Comunismo Ermeneutico. Da Heidegger a Marx : note critiche di Roberto Finelli.
Roberto Finelli
La coppia concettuale “comunismo ermeneutico” rivela, a mio avviso, una contraddizione in termini, perché mette insieme due tradizioni interpretative della modernità profondamente diverse, anzi pressoché opposte tra loro: come sono il marxismo di Marx da un lato, profondamente ispirato al dialettismo di Hegel, e l’analitica esistenziale, profondamente antidialettica, di Martin Heidegger. La dialettica si può dire, assai schematicamente, studia la costruzione della realtà attraverso nessi di opposizione e di distinzione: a partire dalla definizione platonica per cui la dialettica è l’arte di dividere secondo generi e specie e di conoscere quali idee si connettano tra di loro e quali invece si distinguano e si escludano. In Hegel la dialettica rimanda alla tessitura di una realtà che si costruisce solo mediante opposizione, e questa è, di fondo, la medesima concezione di Marx, anche se con un profondo cambiamento di categorie oppositive rispetto a quelle teorizzate da Hegel. In Heidegger il motivo teorico fondamentale è invece, anziché quello dell’opposizione-contraddizione, quello della differenza: cioè della differenza radicale, quanto a statuto e qualità di realtà, che si dà tra Essere, Esserci ed Ente, e che concerne appunto l’abisso di distanza ed eterogeneità di piani che si dà il Sein, il Dasein e il Seiendes. Ontologia dell’opposizione e ontologia della differenza sono a fondamento di filosofie profondamente divergenti e infatti, non a caso, nel testo sul comunismo ermeneutico è sia ben più presente e dominante il riferimento al pensiero di Heidegger che non a quello di Marx. Né mi sembra avrebbe potuto essere diversamente: a motivo delle differenti epistemologie e concezioni della verità che quelle ontologie divergenti implicano. Da un lato la concezione di Marx che afferma esservi una struttura oggettiva e vera della realtà, da lui definita “Das Kapital”, la quale costituisce un fatto e non un’interpretazione e che, come tale, in quanto struttura oggettiva di relazioni sociali e di dinamiche sociali, può essere studiata con la precisione di un’indagine scientifica. Cioè secondo quanto viene riportato dallo stesso Marx, nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale, citando la recensione del Viestnik Evropy di Pietroburgo: «Marx considera il movimento sociale come un processo di storia naturale retto da leggi che non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni». Dall’altro, dal versante heideggeriano, il rifiuto di concepire l’attingimento di una possibile verità oggettiva, perché l’esistenza dell’essere umano è sempre attraversata dalla differenza ontologica tra Essere, Esserci ed Ente, e l’Essere, per la sua distanza abissale dagli altri due termini, si svela solo occultandosi, sottraendosi cioè a qualsiasi identificazione e definizione. Tanto che il senso delle diverse epoche storiche va inteso come invio destinale dell’Essere e interpretato attraverso un’ermeneutica, lontana da ogni sapere scientifico e da ogni pretesa di verità capace di permanenza e di stabilità . Di fronte a queste due prospettive ontologiche, quella marxiana e quella heideggeriana, il comunismo ermeneutico sceglie senza ombra alcuna di dubbio la via heideggeriana. Verità è sinonimo di autoritarismo e di violenza, in quanto è la pretesa di imporre all’Essere la dimensione dell’Ente, dell’oggetto, e di ridurlo con ciò ad una mera presenza oggettiva. Una pretesa che ha caratterizzato, sul piano filosofico, tutta la storia della metafisica occidentale da Platone ad oggi e che, sul piano sociale e politico, si traduce in società chiuse ed autoritarie, che, assegnano alle classi dominanti il privilegio di conoscere la vera struttura della realtà e a derivarne, così, prestigio e differenziazione sociale. Fino a giungere al nostro mondo contemporaneo, dove l’Essere stato definitivamente rimpiazzato e sostituito dagli enti, lasciando spazio incontrastato alla tecnica, quale riduzione a mero fondo di energia disponibile ed accumulabile sia della natura che dello stesso essere umano. La scelta heideggeriana è così risoluta – e coerente con la biografia intellettuale di almeno uno dei due autori, qual è Gianni Vattimo – che, conseguentemente, per il «comunismo ermeneutico», credo si possa parlare di un comunismo senza marxismo, e, specificamente, di un comunismo senza Il capitale. Operazione ovviamente legittima sul piano dell’infingimento d’idee e della creatività intellettuale, ma assai problematica quanto ad adeguatezza ed efficacia storico-politica rispetto alla realtà effettiva del mondo in cui viviamo. Il cosiddetto pensiero debole, o ermeneutico, unito con altre prospettive teoriche, quali l’esegesi genealogica d’ispirazione nietzschiano-foucaultiana e il decostruzionismo di Derrida, nel loro comune rifiuto della filosofia come scienza degli universali e delle strutture del permanere, hanno avuto il grande merito di mettere radicalmente in discussione, con