di Barbara Iovine
Etnologo e antropologo, Marc Augé nasce nel 1935 a Poitiers, in Francia.
Si afferma lungo la sua carriera accademica e di studio come uno dei più noti studiosi di scienze sociali e di antropologia.
La distinzione che Marc Augé opera tra l’etnologia e l’antropologia è fondata sulla diversità del “diritto di sguardo”. Osservazione localizzata per l’etnologia, dovendo tener conto del contesto geografico, storico e storico-politico. Osservazione che adotti un punto di vista più generale e comparativo per l’antropologia, evidenziando maggiormente la dimensione riflessiva e l’appartenenza di tutti allo stesso universo. In etnologia, l’osservatore è parte di una realtà predeterminata e finisce per diventare indigeno di sé stesso.
“Ogni etnologia è oggi necessariamente un’antropologia.”[1]
Per l’autore, l’etnologo è condannato ad una sorta di strabismo.
«… perché mentre guarda all’interno della cultura che sta studiando ha sempre un occhio che comunque all’esterno, e questa è una cosa piuttosto strana. Da un lato occorre osservare quella civiltà rimanendo dall’esterno per percepirne i limiti in modo preciso, ma dall’altro è necessario entrare al suo interno per coglierne in profondità il funzionamento. Bisogna essere empatici e allo stesso tempo mantenere le distanze».[2]
Le sue ricerche sul campo hanno inizio in Costa d’Avorio e nel Togo nel 1965, all’indomani della conquista dell’indipendenza. La prima antropologia concerne la malattia, la morte, la possessione, la stregoneria, la filiazione e i sistemi religiosi.
Nonostante continui a lavorare in Africa, dopo il 1985, cambia il terreno empirico, orientandosi ad un’antropologia della quotidianità.
Gli incontri che Marc Augé ricerca non sono più con individui che fanno parte di un gruppo determinato, ma, piuttosto, con spazi particolari, che definisce delle tre “C”: spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione. Si sofferma su quegli spazi che non hanno in sé nessun tipo di regola, né alcun tipo di obblighi collettivi. Spazi privi di alterità e pervasi da sentimenti di solitudine, chiamati “non luoghi”.
Il metodo praticato da Augé è quello dell’osservazione partecipante, indispensabile all’analisi funzionale. Implicazione diretta è che le ricerche si svolgano su singole popolazioni, al fine di comprendere tanto i singoli significati culturali tanto le strutture sociali sottintese ai gruppi studiati, che i legami interconnessi tra credenze, usi e costumi che a prima vista risultano essere incomprensibili.
L’osservazione partecipante assurge a credo e rito di passaggio divenendo una caratteristica dell’identità professionale del ricercatore sul campo, standardizzando il comportamento che l’antropologo deve avere che deve essere neutrale per cogliere il punto di vista del nativo del luogo attraverso la relazione empatica e soggettiva.
Augé riprende la classificazione dei riti elaborata da Arnold Van Gennep.
E’ uno specialista dell’attività rituale.
Che cos’è il rito per Augé?
È un ricominciare.
L’attività rituale discende dal tempo, contemporaneamente si tenta di coniugare il passato e il tempo futuro.
«Il rituale africano, nella misura in cui si interessa all’individualità umana, si sforza al tempo stesso di identificarla e di fissarla, di porla come singolarità. Ma quest’ultima impresa è di gran lunga la più difficile. Il corpo potrebbe essere il mezzo e il luogo di tale fissazione, e in una certa misura lo è, in particolare nella forma che lo avvicina all’oggetto puro, alla cosa-cadavere …»[3]
Augé chiama perfomance rituale, il modo di esecuzione del rito, che descrive con dovizia di particolari. Il rito assume la pienezza del senso solo in rapporto al tempo in cui si colloca, allo spazio del suo svolgimento, e agli attori che vi partecipano.
La condizione dell’etnologo è particolare, quando si distanzia dalla cultura studiata, non è lo stesso di quando vive la sua quotidianità.
Cosa significa per l’autore essere lo stesso?
