Dalla crisi di senso alla ricerca di un valore trascendentale del concetto di fratellanza. (Ancora illuminismo in tempi difficili)

*Il sottotitolo (Ancora illuminismo in tempi difficili) è un omaggio a Salvatore Veca, scomparso proprio mentre cominciavo a scrivere questo contributo. Riprendo il titolo di un suo paragrafo nel testo Progetto 89- libertà, uguaglianza fraternità, con cui intendo confrontarmi in questa riflessione.

 

Premessa:

 

L’Enciclica Fratelli Tutti e il Documento sulla «fratellanza umana per la pace mondiale e convivenza comune», sono due testi che contengono una richiesta esplicita di dialogo e di riflessione per tutti gli intellettuali, i filosofi, artisti e uomini di cultura di tutte le parti del Globo, e questo invito, fatto da papa Francesco e dal grande imam al-Tayyeb, merita un serio impegno da parte di tutti nel corrispondere, con la riflessione e la critica, a un atto che ha innescato nel cuore di molti un anelito di cambiamenti circa l’idea di convivenza umana. Documenti che non si possono che sottoscrivere, programmi che devono essere posti con urgenza alla condivisione collettiva.

Come vedremo nel corso di questa riflessione, il concetto di Fratellanza universale si è imposto nel dibattito pubblico, e nella pubblicistica politico-religiosa, ogni volta che un evento tragico, o la fine di un equilibrio tra poteri, ha messo in tensione l’immaginario ideale su cui si basa la narrazione delle società politiche.

Così la Fratellanza è quel concetto che tutti rievocano nel momento in cui la frattura fra libertà ed eguaglianza sembra non essere facilmente ricomponibile e oggi, dopo l’attacco alle Torri gemelle, tutte le élites politiche e religiose s’interrogano intorno al suo significato, proprio come è stato dopo il crollo del Muro di Berlino e di altri momenti simbolicamente significativi della fine di equilibri politici evidenti.

 

 

Introduzione:

L’arco temporale che va dal 1989 al 2019 è stato un trentennio di trasformazioni senza precedenti nella storia umana. Dopo il crollo del muro di Berlino, l’Europa ha conosciuto una repentina serie di cambiamenti politici e sociali che hanno stravolto gli equilibri geopolitici di tutto il Globo. La riunificazione della Germania, la fine della Guerra fredda e l’affermazione del capitalismo finanziario, con i suoi cicli di crescita improvvisa e repentina distruzione di una ricchezza sempre più concentrata in mano a pochi soggetti, hanno dato l’avvio a un’inedita condizione di globalizzazione che nulla ha in comune con i sogni cosmopolitici dei filosofi della Modernità.

Con la fine dell’opposizione fra il Blocco dei Paesi dell’Ovest, culla della Libertà politica, e il Blocco dell’Est patria dell’Uguaglianza, l’Occidente si rende conto di non essere più in grado di monopolizzare il discorso politico di tutto il Pianeta, e per questo riscopre un concetto della modernità lasciato nel dimenticatoio per due secoli: la Fratellanza (universale).

 

La crisi di senso

 

Nel 1989 ricorreva il bicentenario della Rivoluzione francese e fu un proliferare di convegni, articoli e pubblicazioni in ogni parte del Globo.

Il 1989 è anche, o soprattutto, l’anno del crollo del Muro di Berlino e, con la fine della Guerra fredda, la speranza della fine dei conflitti militari globali e l’ipotesi di una nuova predisposizione morale dell’umanità. Per questo motivo mi pare interessante sottolineare come un gran numero di intellettuali occidentali dedicarono molte riflessioni al concetto più sottovalutato nei secoli dei nazionalismi e dei fascismi: il concetto di fraternità.

Nel tentativo di corrispondere alla richiesta del Papa e del Gran Imam di riscoprire «i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune […] per cercare di diffonderli ovunque[1]», confronterò due studi, a mio avviso emblematici, che mettono in evidenza la crisi di senso del termine fraternità che, da più parti oggi, si pretende di ricollocare al centro del dibattito politico, con rinnovati significati.

In prima istanza analizzerò lo studio di un teologo, appartenente a un collettivo di studiosi cattolici, che riflette dalla Patria del laicismo, la Francia, e lo confronterò, in un secondo momento, con un testo di filosofi laici provenienti dal Paese occidentale che ospita, in modo simbiotico e problematico, la sede politico-istituzionale della Chiesa cattolica, l’Italia.

