell’inizio del processo, la forma che viene assunta alla fine è qualcosa di cui l’ente era inizialmente mancante. Soprattutto su questo può fare leva Heidegger per la sua interpretazione. L’essere allora per Heidegger non è l’essere prodotto, la sostanza, come volevano i Greci secondo l’interpretazione metafisica, ma la movimentazione stessa (Bewegtheit) del produrre, ovvero il processo stesso del divenire. Quello di Heidegger è lo sconvolgimento della tabella dei significati dell’essere sedimentatasi nella tradizione. Se per quest’ultima infatti vi è per primo l’essere secondo le categorie, poi come vero e falso, in terzo luogo come potenza e atto, infine come accidente, Heidegger pone come elemento centrale l’essere come movimento. Per Heidegger il movimento in-vista-di si identifica con l’essere della vita fattiva e ne è orizzonte intrascendibile.

Questo ribaltamento permette la distruzione del primato del teoretico e la riconferma della Faktizität come elemento primario per la filosofia, ed è evidente come il concetto di πάθος rimanga latentemente presente in questa analisi. Abbiamo infatti dimostrato nel corso del lavoro come esso contenga in sé sia un aspetto passivo, quello per cui gli stati d’animo sono “passivamente” subiti, che uno attivo, tale da muovere l’uomo ad azione.

Heidegger ha trovato ancora una volta in un reinterpretato Aristotele molte risposte alle domande (sorte dalla fenomenologia) circa la finitezza del vivente, che diventerà per lui il Dasein. Una finitezza che non è però ancora, come in Essere e tempo, passibile della lettura esistenzialistica che Heidegger rifiuterà e di cui si renderà egli stesso consapevole[29]. La motilità fondamentale dell’ente, e dunque anche dell’uomo, suggerisce che tale finitezza non è solo il problema, ma anche in un certo senso l’inizio della soluzione, poiché scoprendosi mosso da qualcosa il Dasein può muoversi, creare, scegliere, agire e interagire. Già nella motilità si trova l’elemento capace di dire qualcosa all’uomo circa il suo vivere, il suo abitare e rapportarsi agli altri: lo abbiamo visto, le tonalità affettive già dispongono l’uomo in un determinato modo rispetto al mondo, lo aprono ad esso, lo collocano in esso. Già nelle linee guida individuate con lo studio aristotelico c’è per Heidegger qualcosa di prezioso, qualcosa di profondamente ricco tale per cui prima ancora di ogni decisione esistono degli elementi in grado di guidarla.

Ci muoviamo, dunque, perché mossi; possiamo aprirci al mondo perché a spalancarci è proprio il momento affettivo, non limite, non chiusura, bensì apertura del nostro essere-nel-mondo. Capace di aprire l’uomo a quel vivere già in movimento: questo è il patico, la vera e propria apertura all’orizzonte di senso che sta poi ad ogni singolo, liberamente, scrivere. Mai già scritto, mai obbligato, eppure sempre poggiando su qualcosa che, fin dall’inizio, ci apre al rapporto col mondo – gli stati affettivi.

Elisa Zocchi, laureata in Filosofia presso l’Università Cattolica di Milano, ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Münster. Nella sua tesi magistrale, dal titolo “Trascendenza e stati affettivi: il ruolo del πάθος in Martin Heidegger”, si è occupata della funzione delle Stimmungen nel pensiero di Heidegger. La sua ricerca ora riguarda il ruolo dei Padri della Chiesa, in particolare Origene, nella teologia cattolica del XX secolo. La sua dissertazione si concentra su Hans Urs von Balthasar e le ragioni storiche e teologiche dietro la sua lettura dell’Alessandrino.


[1] M. HEIDEGGER, Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem, in Zur Bestimmung der Philosophie, GA Bd. 56/57, hrsg. B. Heimbüchel, Klostermann, Frankfurt am Main 1987; tr. it. G. Auletta, L’idea della filosofia e il problema della visione del mondo, in Per la determinazione della filosofia, a cura di G. Cantillo, Guida, Napoli 2002, pp. 9-109, p. 73.

[2] M. HEIDEGGER, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, GA Bd 18, hrsg. M. Michalski, Klostermann, Frankfurt am Main 2002; il testo non è ancora tradotto in italiano, se non per alcuni frammenti presenti nel testo di C. PASQUALIN, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico: affettività, pensiero e linguaggio nell’opera di Heidegger, Inschibboleth, Roma 2015 e, della stessa studiosa, l’articolo All’origine del concetto di situazione emotiva: la lettura heideggeriana della Retorica di Aristotele nel semestre estivo 1924, in L’affettività del pensiero, numero monografico di “Paradosso”, 1, 2012, pp. 59-83, in cui un lungo passo è da lei tradotto. Le traduzioni che riportiamo da qui in avanti sono di chi scrive, operate confrontandosi coi testi di Pasqualin e con la traduzione inglese di R.D. Metcalf e M.B. Tanzer, Basic Concepts of Aristotelian Philosophy, Indiana University Press, Bloomington 2009.