Anche se l’etnologo osserva a distanza, tale distanza non è totalitaria in quanto lo sguardo partecipante ed empatico al tempo stesso, rappresenta un limite.
Augé è un empatico di tipo intellettuale.
Egli ha interiorizzato la definizione di osservazione partecipante di Evans Pritchard: ossia la capacità che si sviluppa ascoltando le ragioni degli altri, che permette di entrare nelle modalità di ragionamento e di interpretare in un modo preciso un tipo di evento o un altro. L’intento di Augé è quello di farci comprendere che il trovarsi in una determinata circostanza, non implica vivere e comprendere gli accadimenti nella stessa maniera delle persone con cui ci si trova.
L’etnologo non si limita ad osservare la storia, ma tentando delle sperimentazioni ne è protagonista.
È nella scrittura che si compie la fine e il senso del suo viaggiare.
È nella scrittura che l’etnologo diviene antropologo.
Il fine dell’antropologia non è solo quello di comprendere, cogliere le diversità culturali, partendo dagli studi delle popolazioni selvagge, ma giungere ad una scienza generale dell’uomo, che sia idonea a criticare culturalmente la nostra società, identificandone gli oggetti.
Per Augé esistono due tipi di oggetti: quello empirico, ad esempio si studia un villaggio, una famiglia, un piccolo gruppo; e quello intellettuale costituito da ciò che si sa studiando e cercando di comprendere. In ambito antropologico l’oggetto intellettuale può essere, in una forma o in un’altra, la relazione può essere intesa come relazione tra l’uno e l’altro, o tra gli uni e gli altri, o ancora tra l’uno e gli altri: Sono tutte forme possibili sempre, ma in questa relazione l’oggetto intellettuale dell’antropologia indica che l’antropologo è colui che studia la relazione con l’altro a casa degli altri. Da qui l’interrogativo chi sono gli altri. In quella che si può definire la prima etnologia gli altri sono gli altri lontani da noi, o l’altro esotico: l’etnologo va in Africa, o nell’America meridionale, per scoprire altri mondi, altre culture.
Alla questione dell’oggetto empirico si ricollegano quella del metodo, quella della distanza di osservazione dell’oggetto indagato, e infine quella dell’essere estraneo dell’altro.
L’interrogativo che ci si pone è chi dunque l’altro?
L’autore, specifica che si tratta di un interrogativo multiplo.
L’altro è colui che il ricercatore osserva, in una situazione di estraneità, a cui si attribuisce un ruolo specifico.
Il primo, che l’etnologo incontra è l’altro culturale, che si identifica in colui di cui si preoccupano anche in maniera occasionale coloro che si interrogano del mestiere e della natura dell’etnologo.
«L’individuo, dunque, non è che l’intersezione, necessaria ma variabile, di un insieme di relazioni.[4]
Quella di Augè è un antropologie du proche, ossia antropologia del vicino, più precisamente è lo studio del “qui e ora”, che studia il presente e non il passato.
L’etnologo è sempre colui che si trova da qualche parte e descrive ciò che osserva o ciò che ascolta in quello stesso momento, in quell’istante.
Diversamente dallo storico, che si rifà nei suoi studi alla letteratura già esistente, l’antropologo ha in sé la caratteristica della contemporaneità, tratto distintivo delle sue descrizioni, attraverso l’esperienza che fa direttamente dei soggetti delle società oggetto di studio.
Tutto ciò che allontana dall’osservazione diretta sul terreno, allontana anche dall’antropologia.
Augè attribuisce una distanza doppia tra l’esperienza del terreno di ricerca e la scrittura, ossia una distanza tra quello che si è vissuto e quanto si è osservato a caldo, che molto spesso viene confusa con la distanza tra l’etnologo e gli altri, ma è ben diversa in quanto quest’ultima si riferisce chiaramente alla teoria dello sguardo da lontano.
La concezione sociologica di luogo che Augè sviluppa parte dal “fatto sociale” di Marcell Mauss.
I modi in cui un gruppo si organizza e costituisce i suoi luoghi possono essere intesi come pratiche collettive e individuali. Le collettività necessitano di sentire in maniera simultanea tanto l’identità che la rete di relazioni attraverso il meccanismo simbolico degli elementi costitutivi non solo dell’identità collettiva, ma anche di quella singola. Dal modo di intendere lo spazio si genera il passaggio dal luogo comune a quello sociale.