 

La rivista internazionale cattolica Communio- Strumento internazionale per un lavoro teologico, nel 1989 pubblicò un numero monografico, La rivoluzione francese (n. 106 luglio-agosto 1989- Jaca Book), contenente un interessante studio di Jean-Louis Quantin sul trinomio Liberté, Egalité Fraternité a partire dalle origini religiose del termine «fraternité».

Quantin osservò che il Termine non possiede una storia coerente e lineare nel suo passare dall’accezione strettamente religiosa a quella politica moderna che lo colloca quale momento finale del Trinomio rivoluzionario.

Per questo motivo Quantin, nel tentativo di tracciarne una genealogia, è costretto a prelevare dati linguistico-lessicali da testi lontani nel tempo e nei contesti più disparati, nel tentativo di ricostruire un percorso, il più lineare possibile, dal lessico biblico dei Padri della Chiesa, passando dalle Lettere di san Paolo, e percorrendo una variegata composizione di opere di teologi e filosofi di diversi periodi storici. Il giovane teologo riesce in pochi passaggi a ricostruire il filo rosso di una secolarizzazione di lunga durata che dalle sacre scritture si riversa fino nelle pagine delle Costituzioni moderne, passando prima nei trattati dei filosofi illuministi e nei documenti ufficiali della burocrazia rivoluzionaria. Condivido con Quantin che questo transito rappresenta la logica della continuità e della coerenza della coscienza europea che approda a un lessico rivoluzionario attraverso una secolarizzazione dei termini religiosi che si tramutano in termini politici così come aveva ben visto Carl Schmitt nel 1922.

Il sociologo tedesco, infatti, afferma che il passaggio dalla teologia alla dottrina dello Stato di molti termini andava studiata sul piano «della loro struttura sistematica» perché la conoscenza di questi «è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti[2]».

La domanda implicita nel saggio di Quantin si può tradurre in questo modo: in occasione della ricorrenza del Bicentenario rivoluzionario e nell’aspettativa che la Glasnost offre di ripensare il mondo fuori dall’opposizione dei «due blocchi», in che modo possiamo tenere in equilibrio le prospettive del trinomio che campeggia fuori dei municipi francesi?

Quantin procede nell’analizzare l’importanza per i nostri tempi di una migliore valutazione della fraternità rispetto a Libertà ed uguaglianza, cosciente che, invece, nella Rivoluzione esso è stato un termine usato solo in un’accezione utopica per coprire la tensione politica fra i due concetti principali[3].

Dalla sua analisi si evince che la fraternità è un concetto che già Antoine Arnauld nel 1644 aveva tratto dal De moribus ecclesiae catholicae, testo in sui S. Agostino dichiarava che la Chiesa riunisce gli uomini in una «specie di fraternità»; un passaggio che mette al centro l’idea generale che in Cristo tutti gli uomini possono sentirsi come fratelli e sorelle. Dalla tradizione giansenista Quantin ricava con destrezza una serie di conferme alla sua verifica genealogica, spostandosi poi ad analizzare le occorrenze in autori come l’abate Fleury e Fénelon che vanno inseriti in quella schiera di intellettuali che guardavano al Trinomio «senza vedervi né temere alcuna carica rivoluzionaria[4]».

Per Quantin a parte i casi famosi del Vicario savoiardo di Rousseau, di Reynal e di Meslier, che lui nomina per far capire quanto sia stato raro anche nei filosofi illuministi il riferimento alla Fraternità, è con il Selvaggio taitiano di Diderot che si arriva a una concezione alternativa a quella cristiana del nostro termine e lo è nel senso di considerare tutti gli uomini, europei inciviliti e selvaggi che non conoscono la Rivelazione, fratelli in quanto figli della natura. In questo senso il nostro teologo ammette che la parola, come la troviamo nel lessico diderottiano, «significa che la fraternità può anche essere laicista, quando la Natura rimpiazzi il Dio cristiano con una notevole dose di buona volontà[5]».

Quantin studia il Trinomio nell’accezione dell’uso che ne fa la Massoneria, e mentre nota bene che questi tre termini non sono stati utilizzati sin dalla sua origine newtoniana di inizio Settecento, il nostro teologo vede nell’acquisizione del concetto di fratellanza per i massoni una carica utopica che funge da apertura all’idea di una nuova umanità pronta a superare le divisioni tra Stati, religioni e classi sociali.

