«Dov’è tuo fratello?» note a margine alla terza enciclica di Papa Francesco
di Debora Tonelli
Fratelli tutti è il titolo e l’incipit della terza Enciclica di Papa Francesco. L’espressione è ripresa dalle Ammonizioni di San Francesco, «per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo». Tra i consigli offerti dal santo di Assisi, il Pontefice ne evidenzia subito uno che ritiene essenziale: «l’invito all’amore al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (§ 1). Quest’idea, non nuova nella tradizione evangelica, implica un radicale ripensamento nella gestione delle relazioni umane e del loro contributo allo spazio politico. Se è vero che ogni teoria politica si basa su una visione dell’essere umano e delle sue relazioni, il concetto di “prossimo” è essenziale. A partire da una visione radicalmente teologica, secondo la quale l’essere umano esprime il suo amore per Dio attraverso l’amore per gli altri, il Pontefice invita a una profonda riflessione sul concetto di “prossimo”, di “altro” che non può essere circoscritto alla vicinanza culturale, geografica, politica, ma deve radicarsi nella consapevolezza di una più ampia appartenenza alla famiglia umana. Il prossimo è “ciascuno”, cioè “chiunque”. Questa visione impone di tralasciare ogni altra logica basata sull’interesse economico e politico o sulla distanza geografica e culturale. Non esiste “confine” né limite che non possa essere superato a partire dal riconoscimento dell’appartenenza alla comune famiglia umana.
Una visione inclusiva che, seppure ovvia all’interno della tradizione cristiana (anche se non sempre realizzata), ha implicazioni politiche sulle quali vale la pena soffermarsi. Pensiamo – lo anticipo solo – alla traduzione della fratellanza in cittadinanza globale e a come essa potrebbe influenzare la gestione dei flussi migratori, il concetto di appartenenza nazionale, la distribuzione e l’uso delle risorse naturali, solo per citare alcune questioni. Il lessico pastorale dell’enciclica non dovrebbe, quindi, legittimare il suo accantonamento alla cerchia dei credenti né costituire di per sé un limite per l’interpretazione del “prossimo”. Al contrario, tale lessico può contribuire a mettere a tema il linguaggio utilizzato nel dibattito pubblico: il nostro modo di indicare l’”altro” e il mondo di relazioni al quale apparteniamo è essenziale alla nostra consapevolezza circa il modo in cui abitiamo queste relazioni. Il lessico che utilizziamo svela qualcosa di noi prima ancora di dire qualcosa dell’“altro”.
La consapevolezza del nostro modo di abitare lo spazio pubblico è uno dei temi portanti dell’enciclica e di questa sezione, che raccoglie saggi di studiosi, afferenti a ambiti disciplinari diversi, impegnati a riflettere su alcune questioni sollecitate da Fratelli tutti. Ciò indipendentemente dal fatto di riconoscersi o meno come appartenenti alla tradizione cristiana. Del resto, l’enciclica è rivolta a tutti e non solo ai membri della comunità ecclesiale: «pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà.» (§ 7). Non solo. Alla base di questi studi vi è il riconoscimento del fatto che Fratelli tutti solleva questioni che non possono essere ignorate né messe da parte solo perché sollevate da un leader religioso. L’importanza delle questioni trattate è data dalla loro capacità di cogliere le urgenze del nostro tempo e non dall’appartenenza politica o religiosa di chi le pone. Accogliere queste sollecitazioni non significa legittimare l’eventuale ingerenza di una religione nel dibattito pubblico, ma riconoscere l’importanza della posta in gioco. Dovrebbe inoltre far riflettere il fatto che a proporre una riflessione sulle ricadute globali delle problematiche affrontate sia un leader religioso e non politico, interessato a comprendere le dinamiche profonde che sottendono la politica internazionale, i mercati, la politica dello scarto, i nuovi strumenti comunicativi, la realizzazione dei diritti umani. Al di là delle singole “tendenze” che il Pontefice individua, ciò che sembra essere realmente in gioco è l’essenza della politica: la sua capacità di produrre visioni e di essere realmente arte architettonica. Ciò in un mondo in cui la possibilità che le nostre scelte abbiano ricadute spazio-temporali distanti da noi dovrebbe sollecitare un maggiore senso di responsabilità e una più attenta pianificazione.
