In questo angolo ospitiamo interventi di importanti studiosi e liberi pensatori che arricchiscono il nostro dibattito.

Appello di 34 intellettuali per un nuovo corso culturale

APPELLO DI 34 INTELLETTUALI PER UN NUOVO CORSO CULTURALE

 

La vicenda che ha visto Berlusconi candidato, fino a poco tempo fa unico, a prossimo Presidente della Repubblica in Italia fa temere che ragione e sensibilità siano sul punto di estinguersi. Guardando a quanto accade in queste settimane in Italia, vogliamo esprimere il nostro sdegno e sconforto di fronte all’insensatezza e alla stupidità che come un fiume in piena stanno dilagando tra coloro che governano il paese e tra molti cittadini di ogni credo e idea politica. Non è possibile che non si levi un coro di milioni di persone per fermare questa ennesima barbarie della ragione!

Ma non basta indignarsi. Occorre fare qualcosa. Innanzitutto dobbiamo far conoscere il nostro pensiero in merito a questa inconcepibile situazione. È certamente importante che gli individui e le comunità di uomini e donne esternino il loro senso di disgusto e di rifiuto nei confronti di una tale vergognosa prospettiva. Ma bisogna riflettere e agire al fine di indicare una nuova via, proporre un progetto politico, educativo e sociale radicalmente diverso.

C’è bisogno di un’azione simbolica che esprima la nostra protesta e il rifiuto di essere cittadini di un paese di cui una piccola ma potente casta politica candida, a suo massimo rappresentante istituzionale, il peggiore esempio a cui si possa pensare negli ultimi trenta anni di vita civile; un personaggio che rispecchia al massimo livello la corruzione, il degrado, la volgarità culturale, la barbarie linguistica, la falsità e la più grezza insulsaggine, insomma il declino irreversibile della cultura e della civiltà. È pure inaccettabile che i cosiddetti partiti della “sinistra”, di centro e di qualsiasi altra collocazione politica, ne abbiano discusso invece di rifiutarsi anche solo di considerare una candidatura scellerata, per proporre, invece, una figura di alta statura culturale e civile. Si vedano le «manovre» in corso per portare al Quirinale Mario Draghi, primo rappresentante della casta politico-finanziario-tecnocratica. La vera alternativa che ci sta di fronte non è tra Berlusconi o un suo clone e Draghi, ma tra la crisi e il degrado estremi di un sistema politico e di un modello di civiltà che sta portando al declino della cultura e alla dissoluzione dell’umano e un progetto alternativo per una rinascita reale e profonda della scuola e della vita sociale.

Oltre alle legittime obiezioni di natura giuridica e politica, ampiamente argomentate da insigni costituzionalisti, per comprendere la vicenda politica in atto, c’è da porsi una domanda preliminare, e cioè quale sia il contesto che ha reso possibile la sola “pensabilità” della candidatura di Berlusconi a Presidente della Repubblica. La risposta non è contingente, ma è di natura storica e filosofica. Dal punto di vista storico è noto come dagli anni ’90 la società sia stata riconfigurata integralmente in funzione di una logica aziendalistica e di mercato dal succedersi di governi di diverso colore politico (basti ricordare, in quegli anni, in Italia, le privatizzazioni selvagge che hanno violato l’articolo 41 della Costituzione), in sinergia con lo sviluppo di un apparato tecnologico che ormai prescrive linguaggi e modalità di comunicazione standardizzati e privi di articolazione argomentativa (vedi ad esempio i social inondati da avvilenti vignette circa le note passioni del nostro emerito personaggio, quasi si trattasse di ininfluenti questioni private su cui ironizzare!). Se fin dalla scuola primaria si insegna a coltivare il «successo personale» e la competitività come stella polare dell’esistenza, sempre in funzione della produzione e consumo di merci, con il denaro quale unico criterio di misurazione di tale successo, ebbene il nostro candidato ha tutti i requisiti in regola. Si dirà: è vero, ma ha commesso dei reati. Il punto, però ­– e qui dobbiamo attingere alla filosofia – è che tali reati non sono avvertiti collettivamente come atti che vìolano principi e virtù inderogabili (onestà, dignità, rispetto…), perché quei «reati» sono espressione di forme condivise di arbitrarismo (tutte le inclinazioni individuali sono legittime) e di superamento di limiti giustificati da un contesto di competitività estremo (un po’ di corruzione la si perdona a tutti…). Come non ricordare nel lontano 2013 il documento della banca d’affari americana Jp Morgan (una delle maggiori responsabili delle speculazioni che innescarono la crisi del 2008) in cui si affermava che le Costituzioni europee nate dopo la caduta delle dittature del Novecento erano ormai datate e rappresentavano un vero e proprio intralcio alla possibilità di varare politiche economiche di austerità adeguate ai tempi.