Ovunque sia stato inserito, nella Repubblica, nella Massoneria o nella coscienza del popolo della Chiesa, il termine fratellanza mantiene una chiara connotazione interna ed esclusiva ad ognuna delle strutture che ne fa un vessillo ideale. Ognuna di queste comunità costruisce la propria identità di gruppo che consente di identificare come «fratelli» i suoi aderenti, ma solo nel senso stretto di soggetti che «fra loro» si riconoscono in modo esclusivo nel Termine, escludendo tutti gli altri uomini.

Infatti la conclusione di Quantin è che nel passaggio del termine fraternité dal religioso al politico, non è stata ottenuta alcuna universalizzazione e che, anzi, vi è stata una mera appropriazione da parte di partiti e associazioni che si sono posti in lotta contro la Chiesa e questa, per reazione, si è posta fuori dalle possibilità di contribuire, in un ambito politico laico e plurale, all’edificazione di una società Libera, uguale e fraterna.

Ora possiamo concludere, in questo primo passaggio della nostra riflessione, che lo studio di Quantin ci chiarisce che il concetto di fratellanza universale, di cui parla il cristianesimo, entra in crisi di senso già con le guerre di religione e poi, nel divenire un’accezione massonica e repubblicana, si restringe ancora di più in un’ottica sempre meno universale essendo riferita, nel primo caso, ai soli aderenti alla fratellanza muratoria e, nel secondo, ai soli cittadini rivoluzionari di sesso maschile che si riconoscono fra loro in opposizione alle classi aristocratiche e alla parte del popolo reazionario e vandeano.

Se seguendo lo studio di Quantin abbiamo potuto misurare la crisi di senso del concetto di fraternità nel suo travaso dalla connotazione strettamente religiosa a quella politica di unità fraterna repubblicana, con la lettura del testo pubblicato in Italia da Alberto Martinelli, Michele Salvati e Salvatore Veca, Progetto 89Tre saggi su libertà, uguaglianza e fraternità[6], possiamo cogliere un’ulteriore crisi che è quella della speranza che noi moderni abbiamo spesso riposto nell’idea stessa di Politica.

Alberto Martinelli, nella sua breve analisi[7], circoscrive la fratellanza quale concetto politico «soprattutto come fraternità nazionale», che si afferma quale valore a difesa dell’unità della Repubblica. Secondo il nostro autore la fraternità non è inscrivibile nella teoria liberale ma si configura più come una trasposizione del primo cristianesimo nell’ideale socialista, e nella Francia rivoluzionaria è figlia dell’influenza di Rousseau nel ’93 e non di Voltaire dell’89. Soprattutto «le radici della fraternità sono da ricercare sia all’interno della famiglia, del clan, della razza, cioè in fattori genetici sanzionati socialmente, sia nella religione, cioè in un vincolo di un’appartenenza di un ecclesia o una setta […]», e per questo è facile dedurre che il “politico” della fraternità è tutto diretto alla fondazione e giustificazione della nuova idea di Nazione moderna, e che la secolarizzazione del termine religioso non andava oltre un sentimento di appartenenza al partito, allo Stato o all’identità culturale di un popolo.

La ricognizione genealogica del Trinomio si era resa necessaria in un tempo politico di grandi cambiamenti e incertezze: la Glasnost faceva intravedere la resa dei conti fra i due blocchi contrapposti, l’Ovest «liberale» che sentiva di essere la realizzazione delle aspirazioni della Rivoluzione francese nel senso della libertà e l’Est comunista che aveva interpretato la via dell’uguaglianza.

Immaginare una ricomposizione delle parti avverse della Guerra fredda già prima del crollo del muro, portava molti intellettuali a riconsiderare la fratellanza quale dimensione di incontro fra le due sponde dell’ideologia illuminista. Più individualismo liberista o più comunitarismo socialista? La fraternità sembrò ad un punto una misura che portasse equità per l’Occidente.

Ma questo concetto è inservibile sia per immaginare l’universale religioso, visto che i teologi sanno bene che ogni fraternité è pensabile solo all’interno di una definita rivelazione che è «l’unica vera», sia per pensare l’universale politico che, senza i due blocchi, ha riacceso la fratellanza nazionalista e regionalista di comunità sempre più chiuse nell’idea di razza e di tradizione culturale, alla ricerca di narrazioni identitarie escludenti ogni idea cosmopolitica.

