Hegel: un monologo

di
Sonia Caporossi

 

A Mario Reale

Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza
che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato,
che solo alla fine è ciò che è in verità;
e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità,
soggetto a divenir – se – stesso.
G. W. F. Hegel

Chi ai giorni nostri voglia combattere la menzogna
e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà.
Deve avere il coraggio di scrivere la verità,
benché essa ovunque venga soffocata;
l’accortezza di riconoscerla, benché ovunque venga travisata;
l’arte di renderla maneggevole come un’arma;
l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace;
l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi …
B. Brecht

Oh secol superbo e un po’ tocco! Me ne hanno davvero dette di cotte e di crude per togliermi di torno. Io! Io non sarei fedele al mio programma dialettico? Io sfocerei in una sorta di sapere assoluto che comprometterebbe la mia stessa teoria del divenire? Io oserei fornire una definizione esaustiva, data una volta per tutte, del reale, dell’ideale, di che cos’è la filosofia?
All’Università, colleghi, amici e nemici hanno avuto un bel daffare ad accanirsi contro di me. Il compagno Jürgen, nella sua Etica del Discorso, se la prende con me e mica poco: dice che io sarei un assolutista, come Immanuel, mentre avrei per tutta la vita ferocemente criticato di quest’ultimo proprio l’assolutismo, e che questo mi serviva a giustificare lo Stato Autoritario del futuro baffetto acquarellista matto e lo Stato prussiano del mio tempo storico, assolutizzato anch’esso. Secondo Hans Georg, il Grande Veglio della filosofia occidentale, io sarei un filosofo (e già questo, oggigiorno, è dire tanto!) di un’esperienza che, in divenire, poi giunge alla fine nella sua interezza e autenticità. Per lui l’esperienza deve rimanere sempre aperta. Invece io, udite udite!, andrei oltre l’esperienza nel suo culmine, cioè vi sostituirei una forma di sapere non più esperienziale, bensì un quid che è divenuto un criterio per essa, un assunto definitorio e definitivo, astratto e astraente che le farebbe raggiungere la propria finitezza assoluta. Paul Ricoeur, polemizzando in Tempo e Racconto col mio Volkgeist, sostiene che non c’è un unico spirito, che lui evidentemente pensa io abbia definito come un’entità superiore ed immutabile, bensì ci sono vari svolgimenti (di esso? Marameo!); e siccome, per me, la storia non è una serie di contingenze, di casi, bensì è sottoposta alla ragione che la organizza su basi razionali, la mia visione sarebbe ottocentesca ed ottimistica, poiché non c’è per lui unità ma differenza soltanto. Io secondo voi che cosa dovrei rispondere? Differenza rispetto a che? Di nuovo marameo, ma chi vuoi prendere in giro? Il definiens prende forma solo a partire dal definiendum. Ma questo richiama quello, all’infinito, in una circolarità ermeneutica fondante. E allora? Da qualche parte, o cominciamento, bisognerà pur partire, altrimenti sarebbe come non avere detto nulla. Essere, nulla, differenza, divenire…
A me sembra che in molti filosofi della vostra sordida contemporaneità postmoderna, afflitta dalla soverchieria tumorale di un astio concettuale più o meno faceto, ci sia un diffuso timore antisacrale, che si appoggia ai puntelli della critica feroce contro l’autorità della ragione. Se la ragione è sovrana il singolo allora ha sempre torto. E siccome dopo di me il singolo è rimasto solo come un cane (mica per colpa mia, ma perché così alla fine è andato il mondo!); siccome voialtri disperati parete vivere orfani del senso delle cose, solitari nella folla, in una sorta di rinnovata età postalessandrina, in cui la polis ha rinnovato la fotografia sul proprio certificato di morte facendovi sentire dispersi sulla superficie nuda della crosta terrestre come formiche in colonna, o peggio, come vermi adamitici senza la foglia di fico a coprire le pudenda celenterate, che si contorcono nel caos della perdita di senso; allora il singolo, – tutto – sensi – senza – senso, ha il timore di essere sopraffatto da una ragione che pretende possa essere esclusivamente concepita come sovrana, come il logos imposto e prevaricante del Leviatano di Hobbes. Siccome non c’è una sola verità (e quando mai avrei detto il contrario!), allora non c’è verità da nessuna parte. Il che, sinceramente, come sillogismo, mi sembra quantomeno fallace.