Quello che sta accadendo dunque in questi giorni in Italia in attinenza alla situazione culturale, sociale e politica, attorno all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, è perciò solo la punta di un iceberg che svela una situazione ben più drammatica e preoccupante, che si è incapaci di vedere o che non si vuole vedere: una cecità al contempo della ragione e della volontà. Mentre la scuola di ogni ordine e grado, la cultura in tutte le sue espressioni (dai musei e dalle accademie d’arte ai conservatori di musica e ai teatri), l’intera società sono in preda a un tale degrado materiale e ancor più morale che rischia di produrre una perdita irreparabile del nostro patrimonio antropologico e della nostra memoria storica, la casta politica che governa senza meriti né idee, e i media, ormai mutati a meri portavoce del potere, non trovano nient’altro di cui parlare e su cui scrivere che non sia la candidatura di Berlusconi a prossimo Presidente della Repubblica, o come spartire i finanziamenti speciali dell’UE tra i pochi monopoli del potere economico-finanziario-tecnocratico europeo e mondiale, di cui l’attuale presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi è il massimo esponente ed esecutore, detengono le redini del comando nel nostro paese e che impongono le loro decisioni a tutti i cittadini ignorando le regole di una democrazia realmente partecipativa.

Il progetto di Draghi – e dei monopoli finanziari e poteri forti che lo sostengono –, che contrariamente alle apparenze non è un pensatore-calcolatore e uomo di governo solitario e apolitico, esprime un modo e metodo di pensare, si potrebbe dire una ideologia-religione (cioè che aspira ad essere unica e a incarnare la verità), il cui contenuto e scopo è racchiuso in tre parole chiave: 1/modernizzazione (dove per questo termine s’intende prioritariamente meccanizzazione e digitalizzazione del lavoro e del pensiero); 2/ controllo tecnocratico della e dominio tecnico sulla vita delle persone e della politica, e 3/ normalizzazione della società attraverso l’eliminazione dei soggetti sociali (che ne costituiscono il nervo vitale capace di generare complessità e cambiamenti culturali) e del conflitto (inteso come spazio intersoggettivo che consente di esprimere e confrontare idee e proposte diverse) come forma di emancipazione da diseguaglianze sociali e da asservimenti umani. Il pericolo reale è dunque di veder realizzato, a medio o lungo termine, un modello economico-finanziario-tecnocratico di società e di cultura che mira all’annichilamento di certe conquiste democratiche (e persino costituzionali), come ad esempio l’esautoramento del ruolo del parlamento e di altre istanze significative del dibattito pubblico, e della soggettività sociale, che avrebbe come conseguenza (in parte già in atto) la demolizione delle nostre radici e tradizioni culturali popolari e liberali, e dunque del pensiero critico, prerogativa ed esercizio vitali di un’autentica democrazia, attraverso l’instaurazione di un dominio dei social (cioè della rete) e dei principali mezzi di comunicazione di massa (televisione e giornali).

Intanto, il distacco tra questa casta politico-finanziaria, sempre più arroccata sui suoi privilegi e sempre più incapace di esprimere un progetto di rinascita ideale e culturale per il nostro paese, e la società civile è manifesto e sta diventando abissale. Dobbiamo così prendere atto di una forma di naufragio dello spirito: giudizio frutto non di riflessioni astratte di intellettuali attardati, ma parto della tragica attualità dei nostri tempi.

Su una cosa vorremmo perciò insistere qui e cioè sul fatto che la surreale vicenda del Berlusconi candidato a futuro Presidente della Repubblica rappresenta l’epifenomeno di una più ampia crisi culturale e morale della nostra società. Limitiamoci a sottolinearne due aspetti, che forse presentano una qualche indiretta correlazione.

Il primo riguarda la dimensione politica del mondo in cui viviamo. È innegabile che oggi siamo agli antipodi di quanto scriveva Platone nella Repubblica (circa 2400 anni fa), e cioè che governare significa comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici opportuni. «Oggi quelli che la pensano in questo modo o sono assai isolati e silenziosi o refrattari ad apparire nei media. Per loro, si potrebbe parafrasare il titolo (Appaio dunque sono) e dire – penso e quindi non appaio. La voce dei pensatori che non appaiono è assente nell’Agorà, in cui risuona invece incessantemente quella dei nuovi intellettuali, le cui opinioni su ciò che è buono e ciò che è cattivo alimentano un dibattito reiterativo che non può, e forse non vuole, incidere sulla realtà. Si tratta di opinioni per lo più prevedibili, ‘di destra’ o ‘di sinistra’ per semplificare, di volta in volta destinate a essere condivise da ben individuate parti della società, che in quelle volentieri si riconoscono e si rinforzano. Quello che manca è l’elaborazione di un progetto politico a tutto tondo, magari anche impopolare, rivolto in prima istanza ai governanti di cui gli intellettuali dovrebbero farsi mediatori con i cittadini in un lavoro che non esiterei a definire educativo» (Lamberto Maffei, «Il resistibile e triste trionfo dell’intellettuale apparente», l’Avvenire, 21 maggio 2021).