Elementi costitutivi dei luoghi antropologici sono: l’identitarietà, la relazionalità e la storicità.
Il luogo è per Augé spazio geometrico e spazio temporale. La stessa esperienza africana è un’esperienza di spazio, nella quale leggere i simbolismi.
Spazio geometrico, in quanto tessuto delle relazioni Augè gli attribuisce la caratteristica dell’oggettività, richiamando però solo in parte la definizione di Emile Durkeim.
I luoghi antropologici sono fatti di itinerari, crocevia, centri.
È nel luogo che avviene la decodificazione delle relazioni sociali e la lettura dei simboli che uniscono gli individui.
L’individualità poggia su tre cardini antropologici: la filiazione, l’alleanza e la generazione.
Attraverso la coniugazione dell’individualità e dell’alterità l’individuo acquisisce la piena consapevolezza della sua esistenza e di sé stesso.
Dire che è il luogo è spazio temporale, sta a significare che tanto l’alterità quanto l’identità, non sono solo elementi caratteristici dello spazio ma anche costitutivi della storia e del tempo.
Per Augè la chiave di lettura della continuità del tempo si ha nei monumenti, che rappresentano il permanere nel tempo della collettività, generati dal ricordo, fino a divenire i luoghi della memoria.
L’antropologo ricopre un ruolo fondamentale nell’analizzare un luogo e uno spazio, a seguito della consapevolezza che essi prendono forma mediante l’incorporazione.
Il procedimento di incorporazione dello spazio e del tempo avviene attraverso la socializzazione.
Frutto di quest’ultima sono la produzione di modelli sociali diversi, che inducono l’antropologo alla disamina delle differenti strutture sociali.
La trasformazione dello spazio in luogo avviene a mezzo della socializzazione, processo in cui l’individuo mediante incorporazione di distanze, nodi, prossimità, confini rende uno spazio vuoto un luogo.
Quella dei non luoghi, l’autore la definisce un’avventura in quanto la pronuncia di tale parola è stata un’intrusione nella vita intellettuale di altre discipline.
Il termine non luogo è stato utilizzato per la prima volta, nel 1991 nella scrittura del libro a cui è stato dato il titolo nel 1992.
La definizione di non luogo si presta ad una duplice chiave di lettura, da un lato è osservazione empirica, dall’altro è una definizione teorica alla quale non nessuna realtà vi corrisponde completamente.
Teoricamente, il non luogo corrisponde alla dimensione assoluta della libertà individuale, inteso come uno spazio in cui non si può leggere alcuna relazione sociale. Per contro, teoricamente, il luogo è la dimensione assoluta del senso sociale, ossia quello spazio in cui l’individuo vive le proprie relazioni sociali.
La contrapposizione tra il luogo e il non luogo, non può essere concepita come quella esistente tra il bene e il male, tra il vivere bene e il vivere male.
Augé definisce i non luoghi spazi di transito.
Sono spazi standardizzati, all’interno dei quali tutto è calcolato con estrema precisione e per ogni azione esiste una regola ben precisa che esprime una modalità d’uso.
I nonluoghi possono essere prescrittivi: si pensi alla richiesta di esibire un documento che attesti l’identità di una persona.
In opposizione ad una prescrizione, un nonluogo può essere proibitivo: quindi esprimere un divieto
L’individuo in tali spazi viene spogliato della identità intima, perde i suoi elementi distintivi e subisce una trasformazione inconsapevole diviene un utente, un cliente, un consumatore.
Spazi dell’effimero, vissuti con spensieratezza e con l’illusione di potervi trovare tutto ciò che è desiderabile.
Da identitario ad anonimo fin quando resta all’interno di tali spazi, e pervaso da provvisorietà, da una nuova solitudine e da similitudine.
Ai non luoghi si riconosce una dimensione più intima e soggettiva che va oltre la sua definizione in senso stretto. Ritenendo che essa si incroci con altre parole o ancor meglio espressioni, implicando una valutazione oggettiva dei fatti.