[3] Per tracciare pienamente il confronto con Aristotele in questi anni occorrerebbe potersi dedicare allo studio della conferenza del 1924 Wahrheit und Dasein – Aristoteles, Ethica Nicomachea Z. Tale conferenza, stesa tra la fine del ’23 e l’inizio del ’24 e tenuta a Colonia nel dicembre del 1924 per la Kant Gesellschaft, non è peró ancora edita (Theodore Kisiel, avendo potuto consultare i manoscritti ancora inediti, cita la conferenza nel suo testo The Genesis of Heideggers «Being and Time», Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1995, pp. 281 ss.). Sappiamo però che il titolo programmato era: Essere-vero ed esser-ci (Aristotele, Etica Nicomachea, Z) e che i temi qui trattati sono il linguaggio e il suo rapporto con la verità; qui dunque il riferimento ad Aristotele, soprattutto alla sua Retorica e ai discorsi persuasivi. Parlare in questo caso è un «parlare dentro» (Über-reden, per-suadere), convincere, e la sua «verità» è più un modo di accordare (Abstimmung) il sentire (mood), che una corrispondenza giudicativa. Kisiel scrive in inglese e dall’inglese “mood” non possiamo sapere quali siano i termini tedeschi utilizzati da Heidegger per indicare il sentire che viene accordato, ma è lecito pensare che si stia qui riferendo alle Stimmungen e all’affettività.

[4] “Diese πάθη, affekte, sind nicht Zustände des Seelischen, es handelt sich um eine Befindlichkeit des Lebenden in seiner Welt, in der Weise, wie er gestellt ist zu etwas, wie er eine Sache sich angehen lässt”. Ivi, p. 122.

[5] ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, p. 133.

[6]  Etica Nicomachea, II, p. 95.

[7] Grundbegriffe…, p. 168.

[8] Ivi, p. 195.

[9] “Die Art und Weise des Aus-der-Fassung-Kommens, Aus-der-Fassung-gebracht-Werdens ist dem Sinn nach so, dass sie wieder gefasst werden kann: Ich kann mich wieder fassen, ich bin einen bestimmten Moment, in einer Gefahr, im Moment des Schreckens, in Fassung. Ich kann die durch den Schrecken gekennzeichnete Befindlichkeit beziehen auf ein mögliches Gefasstsein dafür. So hat also πάθος in sich selbst schon den Bezug auf ἕξις”. Grundbegriffe, p. 171.

[10] Grundbegriffe, p. 203, citando L’anima A.1, 403a16: “Sembra che anche le affezioni dell’anima abbiano tutte un legame con il corpo”, p. 61.

[11] Die ursprüngliche Einheit des Phänomens der πάθη liegt im Sein des Menschen als solchen”. Ivi, p. 177.

[12] Grundbegriffe, p. 260.

[13] “Aristotele dà un’indicazione sul fatto che tutti i giudizi non vengono dati allo stesso modo, ad esempio «quando ci sentiamo tristi o ci rallegriamo». Ciò dipende da questo motivo, se nei confronti di chi ascoltiamo proviamo simpatia oppure no. La διάθεσις dell’ascoltatore è decisiva. Lo stesso oratore deve mirare nel parlare a disporre l’ascoltatore in un determinato πάθος, deve puntare ad entusiasmare gli ascoltatori per una certa cosa”. Ivi, p. 121.

[14] “Der Boden, aus dem das Sprechen erwächst und in den hinein das Ausgesprochene wieder wächst”. Ivi, p. 262.

[15] Ne è un esempio il corso sul Sofista a cui si riferiscono queste righe: “Nel 1923 conobbi Heidegger – era ancora a Friburgo – e partecipai a un suo seminario sull’Etica Nicomachea. Stavamo studiando l’analisi della φρόνησις. Ad un tratto Heidegger ci fece notare nel testo aristotelico che ogni techne possiede una sua limitazione interna: il suo sapere non sarebbe un completo disvelamento (entgeben), poiché l’opera che essa intende produrre viene lasciata nell’incertezza di un uso non disponibile. Così mise in discussione la differenza che separa ogni sapere di questo tipo, in particolare la semplice δόξα, dalla φρόνησις (1140 b 29). Mentre noi, incerti e completamente disorientati in mezzo ai concetti greci, tentavamo di intepretare, egli dichiarò bruscamente: “Das ist das Gewissen!”. H.-G. GADAMER, Marburger Teologie, pp. 199- 200, tr. it. Martin Heidegger e la teologia di Marburgo, in Ermeneutica e metodica universale, Marietti, Torino 1973, p. 28; ma anche H.-G. GADAMER, Erinnerung an Heideggers Anfänge, “Itinerari”, 25 (1986), n.1-2 (quaderno speciale su Heidegger), p. 5-15, in particolare 10.