Il secondo riguarda la pandemia, che certamente ha messo alla prova ancora di più le precarie condizioni della scuola e della ricerca, dove si affaccia la continua digitalizzazione, concepita illusoriamente come progresso. E’ auspicabile che nella nostra cultura si seguano le indicazioni di letterati, come Leopardi e altri dopo di lui, e anche scienziati e filosofi che hanno tentato il dialogo tra le cosiddette due culture e hanno riflettuto su come realizzare una ricomposizione tra la cultura scientifica e quella umanistica, consci in realtà del fatto che la scienza e le lettere sono profondamente legate e rappresentano due approcci complementari, due momenti connessi dello stesso processo conoscitivo. Osserva ancora Lamberto Maffei: «Pur nell’ammirazione e desiderio di conoscenza delle nuove scoperte scientifiche io guardo con timorosa precauzione al fenomeno della pandemia tecnologica e ho una biologica naturale paura di trovarmi a vivere in una società di tecnici auto-robotizzati che hanno trovato l’algoritmo del nuovo bene collettivo basato su un’analisi accurata dei big data. Se il pensiero, il senso morale e per dir così l’anima, fossero rimpiazzati da meravigliosi, efficienti algoritmi capaci di migliorare il benessere dei cittadini, l’aggettivo umano potrebbe essere cancellato dal vocabolario e la biologia dovrebbe constatare una diminuzione di biodiversità».

Noi pensiamo perciò che occorra operare per un progetto educativo e culturale radicalmente nuovo che collochi la scuola e la conoscenza in cima alla scala dei valori e al cuore di un nuovo modello di società. Le nuove tecnologie digitali non possono essere l’obiettivo di un tale progetto, ma solamente uno fra i tanti strumenti che l’accompagnano entro certi limiti pedagogici ed etici; esso deve invece essere focalizzato sull’educazione, la conoscenza e la creatività, vere fonti di ogni possibile progresso scientifico e culturale di un paese. Qui risiede il fulcro di una visione nuova degli individui e della società: non degli esseri senza più qualità umane, privi di autonomia e di capacità di scegliere, quindi asserviti ad altri, più potenti e furbi, facili prede del falso miraggio del denaro e del successo, schiavi della propaganda dei media e della pubblicità del consumo, ma uomini e donne che, con i loro limiti e le loro contraddizioni che li arricchiscono facendoli più umani, aventi al contempo diritti e doveri verso sé stessi e verso gli altri, coltivano con onestà e lealtà, ascoltando e riflettendo, una passione per lo studio e il lavoro, una vocazione per il bene comune, per formarsi in quanto esseri umani consapevoli e liberi e per migliorare la società a cui appartengono.

 

Questa lettera vuole essere un appello alle coscienze dei cittadini italiani, di qualsiasi opinione politica e ceto sociale, che credono nel ruolo faro della scuola, della scienza delle lettere e delle arti, ma ci auguriamo possa fungere anche da volano per una rinascita di una certa umanità e della cultura del Paese.

C’è urgente bisogno di indicare una prospettiva a migliaia di giovani, di immaginare un orizzonte diverso per chi verrà dopo di noi. Se la ragione e la riflessione sono necessarie per uno studio ed esame critico dei fenomeni e delle situazioni reali, l’immaginazione e la volontà lo sono per costruire un futuro diverso.

 

 

 

PRIMI FIRMATARI

 

Sergio ALBEVERIO (Accademia Nazionale dei Lincei/ Università di Bonn)

Eleonora ALFANO (Università di Roma «Tor Vergata»/Paris 1-Sorbonne)

Novella BELLUCCI (Università di Roma «La Sapienza»)

Claudio BARTOCCI (Università di Genova)

Fabio BENTIVOGLIO (Liceo U. Dini, Pisa)

Luciano BOI (EHESS/Collège International de Philosophie, Paris)

Florian BOLLOT (Pianista e compositore, Paris)

Alberto BRIGHENTI (Politecnico Torino/CEA Paris)

Ugo BRUZZO (Trieste, SISSA)

Marco CAMPANA (Artista, Ravenna)

Enrico CASTELLI GATTINARA (Università di Roma «La Sapienza»)

Antonio CECERE (Università di Roma «Tor Vergata»)

Antonio CORATTI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Umberto CURI (Università di Padova)

Roberto FINELLI (Università Roma Tre)

Saverio FORESTIERO (Università di Roma «Tor Vergata»)

Françoise GRAZIANI (Università di Corte)

Ezio LACONI (Università di Cagliari)

Thierry LEHNER (CNRS e ENS, Parigi)

Carlos LOBO (Archives Husserl, Paris)

Giuseppe LONGO (ENS, Paris)

Chiara MAGNI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Lamberto MAFFEI (Scuola Normale Superiore e Accademia Nazionale dei Lincei)

Maria Laura MONGILI (Università di Cagliari)

Silvia MORANTE (Università di Roma «Tor Vergata»)

Laura PAULIZZI (Università di Roma «Tor Vergata»)

Gaspare POLIZZI (Università di Pisa)

Paolo QUINTILI (Roma «Tor Vergata»/Collège International de Philosophie, Paris)

Carlo Alberto REDI (Accademia Naz. dei Lincei/Comitato Etica Fondazione Veronesi)

Giancarlo ROSSI (Roma «Tor Vergata»/INFN)

Silvia ROMEO (Artista, Siena/Paris)

Luca VARGIU (Università di Cagliari)