I non luoghi mancano degli elementi costitutivi dei luoghi antropologici, sono privi di identità, di storia e di relazioni.
Sono figli della surmodernité, intesa come contemporaneità, legati ai fenomeni della globalizzazione.
Caratteristiche peculiari dei non luoghi sono: l’eccesso di tempo, l’eccesso di spazio e l’eccesso di ego.
L’eccesso di tempo fa riferimento al modo di approcciarci alla vita. Notevolmente mutato rispetto ad un passato sia recente, che ancor più antico, quello degli antenati. Le nostre azioni, il nostro vivere è frenetico e ansioso. Viviamo un’illusione, quella di poter controllare e dominare tutto ciò che sopraggiunge inaspettato e imprevedibile, ma la velocità con cui tutto ciò accade è fuori dal nostro controllo.
L’eccesso di spazio guarda all’accelerazione dei mezzi di circolazione, il contesto in cui ogni individuo si muove non è più quello locale ma quello globale.
L’eccesso di ego inteso come eccesso del proprio se. L’individualità si sviluppa in maniera esponenziale.
È l’Io sempre al centro dell’universo. L’individuo dimentica che è solo nella collettività che può avvenire la sua piena realizzazione, attraverso la rete delle relazioni sociali.
Comune denominatore dei nonluoghi è il consumo.
Il consumo, nelle sue diverse modalità, è un imperativo economico. Non luoghi che si sovrappongono, si intrecciano e che finiscono
con l’assomigliarsi. Gli aeroporti assomigliano ai supermercati, negli aerei è possibile guardare la tv, nelle stazioni di servizio si può ascoltare il notiziario. La carta di credito, che da strumento di pagamento, diviene erogatrice possibile di premi.
La circolazione è un bene di consumo: possiamo comprare viaggi, soggiorni, vacanze.
Bene di consumo per eccellenza è la comunicazione, che diventa sempre più individualista. Il cellulare ci permette di connetterci al mondo intero. La tecnologia evolve rapidamente e chi vuole stare al passo deve acquistare gli ultimi modelli.
Si creano in tal modo nuove disuguaglianze tra coloro che possono partecipare alla comunicazione tecnologica, e coloro che per fattori differenti ne sono esclusi.
Il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri cresce in maniera esponenziale.
Tre sono le classi che si contendono il mondo: i privilegiati, i consumatori e gli esclusi.
Nel libro Nonluoghi, Augè introduce un termine che ha in sé del nuovo.
Mondializzazione.
Si definisce mondializzazione un cambiamento di scala e di riferimento in tutti i settori della vita sociale, politica e culturale.
Per l’autore si tratta di un possibile ideale. Egli vuole intendere un mondo in cui siano abolite tutte le eventuali forme di esclusione, per giungere ad un mondo senza frontiere, che permetterebbe a tutti l’accesso a beni, essere umani, immagini.
Quali sono gli elementi che renderebbero possibile l’attuazione della mondializzazione?
Augè li ravvisa nella globalizzazione e nella esistenza di una coscienza planetaria, che è al tempo stesso ecologica e inquieta, in quanto racchiude in sé sia la consapevolezza della fragilità del proprio corpo, quanto la paura originata dalle minacce possibili in un universo infinitamente grande.
Nell’epoca della surmodernité caratterizzata dalla sovrabbondanza e dal bombardamento di immagini e messaggi, le nuove paure si collegano alle nuove forme di violenza che l’Autore distingue collocandole in tre differenti ambiti: le violenze economiche e sociali, nell’ambito dell’impresa, le violenze politiche, tra cui annovera razzismo e terrorismo, le violenze tecnologiche e quelle naturali, queste ultime sono causate e amplificate dalle prime.
Il mondo attuale è contraddistinto da paure che sono al tempo stesso ampiamente diffuse e condivise.
Paure coniugate non solo dalla singola persona ma a livello della collettività.
Augé identifica due tipi di paure: quelle generate dall’ ignoranza e quelle originate dalla conoscenza.
