Arte per fraintenditori: l’arte come processo che sfugge ai modelli di consumo
di Antonio Cecere
L’incontro fra Lamberto Pignotti e il collettivo di intellettuali di Filosofia in Movimento ha messo in atto una riflessione che ha generato nuove opere dell’artista e promotore del Gruppo 70, che negli anni Sessanta del Novecento si affermò quale avanguardia artistica capace di opporre una feroce critica alla cultura di massa.
Il lessico della cultura di massa è sempre più un concentrato di brevi slogan e pochi concetti che richiamano le immagini accattivanti di prodotti di largo consumo. Questi oggetti di lusso risaltano su migliaia di cartelloni pubblicitari, i quali si impongono come giganteschi affreschi moderni che, con il loro sfavillio di colori, coprono il grigio doloredella metropoli contemporanea.
Con l’avvento della televisione prima, e i social network in questi ultimi anni, le immagini sono diventate la forma essenziale della comunicazione e le parole solo un contorno del linguaggio pubblico. Spesso le parole vengono usate in modo banale, quali didascalie nelle foto che raccontano la nostra quotidianità e la vita sociale attraverso i media.
Pignotti e il suo Gruppo 70 avevano posto l’attenzione nel capovolgimento, ormai compiuto, fra parole e immagini nella narrazione politica del Novecento.
Questo capovolgimento è da intendersi proprio come l’utilizzo, sempre più pervasivo, di immagini per veicolare messaggi persuasivi alla massa di uomini, al fine di plasmare la cultura di un popolo entro determinati canoni estetici e, di conseguenza, entro un certo sentire comune che diviene collante politico.
Il rapporto fra cittadinanza e linguaggio artistico è un tema che è presente nella riflessione di molti filosofi e critici di arte del secolo scorso. Benjamin e Adorno restano i due pensatori di riferimento in questo campo, ma la loro domanda fondamentale, ovvero se l’arte possa essere intesa quale avanguardia rivoluzionaria o, almeno, promotrice di linguaggi adatti al cambiamento politico, ottiene una risposta negativa dalle opere dei poeti visivi.
Una volta che l’arte entra nel sistema della produzione capitalistica e il successo artistico è misurato dal valore economico dell’opera e dalla sua richiesta sul mercato, l’arte non può che diventare una delle industrie di produzione di oggetti di consumo, che contribuiscono all’addomesticamento del cittadino trasformatosi in consumatore metropolitano.
La Poesia visiva più che una delle tante correnti artistiche è una contaminazione di linguaggi adatti alla comprensione della realtà politica e culturale del nostro tempo. La contemporanea presenza dell’immagine e della parola sulla superficie di un materiale espositivo, mette in luce l’intreccio concettuale dei due tipi di segno: la parola si fa oggetto visivo e l’immagine si impone quale espressione concettuale. Questa ricerca estetica annuncia l’avvento di una sottomissione del pensiero critico alla persuasione dei sensi, come era stato già visto dal filosofo illuminista Denis Diderot nel 1767.
Il Direttore dell’Encyclopédie è stato, infatti, l’autore della prima riflessione intorno agli statuti gnoseologici di poesia e immagine quando nel Salon del 1767, ne definì i confini e i campi di intersezione. Anche Lessing, nell’opera Lacoonte(1766), negava con decisione la possibilità che un dipinto potesse essere come una poesia, ovvero che potesse innescare una serie di pensieri tali da costruire una narrazione razionale. Diderot fu molto netto nel dire che se un artista avesse voluto seguire il precetto di Orazio, ut pictura poesis, avrebbe dovuto pensare il proprio dipinto come se al posto delle immagini dovesse raffigurare parole.
La poesia, infatti, richiama alla mente più momenti diversi costruiti dall’immaginazione sulle suggestioni di parole, capaci di evocare e alimentare questa funzione dell’uomo. Al contrario l’immagine cristallizza in un momento preciso una serie di azioni che impediscono alla mente di pensare immagini diverse da quella che l’autore ha impresso sulla tela. L’immagine sulla tela si imprime nella mente dello spettatore, impedendo uno sviluppo dell’immaginazione fino al punto da rendere il soggetto incapace di ricostruire una visione personale del messaggio artistico. La poesia, al contrario, genera nel lettore una serie di suggestioni attraverso parole che fanno nascere immagini vivide e in continuo movimento che sono alla base dello sviluppo cognitivo. Dove l’immagine blocca l’immaginazione, la parola espressa dalla composizione poetica educa il lettore a costruire un proprio percorso narrativo e lo forma nella tensione a costruire idee sempre nuove e complesse.