Giuseppe VITIELLO (Università di Salerno /INFN)

Luigi ZUCCARO (Milano, Fondazione Progetto Arca)

 

La libertà, la morte, lo Stato. Filosofie e ideologie della questione pandemica

di Emiliano Alessandroni

1. Libertà 2. Società 3. La meditatio mortis
4. Cospirazionismo e complottismo 5. Il quadro internazionale

1. Libertà

Pochi esempi sembrano così eloquenti, per quanto concerne le influenze esercitate dall’ideologia sulla semantica, di ciò che nella storia del linguaggio è accaduto alla parola “libertà”, oggi al centro di un acceso dibattito filosofico e politico sul valore delle misure anti-pandemiche. Questa parola è stata infatti evocata, nel corso della storia, all’interno delle circostanze più svariate e di rivendicazioni fra loro persino contrapposte. “Libertà!” gridavano, ad esempio, gli schiavi neri in rivolta a Santo Domingo e negli Stati Uniti del Sud. Ma “libertà!” gridavano anche i proprietari di schiavi che negli Usa agognavano la secessione dal Nord per continuare a perpetrare la schiavitù su base razziale e chiedevano che lo Stato, il governo centrale, non si intromettesse nei propri affari commerciali.
Nell’ambito della modernità occidentale, in particolar modo, vediamo spesso incontrarsi e non molto meno spesso scontrarsi, almeno tre idee generali di libertà.
1. Una prima idea collega tre orientamenti di pensiero differenti: tradizione anarchica, liberale e socialdarwinista. La parola “libertà” assume, all’interno di essi, configurazioni fra loro eterogenee, riconducibili tuttavia a una sorgente comune: la sorgente dell’arbitrio, della spontaneità, del laissez faire, dell’assenza di vincoli, del fare ciò che si vuole. Come acerrimi nemici di questa libertà vengono allora percepiti lo Stato in quanto tale, la norma, le regolamentazioni politiche nazionali; tutti bersagli polemici, non a caso, di autori fra loro pur così distanti come Michael Bakunin, Friedrich von Hayek ed Herbert Spencer. La regolamentazione della vita pubblica da parte dell’apparato giuridico costituisce di per sé un attacco alla libertà, una distorsione dell’ordine naturale e spontaneo delle cose. Ma questa celebrazione del naturale e dello spontaneo, all’interno di un mondo in cui i rapporti di forza sul piano ideologico, politico ed economico risultano squilibrati, non può che tramutarsi in una legittimazione del privilegio e dell’oppressione. Tale visione della libertà, d’altro canto, risulta meramente formalistica: a essa sembra non competere alcun contenuto specifico o il contenuto specifico che di volta in volta questa presunta forma vuota assume viene presentato come irrilevante. Così alla “libertà” può essere associato ogni contenuto di volontà: chi vuole il Green Pass, chi non lo vuole, chi vuole curare i malati negli ospedali con i riti magici, chi vuole che non lo faccia, chi vuole uccidere i cinesi, chi vuole sparare ai gommoni, libertà potrebbe essere a questo punto tutto…e quindi nulla. Nulla, soprattutto, in grado di trasformare e riequilibrare in senso più inclusivo e universalistico i rapporti sociali vigenti.
Come che sia, aggrappati a questa visione formalistica della libertà, la tradizione anarchica, quella liberale e quella socialdarwinista, talvolta in maniera ibrida, rivivono in Italia nelle rivendicazioni di Giorgio Agamben, dei Wu Ming, di Diego Fusaro, di Massimo Cacciari, di Carlo Lottieri, di Nicola Porro, di Vittorio Sgarbi, di Giuseppe Cruciani, di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni, di Roberto Fiore, dei manifestanti di Trieste, di Enrico Montesano e di molti altri; tutti, sia pur nella loro diversità, impegnati a denunciare nell’introduzione del Green Pass una deriva autoritaria del paese e un feroce attacco alla libertà.
2. Una visione non meno formalistica di quella appena osservata affligge tuttavia, a ben vedere, anche quel concetto di libertà che incontriamo nella tradizione contrattualistica (in Rousseau ad esempio) e che per certi versi ha finito poi per penetrare all’interno della concezione liberaldemocratica (grazie soprattutto alle spinte di un movimento operaio e socialista che ha premuto per cancellare dal suffragio e dai diritti politici quelle clausole di esclusione e quelle restrizioni censitarie che il protoliberalismo non soltanto difendeva ma apertamente teorizzava): “la libertà di ognuno”, è diventato ormai slogan comune, “finisce dove comincia quella degli altri”.