Insomma la riflessione dell’89 sulla fratellanza non è riuscita a emancipare il significato del terzo termine rivoluzionario dall’idea che gli uomini posso essere fratelli grazie a un Padre celeste che è solo quello del libro giusto e, ancor peggio, che si può essere fratelli nella città dell’uomo solo se si condividono sangue e narrazioni originarie comuni.

Così i nostri intellettuali laici sentirono il bisogno, nel 2009, di ripubblicare il testo rimettendo in gioco le loro considerazioni sulla «fratellanza universale» venti anni dopo alla luce degli avvenimenti tragici del nuovo millennio.

Con il crollo delle Torri gemelle l’Occidente e i suoi intellettuali si sono accorti che la visione dell’umanità che era stata al centro delle riflessioni novecentesche, ovvero di una contrapposizione tra le Weltanschauungen, ossia tra la visione liberale e quella comunista, non poteva più spiegare la complessa articolazione dell’intera umanità. Oggi, anche grazie al ruolo che è giocato dalle nuove tecnologie e ai sistemi di informazione, la comunità globale si trova a vivere in un continuo confronto e scontro inedito per la storia dell’umanità. In un Mondo improvvisamente troppo piccolo, interconnesso ed emotivamente scosso dall’ibridazione fra linguaggi e culture, le spiegazioni della modernità filosofica occidentale non sono più l’unico referente per la convivenza tra i popoli, ma neanche i monoteismi sono più in grado di plasmare la coscienza di uomini in continuo movimento e migrazione senza più una comunità di destino e di appartenenza.

Nel dibattito contemporaneo il concetto di libertà nell’arena globale ha spesso accezioni semantiche problematiche, e c’è una concreta difficoltà a concepire l’uguaglianza quando le differenze tra Nord e Sud del mondo, e tra la parte ricca e la parte povera dell’umanità si fanno sempre più evidenti. Per questo se da una parte sono comprensibili le ragioni del Documento sulla «fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», dall’altra non posso non osservare che l’idea di un valore trascendentale del termine «fraternità» non si può affermare a seguito di un semplice accordo fra le élite politico-religiose del mondo e, ancora meno, si può pensare di edificarla attraverso i dibattiti filosofici di intellettuali accademici o afferenti a think tank del mondo finanziario.

 

Esiste, nella coscienza dell’uomo globalizzato, un valore trascendentale su cui sostenere il concetto di Fratellanza Universale?

Il Documento redatto ad Abu Dhabi viene esplicitamente sottoposto alla discussione pubblica: «Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle Università […] al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace difendendo ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi […] questa Dichiarazione sia un invito alla riconciliazione e alla fratellanza tra tutti i credenti, anzi tra i credenti e i non credenti, tra tutte le persone di buona volontà[8]»

Questo invito è condivisibile e subito sottoscrivo la necessità di questa nuova opportunità per cambiare le prospettive di convivenza degli uomini sul Pianeta. Non posso, tuttavia, non notare che l’invito è rivolto a «tutti i credenti, anzi a tutti i credenti e non credenti» che è una formula tanto inedita, dal punto di vista di un leader religioso, quanto resta distante da una vera proposta universalizzante. Soprattutto se questa proposta deve diventare «oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole e le Università», in queste scuole e Università avremmo bisogno di portare questa proposta su basi più solide di un auspicio di matrice confessionale.

Concordo con le osservazioni di Mario Reale nel saggio che ha pubblicato in questo stesso dibattito (vedi supra): il Documento di Abu Dhabi e la seguente Enciclica possono muoversi coerentemente ai propri assunti solo se presuppongono un fondamento di laicità valido e condiviso nello Spazio politico globale, mentre il suo contenuto permane nella logica di una presunta prevalenza del piano etico-religioso.

Questa sfasatura, descritta molto bene da Reale, non è l’unico piano su cui mi interessa proporre una riflessione, il mio intervento muove dal convincimento che non si può pensare a un «valore trascendentale» capace di fondare una nuova idea di Fraternité, se questo non è in grado di superare ogni esperienza particolare e porsi come condizione primaria per ogni adesione possibile per qualunque soggetto senza porre nessun’altra definizione di uomo che non sia quella di essere appartenente alla specie umana.

