BRASILE: NON C’È UN’ALTRA ALTERNATIVA
di Ricardo Antunes
traduzione di Antonino Infranca
(Articolo pubblicato nella rivista Serrote, n°. 33, novembre 2019, San Paolo)
La piaga della schiavitù
Nei nostri tristi tropici, il lavoro è stato quasi sempre una forma di vilipendio. Il “quasi sempre” decorre qui dall’eccezionale esperienza vissuta nel periodo in cui il Brasile non era ancora il Brasile. Prima di essere “scoperti” dal mondo “civile”, il lavoro esercitato qui, durante molti secoli, fu in comune, autonomo e autosostenuto, realizzato da comunità indigene, il cui la maggior parte del tempo di vita era dedicata alla fruizione e al piacere.
I portoghesi, che arrivarono nel 1500, ai primordi dell’accumulazione primitiva e del mercantilismo, ci insegnarono molte “novità”: la necessità della produzione di merci per la vendita e il profitto delle borghesie forestiere; la pragmatica dello scambio e i suoi scambi disuguali e, dopo infruttiferi tentativi di schiavitù indigena (che nell’America ispanica ebbero tristemente una vigenza durevole), ci imposero il lavoro sotto la forma più abietta, compulsiva e violenta che conosciamo: la schiavitù.
Così nasceva la giovane Colonia, che un giorno fu concepita come prototipo del “paese cordiale”. Questa lunga fase del passato, quindi, modellò indelebilmente la nostra storia del lavoro, che contempla, da una parte, coaguli di work, in particolare guardando alla nostra epoca pre-Scoperta, e, dall’altra, molte piaghe di labour, a partire dalla colonizzazione.
Dopo secoli di schiavitù africana (che tanti profitti darà alle borghesie mercantili), una confluenza di contraddittori movimenti ci portò, più che tardivamente, all’abolizione del flagello della schiavitù.
Ma, d’altra parte, il mondo coloniale (tanto al Nord, quanto nei Caraibi e nel Sud) ha vissuto un’enorme era di ribellioni negre contro la schiavitù, che la nostra storia ufficiale, fino ad oggi, ha cercato di mettere a tacere. Dal nostro fertile Quilombo dos Palmares* fino all’eroica e pioniera Rivoluzione Sociale di Haiti, il suolo coloniale in fiamme esigeva la fine della schiavitù.
Ma il mondo borghese emergente, risultato da una curiosa simbiosi tra prussianesimo e aristocrazia coloniale-schiavista che qui prosperò, seppe ritrovarsi. Finita la schiavitù, i lavoratori/trici negri/e furono esclusi dal nuovo mondo del lavoro salariato che si espandeva nell’universo urbano e nel locus industriale. Divennero nuovi schiavi, dato che le lavoratrici negre divennero una specie di “riserva di mercato” nelle case dei nuovi baroni bianchi, ampliando ancora di più le spaccature esistenti nella nostra divisione socio-sessuale e razziale del lavoro.
Per il nuovo mondo urbano-industriale, il tocco di classe signorile era ancora più presente: l’immigrato bianco, europeo, aveva il “passaporto di entrata” preferenziale. Italiani, tedeschi, tra gli altri, sempre molto candidi, furono scelti per l’esercizio del lavoro libero e salariato, relegando la forza-lavoro negra negli angoli della schiavitù domestica e in altre attività marginali. E così la Repubblica del liberalismo dell’esclusione riuscì a prolungarsi fino al 1930.
L’enigma della Consolidazione della Legislazione Lavorista
Fu con l’avvento del Varguismo* che tutto sembrò cambiare. Un curioso latifondista delle Pampe riuscirà, infine, a fermare la strana Repubblica del Caffè con Latte, per “modernizzare” il paese e trarlo fuori dall’arretramento. Guidando un movimento che fu più che un golpe e meno che una rivoluzione, Vargas seppe ridurre il potere della borghesia del caffè, senza escluderla dal nuovo raggruppamento, tessuto tra le diverse frazioni delle classi dominanti rurali, aggregando anche la borghesia industriale emergente. Ridisegnò un nuovo blocco di potere il cui condottiere spingeva la costruzione di un progetto nazionale, industrializzante e statale.
Ma, al contrario della fase repubblicana precedente, il Varguismo aveva la chiara coscienza che la riuscita di questo progetto non poteva prescindere dall’incorporazione della classe lavoratrice, sebbene questa “partecipazione” si realizzasse fuori del quadro dell’autonomia e dell’indipendenza di classe.