Si tratta ancora una volta, dicevamo, di una concezione che riduce la libertà a una vuota forma: a essa sembra non competere infatti nessun contenuto specifico, nessuna volontà razionale, ma soltanto la volontà del singolo nel suo arbitrio particolare. Il carattere contraddittorio di questa concezione emerge dal fatto che ognuno, ogni singolarità, reclama per sé stessa una libertà che spesso si rivela inconciliabile con quella altrui. Non è un caso che a questo principio (“la tua libertà finisce dove comincia la mia”) si sono richiamati sia coloro che legittimavano le misure anti-pandemiche, sia coloro che le respingevano. Ognuno dei due fronti chiedeva all’altro di rinunciare alla sua rivendicazione affinché la propria libertà e il proprio diritto venissero rispettati e garantiti. Questo concetto di libertà, però, non ci permette di capire da quale parte stesse la ragione.
3. A fare luce sul problema e a sciogliere l’impasse, può intervenire allora la tradizione hegelomarxista, per la quale la libertà non è né l’arbitrio (ovvero il “fare ciò che si vuole”) né la mediazione degli arbitri (ossia la mediazione dei diversi “fare ciò che si vuole”). Per essa la libertà è un contenuto che si intona con la razionalità del mondo e l’interesse universale. Libero può definirsi allora quell’individuo che viene posto nelle condizioni di desiderare per sé ciò il cui conseguimento costituisce al tempo stesso un’acquisizione universale. E non è tutto: non è infatti sufficiente la convergenza fra il desiderio particolare e l’interesse universale, è necessario che tale convergenza si riempia di coscienza, di sapere, che i singoli uomini diventino cioè consci della coincidenza di contenuto fra il loro desiderio soggettivo e il bene del genere umano.
Nella filosofia del diritto Hegel conferisce ampia legittimazione al “diritto di proprietà”. Tuttavia, nella situazione in cui un povero sul punto di morire di fame commette un furto (e dunque una violazione del diritto di proprietà) al fine di garantirsi la sopravvivenza, sopraggiunge in quel caso il Notrecht, il “diritto del bisogno estremo”.
Accade allora che il “diritto di proprietà” entra in conflitto con il “diritto del bisogno estremo”, e di fronte a questa collisione il primo dei due finisce, secondo il filosofo tedesco, in secondo piano.
Perché? – potremmo domandarci. Perché, ad esempio, Hegel non afferma il contrario, come fanno i classici del pensiero liberale, e cioè non sostiene che il cosiddetto “diritto del bisogno estremo” resta in ogni caso subordinato al “diritto di proprietà”?
La spiegazione è ben presto data. Perché la violazione del “diritto di proprietà” costituisce sì una violazione della persona (del proprietario in questo caso), ma una violazione parziale, limitata cioè a quella data cosa (o sfera) di cui il proprietario viene privato. Di contro, la violazione del “diritto del bisogno estremo”, diventa invece una violazione della persona ben maggiore della violazione del “diritto di proprietà”; diventa infatti una violazione totale. E se per Hegel la schiavitù è espressione di un “delitto assoluto”, per ciò che implica un potere assoluto di vita o di morte da parte del proprietario di schiavi nei confronti del proprio schiavo, allora il “diritto alla vita” costituisce un “diritto assoluto” che va anteposto a ogni altro diritto. Tutto fuorché suscettibile di avvicinarsi a uno Stato etico risulta allora quello Stato, secondo il filosofo tedesco, che relega in secondo piano la difesa della libertà di esistenza e il diritto alla vita.
Rimane a questo punto aperto il quesito su chi, nel corso della presente pandemia, una tale libertà di esistenza e un tale diritto alla vita li abbia maggiormente difesi, su chi vale a dire si sia impegnato a garantire la libertà più universale, tenendo in debito conto proprio quel monito di Hegel secondo cui, «quando si parla di libertà, bisogna fare sempre attenzione che [in luogo di interessi universali] non siano in realtà interessi privati quelli di cui si sta parlando» [ref] Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, trad. it., Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, Laterza, Bari 2003, p. 350.[/ref].