La mia critica tenta di mettere in luce le difficoltà che hanno le élite religiose e politiche a misurarsi con il cambio di paradigma che la globalizzazione tecno-finanziaria ha imposto alla nostra civiltà. La comunicazione digitale ha superato ogni confine, sta unificando i costumi e plasma i desideri con una velocità mai vista prima, ognuno di noi vive due realtà esistenziali: quella tradizionale della propria comunità politica e quella virtuale di una interconnessione planetaria digitale dove la vita di ognuno sembra non avere più confini di tempo e di spazio.

A questo uomo nuovo, come è possibile parlare ancora come se ci si rivolgesse al proprio concittadino o correligionario?

Oggi gli uomini sono coscienti dell’esistenza di una pluralità di culti, di lingue, di Stati di costumi e stili di vita, che non sono raccontate da qualche romanzo o descritte in qualche libro di viaggio ma sono la nostra realtà quotidiana di frequentatori dell’infosfera. L’interazione orizzontale con l’altro è sempre più l’evidenza del nostro tempo, inutile nascondere che, a queste condizioni, ogni intermediazione è deprivata della sua autorevolezza. In questo clima appellarsi all’umanità intera partendo da un punto di vista particolare a me pare una prospettiva alquanto debole.

Così mentre i leader religiosi e capi di Stato ancora misurano le parole dentro uno schema di pluralità di linguaggi e di identità, la tecno-finanza, che si muove nello spazio del «WWW», ha trasceso qualunque differenza ponendosi quale elemento di superamento ed omologazione di linguaggi e di costumi. La promessa suadente dell’infosfera è stata quella di eliminare ogni intermediazione e di creare un modello di esistenza autonoma di contatto diretto tra gli uomini. Un modello che, al contrario delle sue promesse, non ha liberato l’uomo dal bisogno e dalla sottomissione al potere politico-religioso, ma lo ha reso ancora più succube ad un sistema che lo sottomette facendo leva sui suoi desideri e lo ha trasformato nel devoto consumatore prono al cospetto del dio del Mercato.

Per questi motivi, il modo per trovare una dimensione fraterna fra tutti gli uomini deve essere dimensionato alla tragica nuova esperienza a cui noi tutti siamo soggetti: la fragile atomizzazione dell’individuo moderno, isolato e frastornato difronte la terribile potenza globale della tecnica.

Abbiamo bisogno di un’idea di Uomo che sia davvero universale, che sia riconoscibile da qualunque individuo-atomo nel mondo, e per questo non possiamo partire dalla dicotomia credente-non credente, o della fraternità per discendenza di uno stesso Padre che si è rivelato in diverse modalità in diversi tempi nella Storia a una parte minoritaria dell’umanità.

Sin dalla Premessa, il Documento contiene evidenti limiti assiologici che creano subito un problema di stratificazione del concetto di «umano» a partire da gradi di maggiore o minore adesione di questo all’idea di «creato».

 

Figli di una stessa madre.

Il testo del Documento comincia dall’assunto che «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere»; questo è esattamente il limite che abbiamo tutti presente nel concetto di fratellanza chiusa in una «setta» che al massimo «salvaguarda», «sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Questo non è un «valore trascendentale» come pretendono il Papa e l’Imam, al massimo questo è un sentimento di benevolenza che la parte di umanità più fortunata deve concedere a quella più sfortunata e a quella che non è toccata dalla Grazia misericordiosa del Padre.

Un concetto di Fraternité che possa fondarsi su un «valore trascendentale» può avere senso solo se si superano le concezioni storiche del termine così come le ha studiate Quantin nel passaggio dal religioso al politico.

Se si dice che «Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani- uguali per la Sua Misericordia-, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana» c’è il fondato rischio che il «non-credente» e «l’ateo» non siano vincolati al reciproco rispetto di questa fratellanza umana. «La fede in Dio» resta comunque un atteggiamento, un sentimento, una posizione spirituale che non assicura nulla sull’eguaglianza e sulla reciprocità delle intenzioni umane.

Il Documento, mentre indica la necessità per l’umanità, mostra la limitatezza di un messaggio che si rivolge al novero dei «credenti», immaginando di poter coinvolgere l’intero Globo che, invece, resta drammaticamente diviso dagli interessi economici e politici di Stati e multinazionali, che si vanno ad aggiungere alle tensioni identitarie che proprio le religioni hanno sempre alimentato. Da questo punto di vista, anche il «progetto 89», l’utopia laica della modernità, delle “repubbliche sorelle» ha sancito l’impossibilità della «fratellanza» come fondamento ideale-generale di un progetto meramente politico-costituzionale.