Questa osservazione di Diderot, ci fa comprendere come il grande afflusso delle immagini nel nostro quotidiano impedisca al nostro intelletto di creare un proprio pensiero critico, non sforzando più il nostro registro cognitivo a passare dalla lettura di parole alla formulazione di un’immagine che sia frutto della nostra opera di soggetto pensante. Senza più questa capacità del soggetto, sarà sempre più difficile vedere generazioni di rivoluzionari, di uomini liberi e di cittadini consapevoli e sempre più possiamo aspettarci generazioni di consumatori assoggettati alle pulsioni che il mercato ci induce, al fine di creare motivazione di acquisto per oggetti venduti sul mercato.
La nuova sfida di Pignotti è quella di lavorare ad un progetto, che diventerà una mostra presso la Galleria Conctat di Roma, che realizzi un work in progress e non più una collezione di oggetti fissati su materiali in mostra. Se partiamo dalla scritta, work in progress, l’idea del Pignotti è quella di cancellare la parola work con una croce e lasciare solo il «progress», in modo tale, da consentire alla nostra mente, di mettere in moto una serie di processi mentali di intendimenti, o al massimo di fraintendimenti, che ci portano ad immaginare una possibilità rivoluzionaria per i nostri tempi: cancellare l’idea di opera come lavoro utile e spostare l’attenzione sul processo, ovvero sul vivere come pro-azione e continua trasformazione del proprio percorso artistico e di continua ricerca di dare un senso alla propria esistenza. Ecco che una semplice parola cancellata in una frase, genera un processo di immaginazione tale da mettere in discussione un’intera cultura, la cultura capitalista del lavoro come etica, e porre l’accento al lavoro come assoggettamento al sistema.
Invece di richiamare il Bertrand Russell dell’elogio dell’ozio, preferisco ricollegare la sfida di Pignotti e del gruppo di Filosofia in Movimentoal lavoro di un altro artista che si pone all’interno di movimenti dissidenti e rivoluzionari che cercano di giocare il sistema che ci sta giocando, come afferma lo stesso Pignotti nella presentazione del progetto di Conctact: l’artista e performer cinese Lin Ynlin.
Lin Ynlin nel 1995 fu protagonista di una performance molto interessante dal titolo Safely Maneuvering Across Lin He Road, durante la quale s’impegnava nella costruzione di un manufatto in mattoni di cemento sovrapponendoli in linea sulle strisce pedonali. Il suo lavorare al manufatto, inutile e improvvisato, in una strada di grande passaggio tra persone intente a raggiungere il proprio posto di lavoro, aveva un significato tutto da fraintendere. Adoperarsi freneticamente in un lavoro inutile, è un gesto rivoluzionario proprio nel contesto di una Cina che è diventata una società iperattiva. Una società, quella cinese, strutturata come fosse una grande fabbrica, dove il cinese non è altro che un ingranaggio della città-catena di montaggio. Il gesto di Ynlin è un segnale di rivolta, quando oppone il proprio gesto inutile, senza scopo, difronte alla coscienza del nuovo schiavo della società di massa. Il gesto ricorda il lavoro, si esprime nel lessico del lavoro, ma nasce dal fraintendimento dei concetti di opera e di utile. Ynlin sa di esprimersi in un linguaggio che è possibile comprendere solo se si è in grado di fraintenderne la grammatica.
A questo punto, sia la performance di Ynlin che il Work in progressdi Pignotti, non sono opere artistiche che forniscono prodotti di consumo, ma sono pensiero in movimento, arte che si espone per sfidare le capacità del fruitore di afferrare un significato senza dover essere intenditore della tecnica. Un fraintendimento di base che attiva l’immaginazione dello spettatore e lo sottrae alla sua condizione di perenne consumatore.