Il camerata Martin, a sua volta, dice che la mia filosofia sarebbe un’ontologia, mentre invece la sua è meglio identificabile dalla categoria di ontocronia, cioè una filosofia del tempo, non dell’eterno, come a dire del finito, non dell’infinito. Ma se il linguaggio è la casa dell’essere i cui custodi sono i poeti e i filosofi, bisogna ancora capire chi è qui il poeta e chi il pensatore. Il problema, in effetti, è nel linguaggio: è un problema di linguaggio. Quando Jürgen discute la mia frase più famosa: “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”, afferma una cosa superficialmente condivisibile da un punto di vista logico: cioè che sembra proprio una formula che giudica in anticipo, un a priori definitorio, un postulato indimostrabile, un tì estìn metafisico, un assunto assoluto. Ma questa è l’essenza stessa del linguaggio! La sua natura tautologica, la sua radicale ritrosia ad indicare altro da sé! Con queste stesse armi ti batti e ti dibatti anche te, caro Martin, tu che affermi con la stessa identica struttura di linguaggio tautologico e ridondante: “la mia filosofia è un’ontocronia”. Il linguaggio è fatto così, questo abbiamo, con questo dobbiamo lavorare.
Attenzione ai pataccari, quando inventano a tavolino un neologismo categoriale ad hoc per fare gli originali. Ma siete proprio bravi, ragazzi. Proprio bravi. E quegli altri, poi, razza di cialtroni privi di pensiero, che nel dire “Hegel è apriorista metafisico perché dice che x è y” dove, badate bene, x e y non sono neologismi categoriali alla moda creati su misura ma forme pure mentali condivise e comunicabili, non fanno altro che svolgere una forma logica proposizionale che è la seguente: “x è y, quindi x è y”. Ancora mi fischiano gli orecchi per l’eco, la ridondanza, la fuliggine sonora nel terzo occhio. Vogliamo giocare alle matrioske? Reale (x¹) = razionale (y¹) > Hegel (x²) = aprioristico (y²) > Voi (x³) = imbecilli (y³). E via discorrendo, mi fermo per pietas virgiliana alla terza dimensione concepibile.
Mi hanno accusato così di apriorismo, oh caro, ameno Schelling! Di panlogismo, per cui ogni dimensione si riconduce in me alla ragione; di presenzialismo, per cui la totalità del reale alla fine è tutta presente in me. Cioè, diamine, voglio dire, non in me – me, perché non sono Gesù Cristo, ma nell’in me dello spirito, nell’in me del me di tutti. Uhm. Come si vede, è un problema di linguaggio. Ma insomma, hanno cercato di massacrarmi nelle più sottili maniere del discorso, utilizzando il loro linguaggio comune nel tentativo di decostruire la validità del mio. E tuttavia non sono mai riusciti a seppellirmi nella cappa annichilente del silenzio. Né mai riusciranno a togliermi di torno. Ed ora, cari miei, vi sto per spiegare perché.