2. Società

Abbiamo posto libertà e diritto al centro di queste considerazioni, ma affinché questi due valori universali e inestricabili siano garantiti, è necessario che sia garantita anche l’esistenza della società. Nello stato di natura, infatti, non esiste il diritto: a regolare i conflitti che sorgono fra gli esseri viventi è essenzialmente la forza. Ma l’uomo costituisce un essere vivente che, oltre alla natura biologica, vanta anche una “seconda natura”, a cui spetta il compito di distinguerlo da tutti gli altri esseri viventi. Sicché la più intima specificità dell’uomo è la specificità sociale: la società è ciò che rende ogni essere umano essenzialmente ciò che è, l’anima che lascia impresso il proprio sigillo nei contenuti di tutta la sua vita. Qualunque essere umano che voglia rivendicare un diritto o una libertà è dunque costretto intimamente a riconoscere il valore della società (che è altra cosa dal conferire legittimazione a qualunque società specifica). E che cos’è la società se non una regolamentazione, attraverso un complesso di norme, della vita collettiva?
Ma un complesso di norme, va tenuto conto, limita e indirizza le volontà, traccia i confini e imprime direzione alla galassia dei differenti “far ciò che si vuole”. È soltanto attraverso questa gamma di limitazioni e stimoli normativi che la libertà e il diritto possono trovare realizzazione. Infatti, non potrebbero esistere diritti se non esistessero anche doveri e divieti. Naturalmente, ammettere l’imprescindibilità di doveri e di divieti per l’esistenza di diritti, non significa legittimare ogni dovere e ogni divieto specifici, così come, d’altro canto, ammettere l’imprescindibilità dei diritti non equivale a legittimare ogni diritto determinato (il diritto di proprietà sull’essere umano, ad esempio, il diritto di proprietà sullo schiavo, è stato per fortuna, a suon di lotte e rivolte servili, giuridicamente e culturalmente delegittimato). Resta tuttavia che l’esistenza di doveri e di divieti costituisce la condizione necessaria per l’esistenza stessa dei diritti. Quando vengono rifiutate le vaccinazioni, allora, declamando l’inaccettabilità del fatto che lo Stato imponga un obbligo all’individuo, quando viene rifiutato il Pass vaccinale o di buona salute per accedere agli edifici a uso pubblico con l’argomentazione che l’imposizione di divieti da parte dello Stato costituisce una lesione della libertà individuale, si stanno inconsapevolmente delegittimando i requisiti minimi, le condizioni fondamentali nelle quali soltanto l’individuo può disporre di diritti e beneficiare della libertà.
Lo stesso dicasi per il concetto di “biopolitica”: lungi dal costituire il luogo della manipolazione, della sottrazione dei corpi dal terreno della libera propensione naturale, essa costituisce piuttosto l’essenza di quella “seconda natura” (di cui in modo diverso hanno parlato sia Hegel che Leopardi) senza la quale l’uomo non sarebbe uomo. Certo, come nei casi appena osservati, la legittimazione della biopolitica non implica la legittimazione di tutte le sue varianti: è giusto e sacrosanto denunciare e combattere quelle biopolitiche che ostacolano i processi di emancipazione sociale e soffocano le spinte propulsive verso l’acquisizione di diritti. Ma è altresì fondamentale non perdere di vista la dialettica che si sviluppa fra le diverse tipologie di biopolitica, i conflitti che si determinano fra una biopolitica emancipatrice e una biopolitica de-emancipatrice, fra biopolitiche progressive e biopolitiche regressive, non perdere di vista il fatto che la biopolitica in quanto tale resta in ogni caso il terreno su cui soltanto la libertà può darsi, il terreno che esprime la più specifica essenza umana, la conseguenza inevitabile dell’essere essenzialmente l’uomo, come evidenziava Aristotele, uno zoon politikon.
Un punto va dunque tenuto fermo: non sono mai esistiti, né mai esisteranno, libertà e diritti senza biopolitica. Nel Quaderno 22, Antonio Gramsci ci ha lasciato riflessioni importanti sul potenziale di libertà (e con ciò si intende qui anche libertà del corpo), contenuto nella biopolitica. E benché non abbia utilizzato esplicitamente questo termine ha indubbiamente alluso al fatto che tutta la liberazione del corpo conseguita dall’essere umano nel corso della sua storia, la liberazione di una molteplicità di movimenti muscolari dalla gabbia naturale nella quale erano inizialmente ingessati, è stata un processo educativo ed è stata essenzialmente una questione di biopolitica.
Del tutto privi di senso storico si dimostrano invece gli accostamenti fra il Pass vaccinale o di buona salute e le misure di despecificazione naturalistica o etnico/razziale in vigore nella Germania nazista. Accostamenti che hanno giustamente suscitato l’indignazione della senatrice Liliana Segre, che, internata da bambina nel campo di concentramento di Malchow, poi fortunatamente liberato dall’Armata Rossa, ha vissuto in prima persona tutto l’orrore delle leggi razziali.
D’altro canto, se proprio un accostamento con la Germania nazista e la despecificazione naturalistica vogliamo tracciarlo, questo più che riguardare l’obbligo vaccinale o il Green Pass in sé, chiama piuttosto in causa proprio il rifiuto delle misure antipandemiche. Quando si partisse almeno, come nella maggior parte dei casi, dal presupposto che il virus sia reale, come sono stati reali i morti[ref] Certo, alcuni sostengono che il numero di morti sia stato gonfiato e che siano stati rubricati come “morte per Covid-19” dei decessi avvenuti in realtà per altre cause. Costoro tuttavia dimenticano sempre di tenere conto delle “morti indirette per Covid-19”, che non vengono registrate come “morti per Covid-19”: durante il picco di contagi infatti, gli ospedali erano costipati di malati e le terapie intensive così piene da scoppiare. Quella situazione ha impedito le cure ospedaliere a molte altre persone che soffrivano di altri disturbi e che sono decedute per impossibilità di ottenere le cure adeguate. La causa indiretta del loro decesso è stata il Covid-19, eppure non essendo stata questa la causa diretta, non sono state registrate come “morti da Covid-19”.  [/ref], e non una semplice montatura massmediatica di dimensioni planetarie, quando si ammettesse in qualche modo la letalità del Covid-19, quale significato potrà assumere il rifiuto delle misure di contenimento se non una sorta di una più o meno conscia adesione alle concezioni socialdarwiniste ed eugenetiche? È questo invito al “convivere con la morte”, a non avere paura della morte, ad accettare la selezione naturale del più adatto, a considerare come pacifico e ineluttabile l’eliminazione delle figure umane geneticamente più fragili, che mostra oggi punti di contatto con quel terreno discorsivo da cui l’ideologia nazista ha potuto spiccare il salto.