Difronte a queste difficoltà c’è ancora una possibilità per dare un fondamento trascendentale a un concetto che è stato così poco rappresentativo della civiltà umana fino ad oggi. Non certo possiamo fondare alcunché sul concetto abusato ed equivoco di natura, ma è possibile sul più solido ed evidente trascendentalismo biologico[9], che rende ogni uomo semplicemente uguale ad ogni altro in quanto appartenente alla specie umana e che condivide lo starci al Mondo con tutti i suoi simili e con tutti i viventi. Questo assunto non ha nulla a che vedere con i fattori genetici, derivanti da famiglia e razza, sanzionati da religione e politica come aveva ben spiegato Martinelli, ha, invece, a che fare con la ricerca di una radice essenziale di ciò che è «umano», secondo una tradizione illuministica che ha cercato di comprendere davvero l’uomo nella propria realtà di essere vivente, di animale e di ente biologico.

Proprio come aveva ben detto Rousseau bisogna prima comprendere l’uomo per quello che è e poi pensare le leggi per come devono essere. Allo stesso modo noi dobbiamo considerare l’uomo con le sue necessità di autoconservazione, di bisogni primari, di desideri esistenziali, e di prospettive di realizzarsi in quanto soggetto unico ed irripetibile; insomma considerare ogni individuo in quanto ente materiale con un proprio posto in questo Globo che gli spetta allo stesso modo in cui spetta a chiunque altro. Affermare l’uomo per quell’animale che è ci costringe a immaginare il modo in cui dobbiamo costruire la società globale: un luogo dove ognuno possa trovare il proprio posto.

Così, nel dire che tutti i viventi sono usciti dal grembo materno e vengono nutriti dal corpo materiale della madre Terra, stiamo già dicendo, ad esempio, che le risorse del Pianeta devono essere di tutti e per tutti. Significa che la «questione ecologica» non può essere sottomessa ad accordi tra parti, ma deve diventare un imperativo per ognuno.  In questo modo stabiliamo a priori che se ci deve essere un accordo, questo sarà solo quello che contempla la realizzazione e la felicità per ognuno, per ogni singolo soggetto prima che di ogni cultura o comunità. Per quale strampalato motivo si può immaginare una sola singola persona che si voglia sentire affratellata ad un altro in una modalità che lo renda inferiorizzato o subalterno?

L’essere prima uomini che credenti è la condizione trascendentale per la fratellanza universale. Non vedo nulla di più universale che l’appartenere alla specie umana, non penso nulla di più trascendentale di ogni mia esperienza che pensarmi unito al genere umano nel destino comune dell’esistenza nel Cosmo.

La mia riflessione, a queste condizioni, si pone in contrasto con la tesi di Debora Tonelli che abbiamo letto nelle pagine precedenti: la nostra teologa parte dal punto di vista dell’Enciclica in cui il Papa sa bene che «Parlare di “fratellanza” è cosa diversa che parlare di “specie umana”. Radicalizzando la questione, la parola “fratellanza” rimanda a relazioni di familiarità e intimità, mentre la parola “specie”, con i suoi echi darwiniani, può rimandare (anche, ma non solo) alla competitività della sopravvivenza. In realtà, quanto il Pontefice pone come presupposto delle riflessioni successive ha solo apparentemente una pretesa di oggettività e ovvietà: se è vero che ciascun individuo appartiene alla specie umana, non è altrettanto vero che tale specie sia una comunità fraterna né che ciascun individuo si senta parte di una simile comunità» (Cfr. supra Tonelli)

Proprio qui sento la necessità di aprire un confronto: non è una questione di echi darwiniani[10] ma, al contrario, è proprio per il «fatto» di aver chiaro la natura competitiva di specie (dell’Homo sapiens) che ci possiamo permettere di affermare che è giunto il momento di dover riflettere sul nostro ruolo di occupante invasivo e distruttore del Pianeta. Da questa riflessione, e dall’invito al confronto che è meritoriamente l’esplicito valore del Documento e della Enciclica, noi dobbiamo rispondere che questa umanità può, per effetto della propria natura perfettibile, essere in grado di comprendere che la Fraternità è lo stadio più conveniente e più consono per un futuro di convivenza e «sopravvivenza».