Io per primo ho tolto di mezzo la metafisica, io per primo!… e non il könisberghese boccoluto. Vi sembra un’affermazione strana e bislacca? Dicono qualcosa di diverso i vostri manuali scolastici di storia della filosofia? Immagino sinceramente di sì. Come Platone ha ucciso il padre Parmenide nella contrapposizione dell’uno e del molteplice, così io ho ucciso lo zio Immanuel nella totalità in svolgimento dell’esperienza storica. Sono stato io a criticare lo spirito di profondità, dicendo che non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. Ma quale noumeno scisso, separato e inconoscibile! Lo zietto cavilloso, per il fatto stesso di mantenere un noumeno in piena salute concettuale, perché se pure non lo si può conoscere, tuttavia lo si può anche solo pensare, non fa che chiudere la porta principale alla metafisica tenendo aperta quella del retro! Non è così che si risolvono i massimi sistemi del mondo, ma solo quelli di Dio. La razionalità, invece, è presente nel fenomeno stesso. La filosofia non è altro che memoria: non è a priori, arriva sempre per ultima nella gara di corsa al sacco dell’intelletto, arriva sempre per ultima nella partita a scacchi della mente. La filosofia non giudica, non stabilisce, non enuncia: essa serve soltanto a comprendere, ad agire in base alla genialità pratica. E non ci sono, né mai io ho preteso di dettare, dei precetti per l’agire: i posteri diranno, legittimamente e con ragione, se abbiamo agito, nel qui ed ora, bene o male. C’è il rischio anzi di non poter padroneggiare le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, perché la filosofia si limita a comprendere, è tutta rivolta in direzione della cum – praehensio fattiva del mondo circostante. Solo questo può, solo questo fa, forma di vita del pensiero quotidiana, non speciale.
E poi, cerchiamo di capirci, aprite bene i padiglioni auricolari. Io dico che l’Assoluto è il risultato. Dunque, a rigore, non ho mai detto che esso sia il Principio. L’Assoluto non viene prima, ma si manifesta alla fine del processo dialettico, il quale peraltro neanche ha una fine, perché appena giungo al termine, mi rivolgo nel circolo virtuoso che cortocircuita termine e cominciamento, al di fuori di qualsiasi dualismo sterile di condizione e condizionato. È per questo che bisognerebbe rispiegare ai miei posteri pensatori la distinzione fra vero ed esatto. Il vero è ciò che ha senso, è una realtà significativa, razionale. Ma questo mica significa che tutto vada bene, con un senso delle mie parole che qualcuno pare avermi messo in bocca. L’ottimismo ottocentesco che mi hanno imputato è parziale e frutto di una profonda incomprensione di fondo. infatti è esattamente il contrario! Il senso, il quid dotato di razionalità, deve essere reale, ovvero, fuor di metafora ontologica, si deve manifestare; e pur tuttavia realtà non è immediatamente esistenza, nel senso di tutto ciò che esiste, bensì la realtà è senso, è ciò che contribuisce alla mia presa di coscienza, non mia – mia, ma mia tua sua nostra vostra loro… insomma, alla presa di coscienza dell’uomo in quanto tale, come essere libero, libero, libero, anzi di più: come essere liberato.
Perché sono venute fuori queste criticuzze da quattro soldi? Analizziamo bene la questione. Per Hans Georg l’uomo come essere finito si trova di fronte ad una realtà più grande di lui che gli sfugge. Il vegliardo trapassato sostiene la possibilità di un dialogo tra il singolo e la storia, ma si può solo interpretare la realtà, ovvero la storia stessa, senza pretendere di possederla nella sua assolutezza. Secondo Paul, per cui “l’uomo è la gioia del sì nella tristezza del finito” (molto poetico, nevvero?), io non farei altro che identificare nel finito il principio attraverso cui spiegare la realtà. Ma non è questa una bella e buona proiezione psicanalitica? E prima ancora viene Søren il malinconico, Søren l’adolescente, Søren l’angosciato. Brivido terrore raccapriccio, s’ode l’urlo di Munch avanzare alla velocità del suono dall’orizzonte alla mia fronte. Il singolo, dice il danese dal bel ciuffo, ha le sue esigenze. E chi dice il contrario, non foss’altro che l’esigenza di farsi ogni mattina il