3. La meditatio mortis

La diffusione della pandemia e le sue tragiche conseguenze hanno anche alimentato una riflessione sul tema della paura e della morte: «La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa»[ref]G. Agamben, Chiarimenti, Quodlibet 17-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti.[/ref] , aveva scritto Giorgio Agamben, tanto che «sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia»[ref]G. Agamben, Riflessioni sulla peste, Quodlibet 27-03-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste. [/ref]. E su “La Verità”, già Marcello Veneziani: «Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire»[ref]M. Veneziani, Il pericolo di una dittatura sanitaria, La Verità, 15/03/ 2020.[/ref]. Ecco allora che una società che adotta le misure antipandemiche, come lockdown e coprifuoco, si rivela «una società vigliacca che ha paura anche della propria ombra e rinuncia a vivere pur di salvare la vita», una società suscettibile di distruggere le nostre civiltà millenarie, quelle nostre «civiltà tradizionali» che tendenzialmente non rifuggono, ma «addomesticano il dolore, la morte, la vecchiaia, la solitudine» rendendole «familiari» e inserendole «in un ordine naturale e soprannaturale del mondo, in un rito e in una visione religiosa». La nostra società al contrario, che va sempre più “cinesizzandosi” e “comunistizzandosi”, disgraziatamente «allevia, rinvia, nasconde ed espelle il dolore, la morte, la vecchiaia e la solitudine, grazie alla tecnologia, alla medicina, al benessere, alle distrazioni»[ref]M. Veneziani, Fuga in massa dal dolore, Panorama n.9, 2021.[/ref].
Dietro le spalle di Veneziani agisce evidentemente il pensiero di un filosofo a lui molto caro: in una conferenza tenuta nel 1914 sul tema “La filosofia della guerra”, Giovanni Gentile, di lì a poco ministro dell’istruzione del prossimo governo fascista, celebra il primo conflitto mondiale come un’imperdibile occasione per l’anima umana di purificarsi attraverso il dolore.
Ma la sua posizione non è isolata: è in questo contesto che il tema della meditatio mortis conosce la sua massima espansione. In una lettera alla madre, Max Weber esprime il proprio rammarico per non potere vivere personalmente l’esperienza del fronte: «essere all’altezza dell’orrore della guerra…questo è autentico esser uomini», affermava. La moglie Marianne decanta a sua volta «i tratti dei soldati in congedo…vigilanza interiore, severa responsabilità e le esperienze vissute nella vicinanza alla morte»[ref]Cfr. Losurdo, p. 11.[/ref] . E secondo Husserl, nel 1917, ancora in pieno conflitto bellico, «la situazione critica e la morte sono oggi gli educatori…La morte si è di nuovo conquistato il suo sacro diritto originario». D’altro canto, nel 1915, Sigmund Freud si esprimeva in questi termini:

La vita si impoverisce, perde d’interesse se non è lecito rischiare quella che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa…La tendenza a escludere la morte dal libro maestro della vita ci ha così imposto molte altre rinunce ed esclusioni. Pure il motto anseatico diceva: Navigare necesse, vivere non necesse. Navigare è necessario, vivere non è indispensabile!

È la guerra per Freud che ha ridestato la vita dal suo pavido sonnambulismo: «la guerra doveva spazzar via questo modo convenzionale di considerare la morte…E la vita è nuovamente divenuta interessante, e ha ritrovato tutto il suo contenuto»[ref] Ivi, p. 13.[/ref]. Analoga anche la posizione di Wittgenstein che, arruolatosi volontario al fronte, parla della vicinanza alla morte come ciò che potrà infondergli la luce della vita. Spesso nel celebrare la guerra, l’esperienza della morte e il coraggio di fronte ad essa come nutrimenti fondamentali dello spirito, i filosofi tedeschi indicavano negli Stati Uniti, nella Francia e nell’Inghilterra (ovvero nei paesi in conflitto con la Germania), i luoghi infernali in cui avevano trionfato il gretto materialismo, il naturalismo, l’attaccamento alla nuda vita, di contro ovviamente alla propria nazione che, impavida di fronte alla morte, consacrava il valore dell’anima e della spiritualità. Si tratta chiaramente di un’interpretazione ideologica del conflitto mondiale. Ma un’interpretazione che aveva finito con l’attecchire anche presso i propri nemici. Una medesima lettura manichea la ritroviamo infatti, ad esempio, anche nelle parole dell’allora Primo Ministro francese Clemenceau. Diametralmente opposto risulta tuttavia il giudizio, che deride il culto della morte ravvisato presso i tedeschi:

È proprio degli uomini amare la vita. I tedeschi non hanno questo impulso…Al contrario, sono colmi di una morbosa e satanica nostalgia per la morte. Come amano la morte, questi uomini! Frementi come in stato d’ebrezza e con un sorriso estatico, guardano ad essa come a una sorta di divinità…Anche la guerra è per loro un patto con la morte.