Ma, come contare sull’appoggio della classe lavoratrice urbano-industriale, senza scontentare il dominio borghese? È esattamente qui che entra in campo la legislazione sociale protettrice del lavoro. Introdurre e istituzionalizzare questo nuovo regolamento giuridico del lavoro risolveva tre equazioni in qualche misura contraddittorie.
Primo, garanzia di una nuova base sociale di appoggio al Varguismo, in modo da dargli forza e sostegno sociale di massa, necessari per riorganizzare l’equilibrio instabile tra le distinte frazioni borghesi che si disputavano l’egemonia in questo nuovo periodo.
Secondo, regolamentazione di importanti rivendicazioni provenienti dalle lotte operaie, che si intensificarono a partire dallo storico Sciopero Generale del 1917 e ricorrenti all’inizio degli anni Trenta, azioni queste che esigevano la creazione di un quadro protettivo al lavoro, praticamente inesistente durante la Repubblica Vecchia, dove la questione sociale era intesa come “caso di polizia”. Toccò a Vargas dargli una formattazione dentro l’Ordine.
E terzo, la regolamentazione della forza-lavoro stabiliva un livello minimo necessario per l’accumulazione del capitale (la determinazione del salario minimo, per esempio) e per il consolidamento di un solido mercato interno, elementi fondamentali per l’espansione di un progetto di industrializzazione, capace di spingere e servire gli interessi industriali in ascesa.
E fu così, in modo allo stesso tempo conflittuale e necessario, contraddittorio e imperioso, che le rivendicazioni operaie si andarono convertendo, nel corso degli anni Trenta, in leggi lavoriste e, successivamente, nel 1943, sanzionate e consolidate in un unico documento. Nasceva, allora, la Consolidazione della Legislazione Lavorista, che nascondeva al suo interno un chiaro enigma: aveva l’apparenza di dare e l’effettività della concessione. E finì per costituirsi, per la classe lavoratrice, nel corso di tanti decenni di vigenza, in una specie di costituzione del lavoro in Brasile. Forse, non c’è, nella storia repubblicana brasiliana, nessun documento con tanta forza popolare, con tanta accettazione nel seno della nostra classe operaia.
Questa ingegnosa costruzione della Consolidazione della Legge Lavorista aveva, intanto, nitido carattere bifronte: i diritti lavoristi furono effettivamente istituiti in vari punti importanti. Ma, allo stesso tempo, l’embrionale autonomia sindacale esistente (risultante dalle influenze anarco-sindacaliste e socialiste presenti nelle lotte operaie precedenti) fu completamente repressa, mediante l’obbligatorietà dell’unicità sindacale (ossia, era possibile soltanto l’esistenza di un unico sindacato riconosciuto per legge); dello “statuto modello” che doveva essere approvato dal Ministero del Lavoro; della proibizione di qualsiasi attività politica o ideologica nei sindacati, così come del controllo dello Stato delle loro risorse, mediante la tassa sindacale obbligatoria. E, last but not least, le masse salariate delle campagne furono escluse da qualsiasi diritto della Consolidazione della Legge Lavorista, esigenza dei settori agrari dominanti. Il latifondista delle Pampe dovette, ancora una volta, inchinarsi al prussianesimo coloniale.
Si consolidava, allora, il mito varguista del “Padre dei poveri” e dello Stato benefattore. E fu così che questa legislazione sociale del lavoro, con i suoi inciampi e scossoni, divenne longeva e attraversò i decenni seguenti, fino ad affrontare con il Golpe del 1964.
Durante la dittatura militare, come sappiamo, si ampliarono gli elementi di controllo sindacale statale – il cosiddetto sindacalismo di Stato – e si introdussero fratture nei diritti lavoristi, come l’eliminazione della legge di stabilità e la sua sostituzione con il Fondo di Garanzia del Tempo di Servizio*. Qui l’obiettivo era aumentare il turn over della forza-lavoro, capace di comprimere i livelli salariali a beneficio degli interessi borghesi, oltre al fatto che la dittatura proibì il diritto di sciopero (che era stato approvato nella Costituzione del 1946, così come la legge della stabilità).
Con molte lotte, resistenze, scioperi e rivolte, la dittatura militare arrivò alla sua fine, piegando, ma non eliminando la Consolidazione della Legge Lavorista. E fu nella cosiddetta “Nuova Repubblica”, con la promulgazione della Costituzione del 1988, che furono introdotti nuovi elementi (sebbene insufficienti, è necessario aggiungere) al capitolo referente alla democratizzazione sindacale. Per quello che riguarda i diritti del lavoro, ci fu un significativo ampliamento.