bidet. Il singolo è per definizione incompiuto, è creatura rispetto all’essere verso cui tende. Il senso di questo essere in genere sfugge, ma questo suo essere sfuggente è proprio, va da sé, del Cristianesimo. Non aveva tutti i torti Schelling quando affermava che il Cristianesimo ha annientato il sentimento della Natura. E, per Martin, si può soltanto ascoltare l’essere, che è come dire: l’essere si manifesta ma nello stesso tempo si nasconde e noi non possiamo comprenderlo ma solo ascoltarlo. Di quale sorta di grammofono stonato abbiamo dunque bisogno? Il finito è l’uomo pratico, non l’uomo della teoria, quello dei greci a cui, secondo Hans Georg, io vorrei tornare. Nello zietto Immanuel abbiamo, in effetti, l’uomo essenzialmente pratico; secondo invece quella che è la vulgata sulla mia nozione di razionalità, l’uomo è teorico, contemplativo: è nel contemplare che la razionalità si manifesta. Però il finito, così, non è più principio di spiegazione (mi seguite?), bensì deve essere spiegato. Ma io non ho detto altro che bisogna concepire l’uomo all’interno della ragione, non al suo esterno. Il principio secondo me è il senso nella sua verità di far senso: è la Divina Commedia che spiega Dante, non il contrario! Ecco, questo sono io!
Tutti i filosofi boccoluti, imparruccati, ma anche quelli crapapelati, nonché quelli incimiciati ed eventualmente spidocchiati del mondo, per non parlare di quelli belli belli, profumati di dopobarba al musk e di Proraso in puro stilema di Occam, intelligenti tonsori che si industriano col rasoio a farmi barba e capello; e metto in mezzo pure il sifilitico spostato coi mustacchi un po’ da bear, che si affaticava col martello demolitore contro di me, ripudiando la “tirannide della ragione sugli uomini” (come se la ragione ci facesse schiavi e non invece uomini liberi!)… tutti coloro, insomma, pensatori o poeti, che si sono cimentati nel contrasto con me, si sono posti, a me pare, dal punto di vista del finito, cioè dell’uomo, come principio. Invece io ho come principio il senso, ovvero non l’uomo in quanto tale, ma ciò che l’uomo fa! Per me l’uomo è la serie delle sue azioni, l’uomo è in grado di esprimere, anzi, di più: l’uomo è questo stesso desiderio d’espressione, un animal desiderans, un’aspirazione struggente nel momento stesso in cui viene soddisfatta, tanto da divenire incessante, tanto da mettere in perpetuo moto l’azione del circolo; e allora il punto è andare ad indagare le modalità fenomenologiche di queste sue forme d’espressione, la sua creatività, il suo lascito di senso al mondo. Volete una veloce carrellata riassuntiva? Ci metto poco.
L’Illuminista era l’uomo dell’utile, della società che ricercava la felicità. Poi siamo arrivati noi, i Romantici, gli Stürmer entusiastici e poetanti in senso etimologico, e gli abbiamo contrapposto l’uomo che produce, l’uomo che opera, l’uomo che si dà da fare nell’officina del mondo, che forgia il senso delle cose, del circostante contestuale, di se stesso. È l’opera stessa lo scopo dell’uomo, è l’opera stessa ad accrescere il senso, ad alimentare bellamente, esteticamente, il suo desiderio. È per questo che noi romantici abbiamo dismesso l’abito ormai stretto dell’utilitarismo. L’interesse totale non è più rivolto al singolo, non è più rivolto ai pochi: deve essere indirizzato alla produzione di senso. L’uomo, per me, è essere – nel – mondo, come direbbe Martin, ma anche essere – del – mondo, come direi io. Nel momento esatto in cui io mi realizzo nel mondo, mi trovo in un contesto dotato di senso e ciò che faccio è sensato. Ma qualcuno potrebbe a questo punto chiedermi che cosa è il senso, quale che sia, e che cos’è il non senso, quale che sia. E qui bisogna che mi seguiate con un’ancora maggiore attenzione…
Il senso è la presa di coscienza sempre più lucida della libertà dell’uomo nel suo significare storico. Il senso consiste nella sua stessa produzione! E questa produzione coincide con la consapevolezza, progressivamente sempre più grande, della mia essenza di uomo libero, immerso fluidamente nel processo del divenire storico. Perché non c’è produzione senza desiderio. Ma desiderio di che cosa? Ebbene, di libertà.