In questa breve nota intendo soffermarmi su due punti che mi sembrano imprescindibili per ogni successiva considerazione: il primo è il punto di vista a partire dal quale il Pontefice offre le sue riflessioni, cioè il Vangelo; il secondo consiste nel ruolo della spiritualità nella sua visione politica. Entrambi trattano non tanto i contenuti del documento, ma la prospettiva e il modo in cui Papa Francesco li costruisce. Questi punti potrebbero essere superficialmente etichettati come caratteristiche intrinseche al cattolicesimo. Tuttavia, se facessimo così, rinunceremmo a riflettere sul modo in cui essi possano costituire una risorsa per la riflessione politica. Pensiamo, per esempio, agli autori che il Pontefice nomina al termine dell’enciclica come fonti di ispirazione per le sue riflessioni: Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi, Charles De Foucald. In modi e stili diversi costoro hanno rivoluzionato la lotta politica partendo da una riflessione radicale della propria spiritualità. Cambiare sé stessi per cambiare il mondo.
Il punto di vista
«Senza la pretesa di compiere un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che viviamo, propongo soltanto di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (cap. I, & 9). Con queste parole Papa Francesco apre il primo capitolo dell’enciclica che, pur mantenendo una struttura classica, si distingue per il tono colloquiale e interlocutorio. Del resto, già nell’Introduzione il Pontefice aveva lodato l’atteggiamento di san Francesco che «non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio». Questa enciclica, infatti, non vuole imporre una verità dottrinale, né inaugurare una disquisizione dialettica su qualche teoria teologica o filosofica. Essa, piuttosto, vuole ricordare la comune appartenenza alla comunità umana e l’importanza di darne testimonianza nella quotidianità delle nostre azioni. Questo atteggiamento è del tutto coerente con quello degli autori biblici, i quali non producono trattati né disquisizioni teologiche ma mettono in scena la propria esperienza di fede attraverso racconti, canti e poesie: dare l’esempio per ispirare e formare le coscienze. Nella varietà e unicità degli esseri umani, l’auspicio è che ciascuno trovi il proprio modo di incarnare l’appartenenza alla famiglia umana.
Certamente questa posizione di partenza è espressione di una precisa visione dell’essere umano e, come tale, suscettibile a essere messa in discussione. Parlare di “fratellanza” è cosa diversa che parlare di “specie umana”. Radicalizzando la questione, la parola “fratellanza” rimanda a relazioni di familiarità e intimità, mentre la parola “specie”, con i suoi echi darwiniani, può rimandare (anche, ma non solo) alla competitività della sopravvivenza. In realtà, quanto il Pontefice pone come presupposto delle riflessioni successive ha solo apparentemente una pretesa di oggettività e ovvietà: se è vero che ciascun individuo appartiene alla specie umana, non è altrettanto vero che tale specie sia una comunità fraterna né che ciascun individuo si senta parte di una simile comunità. Se così fosse, del resto, non avrebbe sentito la necessità di scrivere questa enciclica in cui la prospettiva di partenza costituisce anche il fine, ovvero la necessità di realizzare tale fratellanza. Del resto, lo stesso Pontefice più avanti ricorda la domanda scabrosa che Dio pone a Caino (Gn 4, 9): “Dov’è tuo fratello?” dalla quale Caino tenta di schermarsi rispondendo con un’altra domanda “Sono forse io il custode di mio fratello?”. La fratellanza che l’enciclica pone come oggetto di riflessione non è determinata dalla consanguineità e non costituisce qualcosa di automatico, ma è l’esito di un impegno continuo per il bene dell’altro. Del resto, anche gli autori biblici non si fanno illusioni e la prima coppia di fratelli consanguinei narrata nel Genesi tradisce l’essenza del loro legame. Nel Vangelo poi Gesù indica come fratelli e sorelle quanti compiono la volontà del Padre (Mc 3, 31-34; Mt 12, 46-50; Lc 8, 19-20).
La fratellanza è, quindi, una scelta che, nella visione francescana assunta dal Pontefice, si realizza riconoscendosi parte di un mondo di creature che include la natura così come gli altri membri della nostra specie. In continuità con la tradizione ignaziana, essa è il tentativo di guardare il mondo e chi lo abita con gli occhi di Dio. Questo è il fondamento teologico a partire dal quale Papa Francesco riflette sulle relazioni sociali «affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole.» (§ 7). Quattro elementi emergono con chiarezza: il primo è il considerare le proprie convinzioni cristiane come un punto di vista in mezzo a altri possibili. Il secondo è l’apertura al dialogo con quanti abbiano il desiderio di affrontare i temi proposti nell’enciclica. Il terzo è la visione circa le ricadute globali delle questioni. Il quarto è il decentramento dello sguardo: in primo piano ci sono i problemi delle periferie e non gli interessi del “centro”.