Abbiamo bisogno dunque di far rinascere una filosofia della storia che, partendo criticamente dalla memoria condivisa di millenni di scontri fratricidi (guerre, olocausti e colonialismi), sia in grado di ragionare intorno a un lessico comune, e da qui immaginare la possibilità per un cambio di paradigma dove fratellanza sia davvero «l’esito di un impegno continuo per il bene dell’altro[11]». La base comune è l’uomo e una volta compresi a fondo i suoi bisogni vitali, si può costruire una civiltà che prenda sul serio le aspettative di felicità anche del Pharmakos del nostro tempo.

 

Già Norberto Bobbio aveva notato che «[…]la filosofia della storia è la riflessione sul destino dell’umanità nel suo complesso, [e che] il luogo di origine delle filosofie della storia sono le grandi catastrofi dell’umanità. La filosofia della storia, come riflessione sistematica è nata proprio grazie all’ideale politico insito nel Trinomio durante la Rivoluzione francese […][12]», e con questo noi confermiamo che la conflittualità fra gli uomini è un elemento costitutivo della nostra specie che si è evoluta nella pratica della guerra, dalla conflittualità tra piccoli villaggi fino alla guerra mondiale per gli interessi di Stati, e di grandi gruppi finanziari. Così con Bobbio possiamo concordare che per dare un senso alla storia umana bisogna saper rispondere alla domanda «qual è il fine ultimo della storia?», forse è la sua autodistruzione? Forse la salvezza in una vita oltre la dimensione terrena? Ma se ci poniamo l’obiettivo di una convivenza fra gli uomini pensando la Dignità di ogni vivente quale orizzonte di senso, allora abbiamo bisogno di rovesciare la tradizionale visione della fraternità biblica e della concezione politico-religiosa che ne hanno le culture mediterranee. Abbiamo, invece, necessità di pensare una fraternità su base cosmopolitica dall’uomo per l’uomo, in quanto figli tutti di questa Terra madre.

 

Conclusioni: riconoscere i diritti umani.

 

Il concetto di fraternité è decisamente ambiguo, sia che lo si voglia cogliere nella sua genealogia storico-politica, sia che lo si voglia riferire a qualche categoria teologica.

Eppure concordo con il Papa e l’Imam nell’avvertire la necessità di un suo aggiornamento nel senso di una prospettiva di nuova dimensione per una convivenza pacifica e solidale fra tutti gli uomini.

Sono altresì convinto che ognuno degli attori in campo, di questo dibattito, sia motivato al medesimo obiettivo, ora si tratta di trovare un Lessico critico comune per smontare la conflittualità e la violenza che hanno caratterizzato gli uomini nel loro processo storico. Un tale Lessico è già attivo dal 1948 grazie alla Dichiarazione dei diritti umani che prevede nel suo primo articolo che «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Come si evince dalla lettura dell’articolo si parla di «tutti gli esseri umani» (dunque maschio-femmina, di qualunque colore o provenienza geo-politica)[13], e già prevede che in nome dell’appartenenza alla specie dei viventi denominata «essere umani» essi devono «agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

Questo è un lessico che «riconosce», e non «concede» dall’alto in un moto caritatevole di un’autorità bonaria, i diritti che ogni individuo già possiede in virtù della sua condizione di essere un uomo. Il Papa e l’Imam «semplicemente» possono riconoscere i Diritti umani che sono stati «dichiarati» nel 1948 senza riserve e senza per questo mutare il loro sentimento di devozione all’Unico Dio a cui entrambi si riferiscono. La Dichiarazione è già universale, si riferisce proprio a tutti e non è promulgata né creata da nessuno, è appunto un «riconoscere» un dato di fatto.

La fratellanza universale è già la realtà di ogni uomo che è in grado di vederla e desideroso di condividerla come base per una nuova prospettiva per l’umanità.

 

NOTE

[1] AA.VV, Fratellanza– La Civiltà Cattolica, Roma 2020, p.192

[2] Carl Schmitt, le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, Pag. 61.