Nel mondo orientale uno solo era libero. Nel mondo grecoromano solo alcuni erano liberi. Nel cristianesimo della modernità, ormai liberi siamo tutti, e la cultura moderna è permeata di cristianesimo, finalmente sa l’essenza dell’uomo e sa che quest’essenza è la libertà. Dopo secoli e secoli di atroci fatiche, di scontri, di guerre interiori, di abbagli, di peccati, di sconcezze, di atrocità, di ritrosie, di false speranze, di disillusioni; dopo secoli e secoli di magma metafisico, di sonno della ragione, di monstra culturali, di inadempienze, di fallocrazie, di religioni dell’ignoranza; dopo tutto questo oscuro travaglio, col forcipe indelicato e doloroso dell’autocoscienza riflessa e della Rivoluzione, abbiamo tirato fuori la consapevolezza di essere animali desideranti la libertà, la libertà di tutti che non si annulla nel niente. In Africa, bontà loro, mentre io scrivo la Fenomenologia dello Spirito tutto questo ancora non lo sanno, o se nel vostro tempo relativo già lo masticano, questo loro sapere è riflesso, è derivato, essendo la loro emancipazione, se pure in parti localizzate ci sia, discesa da idee eurocentriche: eurocentriche come me.
Eh sì, già intravedo un’obiezione: se la realtà non mi è estranea, direte voi, allora tutto il mazzo che s’è fatto lo zietto? Dobbiamo tout court tornare alla metafisica ed al sonno dogmatico? Ovviamente no, miei cari, no. Potrei sembrare un pastore che guida le pecorelle smarrite nel noumeno verso i pascoli verde posticcio della metafisica prekantiana, ma io non vi penetro dogmaticamente con nessuna suola di scarpa. Prima di giungere al sapere assoluto, io! Sono io che faccio i conti con l’esperire storico. Mentre il boccoluto nella Critica della Ragion Pura si ferma sulla soglia dell’oggetto metafisico, io, e lo ripeto, affermo invece che l’uomo può penetrare la realtà nella sua profondità, proprio perché non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. E può farlo perché lo desidera, perché il suo desiderio inarrestabile fa tutt’uno con la propria volontà.
Anche quando parlo di Spirito, signori, occorre mettersi d’accordo sul suo significato. Il termine, lo ammetto da fervente luterano, è preso di peso dalla teologia. Ma io intendo con esso il risultato di una cultura. Lo Spirito in questo senso nasce in Grecia, dove il cittadino della polis si sente a casa sua nel suo microcosmo culturale, nei suoi valori, nelle sue espressioni fenomenologiche. Nel passaggio dal mondo romano, a quello medievale, a quello moderno, lo Spirito progressivamente si è modificato, e quello del mio tempo è uno spirito estraniato, i cui valori sono rinviati nel Rinascimento e nel Barocco all’aldilà. Quando sono arrivati gli Illuministi d’oltralpe, la fede è stata messa nel cantuccio a ripensare se stessa, e tutto è rientrato crassamente nella sfera dell’utile: però chi è che pone l’utile? Sono io, eh sì, insomma, il solito io tu egli noi voi essi. Il concetto moderno di libertà nasce con Rousseau, con Rousseau si ottiene l’emergenza dell’urgenza, la manifestazione tangibile della forza di volontà anche detta Rivoluzione francese, che però è stata un disastro, un insuccesso, una sconfitta, uno sfacelo: per mancanza di mezzi intellettivi fondanti, per carenza connaturata di strumenti culturali, nonostante fosse basata sull’idea della volontà generale, del contratto sociale, in contrasto con la pura ed egoistica volontà del singolo; nonostante fosse fondata su un desiderio, non foss’altro che un desiderio smodato. Ed infatti, nella Francia di quell’epoca, in cui De Sade prendeva appunti per Le Centoventi Giornate di Sodoma da ospite prigioniero nella sua celletta alla Bastiglia, il singolo non può esprimersi, lo stato lo elimina nel Terrore, ed egli, il singolo, per difendersi dal mal di testa terminale della ghigliottina, deve liberarsi da un peso, deve curarsi chimicamente, deve prendere la Bastiglia. Ma il singolo stesso percepisce il governo come qualcosa di non generale, bensì particolare: come un singolo esso stesso. Onde l’alternarsi di fazioni e forme di governo