I primi due elementi sono tra loro strettamente connessi: il fatto di riconoscersi in una tradizione religiosa non dovrebbe costituire un limite ma un punto di partenza per il dialogo tra identità diverse. Ciò non solo perché chiunque, nel parlare, lo fa a partire da un certo punto di vista (sia esso esplicito o implicito), ma anche perché chiarirlo è un’assunzione di responsabilità e di rinuncia alla retorica. Il dialogo può realizzarsi solo se in gioco ci sono identità diverse e, paradossalmente, nella misura in cui è possibile che si instaurino contrapposizioni e tensioni. Il senso ultimo non è la vittoria su un avversario ma la promozione del bene comune, cioè qualcosa che travalica le identità a confronto. Di fronte alla ricerca della verità è necessario abbandonare le barriere difensive e superare ogni forma di individualismo. La dimensione spirituale si traduce così in una presa di posizione sociale e politica: «dov’è mio fratello?» è la domanda che dovrebbe guidare la scelta del bene comune.
Per quanto concerne il terzo elemento, ovvero l’attenzione alla ricaduta globale delle questioni, possiamo interpretarlo come la rottura con tutte quelle forme di globalizzazione che, di fatto, si sono realizzate come nuove forme di colonialismo. Gli obiettivi polemici sono l’economia e la finanza globalizzate, che provocano conseguenze, spesso dannose, in luoghi lontani da quelli in cui si gioca la vera partita degli interessi. L’iperconnessione garantita da internet, poi, non ha migliorato la qualità delle relazioni e non ci ha resi più vicini a coloro che sono diversi da noi: le nuove possibilità di comunicazione non ci hanno resi meno razzisti né più disposti a conoscere gli altri. Tuttavia, il problema non sono né l’economia, né la finanza né internet, in quanto strumenti utili a migliorare la qualità delle nostre vite. Il vero problema “siamo noi”, cioè i criteri e gli obiettivi che guidano le nostre azioni, la consapevolezza del fatto che “chi più può, più a responsabilità”.
Il quarto elemento, direttamente collegato al terzo, è il decentramento dello sguardo: in primo piano ci sono i problemi delle periferie e non gli interessi del “centro”. La tradizione coloniale ha legittimato per lunghi secoli il fatto che Paesi militarmente e tecnologicamente forti imponessero la loro supremazia anche in ambito culturale, stabilendo criteri in base ai quali alcune culture sono superiori rispetto a altre giudicate sottosviluppate. Ciò che era diverso dalla cultura dominante, diveniva automaticamente inferiore e non necessario. Questa mentalità ha legittimato la distruzione di interi popoli e culture, la cui dignità e bisogni non sono stati mai riconosciuti. Spostando lo sguardo dal centro alle periferie, Papa Francesco opera una vera rivoluzione culturale che, se accolta, non può non avere profonde implicazioni politiche e sociali. Il Vescovo di Roma viene “dai confini del mondo”, come lui stesso ha dichiarato salutando la folla che lo acclamava appena dopo l’elezione al soglio pontificio [ref] Francesco, Primo saluto del Santo Padre, 13 marzo 2013. [/ref ]. L’origine periferica è diventata fin dall’inizio la fonte per ripensare l’agire della Chiesa e la politica mondiale: trasformare le periferie nel “centro”, nel cuore della missione di quanti hanno responsabilità politiche. Mettere al centro “gli ultimi” non è solo un atto di carità né solo un atto di coerenza evangelica: significa rivoluzionare il “sistema –mondo”, mettere in discussione il fatto che l’essere umano non abbia alternative alla dominazione degli altri, ripensare priorità, paradigmi, finalità e aprirsi a un futuro inedito. Non solo: trasformare le periferie in “centro” significa mettere in pratica quanto affermato dai diritti umani, ovvero la dignità di ogni persona che abita questo mondo, indipendentemente dalla sua possibilità di entrare in relazioni di forza e dalla sua capacità argomentativa. L’esigenza sottesa a questa rivoluzione non consiste solo di nuove pratiche, ma di un nuovo pensiero politico che abbia come presupposto e fine l’essere umano, non nella sua deriva individualista ma nella sua fecondità relazionale che, sola, favorisce il bene comune e la piena realizzazione di una politica che non sia mera negoziazione di interessi.
La spiritualità come progetto politico
A leggerla con attenzione, Fratelli tutti non è solo la presa di posizione e l’offerta al dialogo di un Pontefice, ma la richiesta di una profonda revisione del programma politico mondiale. Colpisce che nel panorama internazionale non sia un leader politico a mettere sul tavolo della discussione una visione globale del sistema – mondo, ma un leader religioso. Forse la risposta è contenuta proprio in una delle critiche che il Pontefice muove alla politica contemporanea, ovvero la mancanza di una visione, la sua incapacità di essere arte architettonica e di essersi trasformata in un mercato di interessi. Se è così, la spiritualità di cui si nutre il Pontefice deve tradursi in pratica politica, perché per cambiare la politica dobbiamo prima cambiare l’essere umano.