[3] Quantin nel 1989 non possedeva gli strumenti tecnologici che abbiamo noi oggi, gli dobbiamo una conferma alla sua tesi grazie allo studio del prof. Cesare Vetter dell’Università di studi di Trieste che ha pubblicato una ricerca alla luce delle nuove potenzialità̀ di ricerca aperte dalla digitalizzazione delle fonti e dalla messa in campo degli strumenti della linguistica computazionale. Il lavoro di Vetter conferma che numero di occorrenze è modesto, non solo rispetto alle altre due parole della devise républicaine, ma anche rispetto a gran parte delle parole ad alto contenuto socio-politico del periodo rivoluzionario. Vetter in Fraternità, rivoluzione francese e linguistica computazionale ci fornisce un dato preciso relativo ai documenti fino ad oggi digitalizzati e che mostrano come «l’interrogazione delle Archives parlementaires con PhiloLogic4 (PhiloLogic4 Databases) evidenzia 59429 occorrenze di «liberté», 13508 occorrenze di «égalité» e 3243 occorrenze di «fraternité[3]». (Cesare Vetter, Fraternità, rivoluzione francese e linguistica computazionale, in Endoxa – Prospettive sul presente, 3, 13, Maggio, 2018, pp. 27-33.

[4] AA.VV., La Rivoluzione Francese, Communio-strumento internazionale per un lavoro teologico, n 106, luglio-agosto 1989, Jaca Book, Milano 1989, P.61.

[5] Ivi p.63.

[6] Alberto Martinelli, Michele Salvati, Salvatore Veca, Progetto 89- tre saggi libertà, uguaglianza e fraternità, Il Saggiatore, Milano 2009.

[7] Ivi, p 42.

[8] Fratellanza op cit.197.

[9] Mutuiamo il concetto di «trascendentalismo biologico» dalla riflessione di Paolo Quintili sull’«emergere dell’io» nella filosofia illuminista degli enciclopedisti, in particolare nel materialismo di Diderot, e la estendiamo alla nostra riflessione sulla Fratellanza universale: «[l’individuo] Il pensante (agente, senziente), è in cerca e dà una legittimazione di sé nel (e attraverso) il conoscere nel mondo del finito empirico, riconosciuto in quanto tale, nel suo insieme, come un finito determinato dalle leggi della natura e della materia. In quanto individuo concreto, questo “pensante” è nella pienezza esperienziale della natura, deve confrontarsi con essa senza esitazioni teoretiche o teoreticistiche. […]» (cfr. Paolo Quintili, Il pensiero critico di Diderot, in Denis Diderot, opere filosofiche, romanzi e racconti, a cura di P. Quintili e V. Sperotto, Bompiani editore, Milano 2019, p. XVII). Ma egli è, nello stesso tempo «infinito», aperto e indeterminabile in quanto soggetto biologico universale, in quanto «specie». Grazie a questa capacità di ogni singolo uomo di sapersi nel mondo, di conoscere il proprio ruolo sul pianeta in qualità di un «essere», fra i tanti, connesso indissolubilmente al destino del Pianeta, che possiamo sperare che ognuno si riconosca figlio della madre terra e dunque fratello di ogni essere vivente. Questa conoscenza del nostro posto nel cosmo è una conoscenza di «specie», qualcosa che si è sedimentata nell’esperienza, nella cultura, nella nostra evoluzione di specie. L’umanità si è evoluta assecondando e comprendendo le leggi di Natura che sente essere un «proprio sapere» e da questo sapere fa derivare la comune coscienza di specie.

[10] Non riesco, data la natura di questo saggio, ad approfondire l’argomento, ma desidero qui chiarire che ritengo che non esista una connessione necessaria fra la teoria biologica di Darwin e il darwinismo sociale di H. Spencer. Da questo, in generale, ritengo che non si possa dimostrare in alcun modo che una teoria biologica contenga un’opzione sociologica obbligata, e per questo rigetto ogni «biologismo politico» che a me pare spesso una forzatura funzionale sempre a giustificare il potere costituito e il razzismo culturale. Diversamente il sopracitato «trascendentalismo biologico» è la presa d’atto della natura materiale dell’uomo come vivente e che gli conferisce una «sostanza» certa in quanto individuo partecipante la vita terrena: l’individuo è l’idea-concetto del singolo vivente (animale-uomo ente-finito originale e irripetibile).

[11] Ancora D. Tonelli (vedi supra)

[12] Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, P.31.

[13] A confermare l’universalità del Primo Articolo è il Secondo, che così recita: «Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità».

 

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