Numerosi i fenomeni sociali ascrivibili all’ignoranza.
L’ignoranza è una piaga sociale, che desta non poche preoccupazioni e che necessita di misure preventive.
Le prime si poggiano sulla credenza di credere di sapere, le altre trovano fondamento nel fatto di non sapere, fondate sullo spirito critico e scientifico.
L’inquietudine che pervade gli animi è ai cambiamenti di cui siamo al tempo stesso spettatori e attori che si presenta a livelli differenti, quale rappresentazione della forte stratificazione sociale.
Diversamente dall’etnologo tradizionale, dedito allo studio delle relazioni sociali di gruppi dalle dimensioni modeste, l’antropologo attuale, è calato in un contesto mondiale, e nei suoi studi il punto di partenza è fissato nel concetto di non luoghi che porta in sé tutti gli elementi rappresentativi del nuovo contesto che è planetario.
Il timore del futuro e l’ossessione dell’altro sono espressione di tali violenze, che creano nuove paure che Augé connota come specifiche: stress, panico e angoscia.
La globalizzazione può essere letta come una nuova forma di colonizzazione tanto degli individui quanto delle culture. Si impone a tutti indistintamente, identificarne gli attori è un’impresa ardua.
Tre sono le forme principali della globalizzazione:
- Globalizzazione “imperiale”, che è la forma più evidente, quella immaginabile dalle potenze dominanti, quali ad esempio gli Stati Uniti;
- Globalizzazione “scoppiata”, individuata dagli antropologi americani definiti post-moderni, per i quali il mondo si identifica come il luogo in cui si realizzazione le etnie o gruppi particolari.
- Globalizzazione “mediatica”, definita la spettacolarizzazione delle differenze e la creazione di prodotti di consumo di natura sia “turistica che televisiva e cinematografica” e in “immagini più o meno stereotipati”.
Il tempo che Augè, studia, osserva è quello della crisi. Egli definisce la crisi attuale una crisi planetaria, la cui natura non è solo politica e sociale, il cui ambito non è solo quello finanziaria o economico. Una crisi subita passivamente da coloro che non hanno alternative e che in maniera brutale comprendono che qualcosa è cambiato.
La chiave di lettura di questa crisi per l ‘autore è triplice.
È crisi di coscienza e allo stesso tempo presa di coscienza planetaria, siamo coscienti di vivere su un pianeta minuscolo rispetto alla maestosità dell’universo. Una coscienza infelice, dalla consapevolezza di essere attori della distruzione e allo stesso tempo spettatori inermi della stessa.
È crisi della relazione. La centralità della crisi è la relazione sociale anzi l’insieme delle relazioni sociali, che possono scatenare violenza.
È crisi delle finalità. Augé esprime in questa frase un paradosso.
Alla stessa velocità con cui la scienza mostra fiera al mondo intero i suoi progressi, aumenta lo squilibrio non solo economico, ma anche di portata culturale tra coloro che sono i sostenitori, i promotori della scienza e coloro che non ne conoscono l’esistenza. Si affermano con più prepotenza le disuguaglianze tra le classi sociali, mettendo in risalto una società fortemente stratificata, in cui i protagonisti della scienza rappresentano l’élite e gli altri espressione della classe più bassa.
Il cambiamento di scala al quale stiamo assistendo è ascrivibile a tre trasformazioni complementari:
- Il passaggio dalla modernità alla surmodernité;
- Il passaggio dai luoghi ai non luoghi;
- Il passaggio dal reale al virtuale.
Il primo passaggio pone l’accento sul tempo, il secondo sullo spazio e l’ultimo sulle immagini.
Il tentativo di comprendere tanto le cause quanto gli effetti del cambiamento di scala, deve essere fatto a partire da un’analisi complessa che volga lo sguardo alla dimensione politica, ecologica e sociale, demografica, culturale ed estetica, fisica e metafisica.
- L’espressione “paesi emergenti” è segno distintivo di un cambiamento politico che si contrappone a quella di potenze in ascesa, chiaro riferimento alla storia del passato e ai conflitti come erano concepiti.