Ma un nuovo uragano si doveva abbattere sul nostro paese.
L’abbandono neoliberale
In Brasile, questo movimento iniziò con Collor e guadagnò consistenza con Fernando Henrique Cardoso, eletto per conferire una “razionalità” che non esisteva con Collor. Nell’universo della legislazione lavorista, Cardoso battagliò quanto poté per decostruire la Consolidazione della Legge Lavorista.
Poi Lula si equilibrò con un compromesso sociale di conciliazione di cui beneficiavano espressamente tutti i grandi capitali, ma riservava una piccola parte per la popolazione più povera. Con Dilma, intanto, il mito petista crollò e ci fu l’ecatombe.
Le ribellioni del giugno 2013 mostravano che i malcontenti sociali colpivano in pieno anche il Brasile. Con la crisi economica, che si aggravò a partire dal 2014, in un contesto in cui le denunce di corruzione si accumulavano, il golpe giudiziario-parlamentare approvò un impeachment che mise fine all’era del PT.
Iniziava, allora, una nuova controrivoluzione preventiva in Brasile, con il terziarizzato Temer scelto per realizzare la devastazione sociale. In relazione ai diritti del lavoro, i capitali esigevano la flessibilizzazione, la terziarizzazione e l’approvazione del lavoro intermittente (vedi le 101 proposte per la “modernizzazione” lavorista della Confederazione Nazionale dell’Industria del 2012).
La terziarizzazione si ottenne con l’approvazione del Progetto di Legge Costituzionale 30/2015, che eliminò la separazione tra attività-mezzo e attività-fine. Il suo significato è più che evidente: riduzione di costi (sempre a scapito del lavoro), compressione salariale e aumento della frammentazione della classe lavoratrice in modo da restringere l’azione dei sindacati. Successivamente, nei rantoli del suo governo, Temer estese ancora enormemente la terziarizzazione nel settore pubblico.
La flessibilizzazione del mercato del lavoro, la prevalenza del negoziato sul legiferato, il lavoro insalubre ampliato per le lavoratrici, le restrizioni alla Giustizia del Lavoro, tra tanti altri punti nefasti, furono consustanziati nella Riforma Lavorista (Legge 13.467) nel 2017. E se tutto questo già non bastasse, questa vera controriforma introdusse ancora uno dei più nefasti elementi presenti nel mondo del lavoro contemporaneo: il lavoro intermittente. A partire da allora, lavoratori e lavoratrici rimangono disponibili per il lavoro, ma ricevono soltanto se sono chiamati. Il tempo in cui aspettano, intanto, non è remunerato. Si convertono in ciò che ho denominato ne Il privilegio della servitù [di prossima pubblicazione in italiano], nei nuovi schiavi digitali di Uber, 99, Cabify, iFood, Glovo…
Con la vittoria elettorale di Bolsonaro e la sdrucciola combinazione tra neoliberalismo estremo e autocrazia tutelata, i risultati disastrosi in relazione al mondo del lavoro si approfondiscono. La Controriforma lavorista, che era ostentata come capace di incrementare il mercato del lavoro, ci offre un contingente di disoccupati di circa tredici milioni, oltre a quasi quattro milioni che vivono la “disoccupazione per scoraggiamento”, contando anche una popolazione lavoratrice sottoutilizzata vicina a quasi trenta milioni.
Fu questa l’eredità che l’intermittente Temer lasciò all’imprevidente Bolsonaro e, affinché la corrosione sociale sia completa, oltre alla demolizione della previdenza pubblica, il governo-di-tipo-lumpen offre ancora l’indecorosa proposta della Tessera del Lavoro “Verde e Gialla”, dove «il contratto individuale prevarrà sulla Consolidazione della Legge Lavorista» per i giovani in cerca di lavoro, secondo quanto risulta dal programma elettorale dell’ex-capitano. Se questo tragico scenario si concretizzerà, che resterà, allora, per la classe lavoratrice?
Qui, come altrove, il lavoro, inteso come valore, è diventato un disvalore, per creare plusvalore. Se così è nel sistema del metabolismo sociale del capitale, sarà necessario reinventare un nuovo modo di vita. There is no other alternative. Questo è l’imperativo cruciale del nostro tempo.
* Comunità autonoma di africani fuggiti dalla schiavitù, occupava un’ampia zona nel Nord-est del Brasile.
* Movimento politico populista nato attorno a Getulio Vargas, dittatore e presidente del Brasile tra il 1930 e il 1945 e tra il 1950 e il 1954.
* Fondo versato dal datore di lavoro a garanzia del lavoratore e pari all’8% del salario annuo.
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