tutta la cultura postmoderna, il marxismo del ‘900 in quanto fondato sul presupposto di una soggettività forte, organica e compatta, della storia e della società moderna, quale avrebbe dovuto essere la classe operaia della grande fabbrica e del fordismo. Pensiero ermeneutico, di area germanica, e pensiero genealogico-decostruzionista, di area francese, hanno positivamente continuato, in tal senso, l’opera del cosiddetto marxismo eretico del ‘900 che, in particolare nella seconda metà del secolo, contro il togliattismo e il suo storicismo continuista da un lato e dall’altro contro l’operaismo e la sua esaltazione della rude razza pagana del proletariato operaio, aveva, con varie voci, già criticato un marxismo provvidenzialista da filosofia della storia, con la mitologia di una soggettività presupposta all’evolversi storico-sociale. Ed hanno contribuito, pensiero ermeneutico e decostruzionismo, anche qui positivamente, a chiarire quanto parlare di soggettività implichi ormai, in modo irrefutabile, considerare tutta la tematica dell’esistenziale accanto ed oltre a quella del sociale: includere cioè la dimensione della vita pulsionale e della dinamica degli affetti, della finitudine dell’esistenza umana, della natura del desiderio, del rapporto corporeità/logicità. Ma gli aspetti positivi del pensiero debole si fermano qui. Giacché esistenziale e sociale, dimensione intersoggettiva e dimensione infrasoggettiva, asse verticale ed asse orizzontale dell’essere umano, vanno integrati, in una ricerca teorica e pratica, che sappia coniugarli insieme, invece che metterli in opposizione. A me sembra infatti che tutta la filosofia dell’esistenziale, da Kierkegaard a Nietzsche, da Heidegger a Derrida, ha sempre visto il sociale come il luogo dell’inautentico e del falsificante: come il luogo di una vita gregaria e massificata, a cui opporre l’autenticità dell’individuazione. Insomma come il luogo delle false verità e dei fallaci universali – il luogo della supposta verità oggettiva -, cui opporre, come Leben contro Logos, esistenza contro essenza, il valore, unico e irripetibile, dell’individualità. Dunque accogliere l’arricchimento che il pensiero debole ed ermeneutico ha apportato quanto ad esplorazione della dimensione esistenziale ed emozionale dell’essere umano ma contemporaneamente non rifiutare una prospettica realistica di verità, obbligata dal darsi di strutture oggettive e impersonali dell’essere sociale: questa è, a mio avviso, il campo di ricerca di un nuovo progetto etico-politico di trasformazione e di emancipazione. Perché la trama della società capitalistica moderna e contemporanea non rimanda a un processo senza soggetto, come ha preteso un Althusser, più esposto alle seduzioni del pensiero di J. Lacan e dello strutturalismo che non alle ragioni di Marx. Il soggetto della modernità è Il capitale, di cui Marx ha identificato le leggi e la struttura generale. Tanto più oggi quando l’economico è divenuto soggetto globale, pur nella varietà proteiforme dei mille capitali, ma tutti rispondenti alla logica dell’accumulazione dell’Unico Capitale. Anche perché è solo con la società moderna che l’economico si fa effettivamente struttura dominante e condizionante l’intero essere sociale, diversamente dalla teorizzazione che lo stesso Marx, ancora filosofo e metafisico della storia prima della stesura dell’opera matura, ha voluto fare con la dottrina del materialismo storico e con la semplicistica riduzione dell’agire umano, nell’intero corso della sua evoluzione, alla metafora geologico-edilizia di struttura e sovrastruttura (su ciò mi sia consentito rimandare al mio ultimo testo: Un parricidio compiuto. Il confronto finale tra Marx ed Hegel, Jaca Book 2015). Insomma i limiti del comunismo ermeneutico mi sembra consistano nella debolezza del suo progetto di emancipazione e nella difficoltà, per non dire impossibilità, di trovare un nesso di articolazione tra soggettivo ed oggettivo, tra individuazione e socializzazione. Perché ciò che oggi sarebbe necessario, quanto a un progetto di rinnovamento e di fuoriuscita dalla gabbia d’acciaio della società del capitale, è, a mio avviso una teoria della soggettività adeguata al confronto con la soggettività per eccellenza della modernità che è quella del Capitale. Ed appunto perciò non credo che con la teoria della tecnica proposta da Heidegger si possa indagare criticamente una fenomenologia della soggettività capitalistica, ossia i processi inautentici d’individuazione che oggi mette in essere la produzione di capitale: qual è la contemporanea caratterizzazione linguistico-computazionale di una soggettività che, privata d’interiorità emozionale, partecipa, con incolpevole consenso, ai processi del proprio svuotamento e della propria eteronomia. Tale dialettica di svuotamento e insieme di partecipazione compensativa di superficie può essere, a mio avviso, assai meglio spiegata con la teoria marxiana del Capitale quale valore astratto in processo che non attraverso una teorizzazione circa l’invio destinale dell’Essere.