Due linguaggi differenti che hanno in sé delle possibili contraddizioni, legate al nostro modo di guardare al tempo passato o ad un tempo futuro.
La competizione a livello planetario tra potenze in ascesa e paesi emergenti viene misurata attraverso la costruzione di indici quali quello del tasso di crescita, di indebitamento, della bilancia commerciale.
Si fa strada un altro tipo di linguaggio che l’Autore definisce transnazionale, per chiarire i conflitti locali, in quanto è impensabile l’idea di una guerra mondiale tra le grandi potenze.
L’idea di guerra, volgendo lo sguardo al passato, è ipotizzabile per piccoli paesi, trattasi principalmente di guerre civili o conflitti di frontiera.
Siamo lontani da una visione pacifista del pianeta. Le grandi potenze giocano ancora in attacco nell’innesco delle violenze e nel mostrare nuovi volti delle guerre: guerre economiche, spionaggio, attentati.
- Parlare di cambiamento ecologico e sociale, vuol dire collegare alla globalizzazione paure derivanti dalle tecnologie: un pianeta che paga a caro prezzo lo sviluppo tecnologico, e che siamo abituati a trattar male.
Lo sviluppo, porta ad un aumento esponenziale del divario esistente tra i ricchi e i poveri. I primi lo divengo sempre di più e i poveri che diventano sempre più poveri, Se ne deduce che il motore del consumismo sarà mosso da coloro che appartengono alle classi intermedie, con l’esclusione di una parte di persone, che se saranno assistiti dalla fortuna, finiranno nelle mani di istituzioni specializzate, per i quali uscire dalla condizione di povertà resterà un’utopia.
- Il cambiamento su scala demografica, si ha a partire dalla espansione demografica, che differisce a secondo dei paesi. I tassi di natalità risultano più alti in quelli sottosviluppati che nei paesi più sviluppati.
L’espansione demografica può essere vista come il rovescio di una stessa medaglia. Il fenomeno dell’emigrazione si intensifica in quei paesi in cui ogni giorno ciascuno lotta per la sopravvivenza, fino a mettere a repentaglio la propria vita alla ricerca di condizioni più favorevoli. Dall’altro, questi fenomeni generano nei paesi d’accoglienza nuovi timori: quali il turbamento degli equilibri sociali e degli stessi valori fondamentali. Evidenza del cambiamento e delle trasformazioni del pianeta stesso.
L’attenzione rivolta alle migrazioni ha una doppia centralità: da un lato la questione della sicurezza e la tutela dei posti di lavoro e dall’altra la generazione di un sentimento comune di diffidenza verso il futuro possibile e di conseguenza nei confronti delle istituzioni riconosciute che dovrebbero offrire forme di tutela e farsi garanti dell’avvenire.
L’aumento della popolazione e le previsioni future, destano non poche preoccupazioni, a partire dall’ esaurimento delle risorse e all’impegno di trovarne delle nuove che fungano da surrogato.
La principale problematica dell’ecologia è la stessa demografia.
4 – Cambiamento di scala estetico e culturale.
In tale contesto, è possibile identificare il “qui “e l’”altrove” di Augé.
Il primo nell’ Europa e l’altrove costituito dal resto del mondo. È evidente che è sempre esistito un centro del mondo, che oggi, non è quello di ieri, ha subito un’espansione e una deterritorializzazione.
La deterritorializzazione indica la condizione in cui si trovano individui, gruppi e comunità derivante dal loro spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento, temporaneo o definitivo, in molteplici “altrove “ rispetto al luogo di origine[5].
«In un certo senso, tutto circola e si trova ovunque»[6].
5- Cambiamento di scala fisico e metafisico.
L’ultimo aspetto esaminato dall’autore concerne le preoccupazioni dell’ecologia, le problematiche legate al surriscaldamento della terra, allo strato di ozono, e la presa di coscienza delle persone attraverso la diffusione delle fotografie satellitari di quanto piccolo sia il pianeta rispetto alla maestosità dell’universo.
Analizzando l’evoluzione della contemporaneità, merita attenzione la “questione” denominata cyberspazio.