orientative, girondini, giacobini, Robespierre, Marat, sanculotti e via discorrendo, ora non sto qui a far l’elenco dell’alternarsi juventino del terror nero e del terror bianco. Basti riflettere sul fatto inopinabile che non ci fosse ancora, per i rivoluzionari, in quel lì e in quell’allora, la cultura di fondo per conciliare molteplicità e singolo. Tuttavia, se c’è un esito positivo a tutta quella baraonda di spargimenti di sangue e sperma sacrificale segnati a giorni alterni sul calendario più ridicolo e buffo che sia mai stato creato, è questa: con la Rivoluzione dei gallinacci in lotta nel pollaio l’uomo si è reso conto di esser capace di universalità. Dopo il riassetto napoleonico, mentre la Francia continua a fare coccodè come poi succederà per quasi tutto il Novecento, quando i suoi pensatori marxisti e sessantottini non comprenderanno minimamente il senso dell’evento storico secondo me, lo zietto boccoluto invece lo capisce, oh se lo capisce! Comincia così ad affermare, dalla sua celletta monacale di Könisberg, che l’imperativo, l’azione morale, è un fatto della ragione. Jacobi solo dopo teorizzerà la filosofia dello spirito coscienzioso, che sa quello che fa, nel pieno senso dell’emancipazione di cui io sono il più lucido teorico del mondo, senza falsa modestia.
Questa è la storia della manifestazione in divenire dello spirito dell’uomo. La cultura, le culture, sono il risultato di questo corso storico, degli eventi e del loro intimo significato. E si badi bene, tali eventi hanno contribuito a questo disvelamento dello Spirito a se stesso, essendo tutti gli altri in momento di contrasto, o contraddizione, o metamorfemi schiavizzati ed insieme padroni dell’immane forza del negativo.
Io, a dirla tutta, ho anche esaminato le varie religioni. Fra di esse, soltanto il cristianesimo è la presa di coscienza occidentale in senso culturale del divenire storico. Ma la religione, in sé e per sé, è intuizione ancora rappresentativa, non ancora lucida, della realtà. È la realtà in forma mitica, è la realtà dispiegata nelle storie analizzate da Propp, e proprio avendo affermato questo, non si capisce come mai il mustacchiato sifilitico si sia dovuto sentire investito del, quello sì, sacrale dovere di filosofare col martello distruggendone il fondamento. Non serve un Anticristo che sia convinto di sé, che ci crede, se Cristo stesso è solo una favola, se Cristo stesso non crede a se stesso, se Cristo stesso è il momento del negativo antitetico rispetto alla tesi del Padre che attende la superiore sintesi dello Spirito; se Cristo stesso, insomma, si è negato. E se la gente ci crede? Affari loro. Non si impone come pars destruens una genealogia della morale che si spaccia per negativa ed antipropositiva, tanto più propositiva e sostitutiva quanto più eteroescludente, contro l’ascesi della modernità: se tale ascesi s’è manifestata, ci sarà stato un motivo, e bisogna solo aspettare che essa trapassi. Come infatti nella vostra epoca attuale mi sembra che sia, e certo non per grazia o virtù di quel pazzoide che abbracciava un cavallo. Quando don Chisciotte scende da cavallo torna savio, quando Nietzsche abbraccia un cavallo afferma la sua pazzia. Genealogia della morale è di due anni prima rispetto all’accaduto; Ecce Homo, l’Anticristo, Il Crepuscolo degli Dei dell’anno prima. Opere di poesia, non di filosofia, per le quali vale il vecchio adagio di Poe: “la scienza non ci ha ancora insegnato se la follia è o non è il sublime dell’intelligenza”. Il rischio è che l’irrazionalismo poetico di Mister Mustard si trasformi nella tirannide dell’irrazionale, altro che della ragione! Il rischio è l’avvento dittatoriale del Baffetto e del Baffone. Il rischio è la tirannide senza colore politico, in cui le opposte fazioni che ancora oggi dividono il mondo vengono a coincidere nell’unico esito della mostruosità. Ma allora, se anche la religione ha avuto una sua funzione che si deve riconoscere come mitica, aurorale, a metà fra la funzione estetica dell’arte e quella della scienza, da dove nasce il sapere, come si passa allo stadio successivo?