Questa enciclica, come le precedenti, è l’esito di un lungo cammino spirituale che ha intrinsecamente a che fare con l’appartenenza alla Compagnia di Gesù. Il Pontefice si pone come uomo di Dio, ma non al posto di Dio. Nel percorso di formazione spirituale, l’accento sull’umanità di Cristo fa scoprire a ciascuno il progetto di realizzazione della propria umanità alla luce di Gesù, ma nella propria irripetibile unicità. È nella riscoperta del proprio valore – non come deriva narcisista ma come atto di amore di Dio – che l’essere umano si riscopre come progetto di Dio per l’umanità. A partire da questa visione antropologica nessun essere umano può esserci estraneo. L’ “altro” è il mistero che rende possibile il realizzarsi del nostro progetto in modi che non abbiamo previsto e ci insegna che non tutto è in nostro potere.
In continuità con la lettera sulla fratellanza firmata a Abu Dhabi con il Gran Imam Ahmad Al-Tayyeb il 4 febbraio 2019, ma pubblicata nel pieno della pandemia del covid-19, Fratelli tutti offre una panoramica di alcune tendenze contemporanee. Difficile contestare l’importanza delle macro aree che il Pontefice propone sul tavolo della riflessione comune: 1) la politica priva di visioni a lungo termine e capace di fornire solo ricette di marketing; 2) la cultura dello scarto, che estende la visione economica a quella sociale e interpreta i più deboli e meno produttivi come un peso di cui disfarsi; 3) i diritti umani, che dovrebbero essere riconosciuti a ciascuno, indipendentemente dal ceto, dalla razza, dalla religione etc.; 4) le migrazioni, che dovrebbero promuovere l’accoglienza, la protezione, l’integrazione, lo sviluppo umano integrale; 5) la comunicazione, che nella sua iperconnessione contemporanea non ha però migliorato la qualità delle relazioni sociali e, a volte, ha acuito gli atteggiamenti difensivi. In estrema sintesi, l’epidemia ha dimostrato in modo inequivocabile sia i limiti del progresso umano sia la necessità di azioni coese.
Cercando un filo rosso comune, potremmo dire che in ciascuna di queste macro aree l’ostacolo sia non la cosa in sé ma l’assenza di responsabilità con cui viene gestita e la necessità di un cambio di paradigma. Nel momento in cui un fatto o uno strumento si trasforma in ostacolo e non in opportunità, significa che è venuto meno quel senso di cura che fa dell’altro un fine e non un mezzo. È così che trasformando l’altro in oggetto, priviamo anzitutto noi stessi della realizzazione della nostra umanità e del nostro essere attori dello spazio pubblico. Rinunciare alla logica strumentale significa riconoscere che il progetto comune ci realizza di più e meglio rispetto a qualsiasi progetto individuale. La questione politica non è, allora, soltanto “cosa posso fare io?” ma “cosa possiamo fare insieme?” La risposta proviene dalla qualità delle relazioni che instauriamo, dalla capacità di abitare e promuovere dinamiche di riconoscimento reciproco, che non sono prive di ostacoli ma aprono alla speranza.
Un’ultima considerazione vorrei farla tornando alle figure che hanno ispirato il Pontefice. Oltre all’imam, al quale lo lega una salda amicizia spirituale, Papa Francesco ricorda M. L. King, D. Tutu, Gandhi, C. de Foucauld e “tanti altri”. Figure molto varie tra loro per temperamento, cultura, religione, ma che hanno in comune l’amore per l’umanità, insieme alla consapevolezza che ciò che lede la dignità di uno, offende quella di tutti. Per realizzare la fratellanza non occorre essere dèi, supereroi, santi, ma semplicemente saper accogliere l’umano che è in noi e in ciascun altro.
L’articolo mi pare inquadrare bene l’unica prospettiva possibile: riformulare un nuovo paradigma esistenziale.
Ma non potrà essere fondato su un concetto così aleatorio come la fratellanza. Come non siano bastati 2000 anni di fallimento di questo obiettivo a far comprendere che non funziona è,
quello si, un mistero delle fedi! Insomma, sarebbe come puntare su una lumaca in una corsa di purosangue.
Perciò è vero: L’unica via resta quella di una totale riformulazione esistenziale.
Ma i tempi sono maturi, in un mondo nel quale non si riesce nemmeno a mettere in dubbio la validità di quelli in voga, e dove ognuno si vanta ancora della superiorità del proprio rispetto a tutti gli altri?