Ad esso si può applicare il concetto di luogo e nonluogo, in quanto dal punto di vista empirico il non luogo è lo spazio della comunicazione, della circolazione e del consumo.
È descrittivo, dei processi di socializzazione.
La relazione che nasce nel suo interno, presenta delle similitudini con quella familiare. Si fa strada la possibilità di considerare tale spazio uno strumento di estensione delle relazioni tradizionali.
Protagonisti di esso, sono un attore sociale, dotato di identità che interagisce con altre identità creando relazioni, senza la presenza degli stessi.
Tuttavia, la trama della relazione che si consuma attraverso e dietro lo schermo, privata dell’elemento dello spazio reale, provoca una divisione tra gli altri e il sé.
Si fa spazio l’individualismo, connotato da passività e consumismo.
Elemento difficile da stabilire in siffatte relazione è il tipo di libertà permessa, che Augè equipara a quella del consumatore davanti agli scaffali del supermercato. Libertà di scelta e status economico, viaggiano in contemporaneo.
Nascondersi dietro lo schermo è un modo di gestire la solitudine, creando un profilo che non si sovrappone alla perfezione a quello reale: “si dimentica, di tutto ciò che si elimina, di tutto ciò che siamo stati, di tutto quello che abbiamo detto di essere “[7].
Il cambiamento di scala produce nuovi spazi di consumo o di transito in cui non si possono leggere le relazioni sociali.
L’utilizzo quotidiano di quelle che Augé definisce reti sociali, oltre a creare nuove forme di individualismo, generano nuovi disturbi: l’alienazione e la nevrosi.
Alla base di queste nuove forme di individualismo, non vi è l’iniziativa personale ma quasi a rappresentare una contraddizione dell’epoca attuale la difficoltà a costruire relazioni inscritte nel tempo e nello spazio. Ecco, riemergere il bisogno di luoghi per la costruzione e l’affermazione tanto dell’alterità quanto dell’identità entrando in relazione e confrontandosi con gli altri.
L’universo delle comunicazioni, regala la vana illusione di relazioni facili da costruire, caratterizzate da istantaneità, ma a quale prezzo?
“Postiamo” in rete foto, diari, pensieri, video che sono la nostra pelle, che sono la nostra essenza senza pensare agli effetti devastanti e perversi che ne potrebbero derivare e alle tragedie preannunciate. Crediamo di creare in tal modo nuovi luoghi e di inscrivere nuove relazioni, senza coniugare né un tempo, senza vivere uno spazio, elementi essenziali per la costruzione di una relazione indipendentemente dal sentimento che la sottintende.
La crisi che viviamo a livello globale ma soprattutto a livello individuale, è una crisi di valori.
Gli spazi delle tre C, circolazione, consumo e comunicazione, anziché allargare la nostra prospettiva di guardare, non solo alle cose materiali e inanimate, hanno provocato un restringimento del campo visivo e una distorsione di sguardo verso ciò che è materia, sostanza, sentimento, a ciò che è vita: al genere umano.
Il nostro modo di guardare alla crisi è caratterizzato da passività, sedentarietà e immobilità: siamo tutti spettatori del domani.
Riconoscere la crisi, ricercarne le cause, partendo dai noi stessi.
Spogliarsi dell’arroganza, e attraverso l’educazione, la cultura e il tempo per l’altro, la costruzione di una possibile soluzione.
Oggi Augé si ritrova a essere l’antropologo di un mondo planetario, un pianeta in movimento, in continua evoluzione e, per di più, fragile. E di fronte a scenari sempre più globali avverte: «È finita la preistoria dell’umanità planetaria e ora comincia la storia».
[1] M. Augé, L’antropologo e il mondo globale, Editore Culture e Società, Milano 2014.
[2] M. Augé, Cuori allo schermo, Piemme Editore, Milano 2018.
[3] M. Augé, cit. pagg. 27-28.
[4] M. Augé, Chi è dunque l’altro?, Raffaello Cortina, Milano 2019.
[5] Ugo E.M. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale, cit. pag. 175
[6] M Augé, Futuro, cit., pag. 73.
[7] M. Augé, Cuori allo schermo, cit., pag. 121.