Il sapere sorge nel mondo postrivoluzionario, e ciò, detto per inciso, è il motivo per cui tutte le rivoluzioni del mondo non sono mai un approdo al sapere o ai saperi, bensì punti di transito e scambio, di import export di coscienza e suggestioni, di trapasso emozionale e sociale, di puro fieri, di forza desiderante e generativa, di immane forza del negativo. È nel mondo romantico che io finalmente mi sento capace di sapere assoluto. Nessuna volontà di potenza è qui necessaria: la potenza c’è già! Tuttavia, e qui sta il bello, il punto per cui nessuno ancora ha pienamente compreso ciò che ho inteso per tutta la vita dire, il fondamento ultimo del mio modo di pensare: questo sapere non è inerrante, non è un assunto metafisico dell’episteme platonica, non è il migliore dei passati e degli svolgimenti storici possibili. Avrebbe potuto svolgersi, manifestarsi, realizzarsi diversamente da com’è andata, diversamente da come si è arrivati a tutto questo. Ed in quel caso, la filosofia non ne sarebbe rimasta sconvolta; l’avrebbe indagato lo stesso a posteriori, con l’utensile da intaglio del ricordo. Il sapere può sbagliare, e allora? Io voglio solo dire che la ragione compie legittimamente le sue azioni, quali che siano. Ma non si tratta mica di un bieco determinismo. Significa piuttosto una cosa ben precisa. Che io sono in grado di filosofare così, voglio dire, con la memoria! Con la memoria la filosofia si volge indietro verso gli avvenimenti della storia, con la memoria li commemora, li cum – memora, ci rimane invischiata, ci sta in mezzo, se ne permea e ci si sviluppa dal loro interno. Con la memoria e solo con essa i pensatori possono scoprire il senso, possono indagarlo non aprioristicamente, come se fosse un batterio sul vetrino sterile di un microscopio, ma possono guardarlo dall’interno dell’esperienza nel pieno razionale del suo svolgersi reale. Ora la metafisica è davvero morta, e questa problematicità moderna, o anche solo il pensare di potermici approcciare, di poterla avvicinare, indagare, penetrare, mi dà il sorriso, la carica, la forza, la sagacia, un nuovo e inesauribile desiderio di conoscere, di amare, di trasformarmi, di vivere.
Non ci sono più misteri, solo problemi. L’essere è fra noi: io sono ormai capace di verità.

 

L’articolo è già stato pubblicato in: Desiderio e desideri. Con Hegel, non solo con Hegel. Quaderni di Dialettica e Filosofia, n.2, Novembre-Dicembre 2014/ I
www.dialetticaefilosofia.it ISSN 1974-417X [on line]
http://www.dialetticaefilosofia.it/public/quaderni/302_desiderio.pdf

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