[16] Su questo tema rimandiamo a P.-L. CORIANDO, Affektenlehre und Phänomenologie der Stimmungen, dove il tratto essenziale delle tonalità emotive è individuato proprio nella nozione di Entgrenzung, l’aspetto cioè per cui gli stato d’animo dischiudono all’uomo il mondo e se stessi in un livello pre-riflessivo, e dove questo aspetto conduce all’intima connessione con un’etica dell’esistenza.

[17] Nell’autunno del 1922 Heidegger manda la propria candidatura alle Facoltà di Filosofia di Marburgo e Gottinga per un posto da professore straordinario, a seguito del passaggio di ruolo come ordinari, rispettivamente, di Nicolai Hartmann e Herman Nohl. I decani delle due università, Paul Natorp e Georg Misch, chiesero a Husserl un resoconto sulle attività didattiche dell’allievo, al quale Husserl stesso domandò un breve scritto riassuntivo circa le sue ricerche, poiché ben poche erano le pubblicazioni edite. Così nasce Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica, meglio noto come Natorp Bericht. La facoltà di Gottinga decise poi di preferire la candidatura di Moritz Geiger, mentre a Marburgo venne concesso ad Heidegger lo Straordinariato e nel semestre invernale 1923/24 si colloca il primo corso. Lo scritto ha tre versioni edite. La prima, basata sul testo inviato a Gottinga, pubblicata nel 1989: Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Anzeige der hermeneutischen Situation, hrsg. H.-U. Lesung, Dilthey Jahrbuch, 6 (1989), pp 237-69. La seconda è condotta anche sul dattiloscritto rimasto ad Heidegger: Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät (1922), hrsg. V. G. Neumann, Reclam, Stuttgart 2003. La terza, ancora ad opera di Neumann, contenente una revisione completa delle fonti, aggiungendo preziose note, compare nella Gesamtausgabe: Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (Anzeige der hermeneutischen Situation). Ausarbeitung für die Marburger und die Göttinger Philosophische Fakultät (Herbst 1922), in M. HEIDEGGER, Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlunden des Aristoteles zur Ontologie und Logik, GA Bd. 62, Klostermann, Frankfurt am Main 2005, pp. 341-419. Le traduzioni italiane sono due: la prima, basata sulla prima versione tedesca, è datata 1990: Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Prospetto della situazione ermeneutica, a cura di G.P. Camerata, V. Vitello, Filosofia e teologia, 3 (1990), pp. 496-532. La seconda, più recente, si basa sulla terza versione, edita nella Gesamtausgabe: Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica, a cura di Adriano Ardovino e Andrea Le Moli, in Il giovane Heidegger tra neokantismo, fenomenologia e storicismo, a cura di Pietro Palumbo, Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi dell’Università di Palermo, Palermo 2005, pp. 165- 198. È a questa che faremo riferimento, poiché più aggiornata e fedele al testo della Gesamtausgabe; per evitare confusioni con le altre opere su Aristotele ci riferiremo ad esso come Natorp Bericht.

[18] “Lo sviluppo della situazione ermeneutica è il cogliere le condizioni e i presupposti fattuali della ricerca filosofica. Presupposti autentici, che non ci sono per essere ammessi, con rincrescimento e obbligati dalla necessità, come fenomeni di imperfezione, bensì per essere vissuti; il che però non significa lasciarli correre inconsciamente, scansarli via, bensì coglierli in quanto tali, il che però vuol dire lanciarsi nello storico”. Ivi, p. 168, nota 11.

[19] Natorp Bericht, p. 177.

[20] 170.

[21] Vom Wesen und Begriff der Φὐσις. Aristoteles, Physik B, 1 (1939), in Wegmarken, tr.it. Franco Volpi, Sull’essenza e sul concetto della φύσις. Aristotele, Fisica, B, I (1939) in Segnavia, p. 196.

[22] Natorp Bericht, p. 179.

[23] Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ivi, p. 180.

[26] MORA, L’ente in movimento: Heidegger interprete di Aristotele, p. 197. Seguiamo Mora nella lettura del rapporto tra movimento e mancanza.

[27] Ivi, 251

[28] Ibidem.

[29]Essere e tempo è ancora fraintendibile! Befindlichkeit come stato! Il rimando all’aperto non basta, se non è un’apertura anticipata” dirà in Das Ereignis, testo di molto successivo: l’apertura data dal patico è tale solo perchè aperta, concessa dall’Essere.