Anche se, dobbiamo precisare, un filosofo come Wittgenstein rivedrà le proprie posizioni e, prima ancora della fine del conflitto, si renderà conto che la guerra, anziché un momento di maturazione spirituale attraverso la meditatio mortis, costituisce a ben vedere «la completa vittoria del materialismo e il tramonto di ogni sensibilità per il bene e il male», i temi del dolore, della vita biologico/materiale, della morte, della sicurezza, della paura ecc., costituiscono i pilastri centrali, i fulcri semantici, della Kriegsideologie[ref] Su tutto il dibattito relativo alla meditatio mortis, cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 3-23.[/ref].
Essi troveranno un riscontro anche in pensatori come Ernst Jünger e Karl Jaspers. Quest’ultimo in particolar modo, affermando che il rischio della vita e la vicinanza alla morte sono preferibili all’asservimento, celebrava il duello (pratica al tempo ancora vigente), come strumento di regolamentazione dei conti fra gli individui e come momento in cui l’uomo, mettendosi in gioco, poteva acquisire la piena autocoscienza. Ancora nel 1932 scriveva: «La vita autentica è diretta alla morte, la vita più povera è diretta all’angoscia di fronte alla morte»[ref]Cfr. Ivi, p. 27.[/ref]. È nel solco di queste argomentazioni che compongono la variegata costellazione della Kriegsideologie, che Heidegger matura le sue convinzioni sull’angoscia, la paura e l’Essere-per-la-morte, fondamento ontologico quest’ultimo dell’Esistenza autentica. Non è un caso che egli indica proprio nella prima guerra mondiale, l’evento che ha messo in discussione l’Esistenza inautentica, la vita banausica e borghese del “Si” impersonale, dell’uomo massificato e privo del coraggio necessario per attraversare l’angoscia di fronte alla morte, dell’uomo filisteo e mediocre che vuole evadere dalla zona pericolosa dell’esistenza. E questi temi ritornano in Heidegger, con una serie infinita di connessioni, nel corso della seconda guerra mondiale. Ed è proprio ad Heidegger che Agamben si richiama esplicitamente nel condannare la paura come un costrutto sociale, come il tratto distintivo di quella vita inautentica che contraddistingue la modernità:

La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.

 

Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia – ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa –, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura[ref]G. Agamben, Che cos’è la paura?, Quodlibet 20-07-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cos-u2019-a-paura. [/ref].

È tuttavia curioso che nel condannare la paura, e nello specifico la paura della morte, come prigione della vita, Agamben rivolga la sua condanna unicamente alla paura del virus e mai a quella del vaccino. Perché, potremmo domandarci, la paura del vaccino dovrebbe essere meno “volontà di impotenza” della paura del Covid-19? Perché tanto livore contro chi, a suo avviso, diffonde la paura della pandemia ma non una parola spesa su quelle piattaforme di orientamento reazionario come “Byoblu”, “Informare per Resistere” e “Imola Oggi” che, già sostenitrici delle strampalate teorie sul Piano Kalergi, alimentano il complottismo storico e, a colpi di notizie false o distorte, creano e diffondono ad arte il terrore per le terapie di immunizzazione? Dove finisce l’invito di Agamben a superare la paura, a recuperare l’heideggeriano coraggio di fronte alla morte, quando si tratta di vaccinazioni?
Più che ad Heidegger, in realtà, e ai discorsi dei vari esponenti della Kriegsideologie, ci sembra qui più opportuno riesumare questa considerazione di Rosenzweig che incontriamo ne La stella della redenzione:

La filosofia che davanti [all’uomo] esalta la morte come propria prediletta e come la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita, sembra soltanto prendersi gioco di lui. L’uomo sente fin troppo bene di essere condannato alla morte, ma non al suicidio[ref]Cfr. Losurdo, cit., p. 180.[/ref].

È in questi termini che Rosenzweig si fa beffe della Kriegsideologie, di tutta la filosofia che inneggiava all’eroismo, al sacrificio, che esortava a sfidare la morte. Si può allora affermare oggi, sulla scorta di queste considerazioni, come la sostanziale sollecitazione a non temere la perdita della vita, a respingere le misure antipandemiche, a non avere paura del virus (che, si tenga presente, ha già ucciso allo stato attuale oltre 5 milioni di persone – sono le cifre di un olocausto) mentre si alimenta invece la paura nei confronti del vaccino (qui il “coraggio di fronte alla morte” non viene più evocato, nonostante il vaccino costituisca lo strumento finora più adeguato, fra quelli a disposizione, per evitare un’impennata dei decessi e altri tipi di restrizioni), sia, con le parole di Rosenzweig, più che “la nobile occasione per sottrarsi alle angustie della vita”, ovvero alle angustie della “nuda vita”, una vera e propria “condanna al suicidio”.

4. Cospirazionismo e complottismo

L’assenza, o quantomeno la carenza, in Occidente, di una sinistra sociale e autenticamente internazionalista, in grado di stimolare processi di emancipazione e indirizzare la rabbia dei ceti subalterni verso rivendicazioni di carattere universalistico, anziché verso particolarismi, corporativismi e arroccamenti identitari, ha fatto registrare, sul piano del dibattito, una complessiva scarsità di quegli strumenti analitici legati alla sua tradizione culturale. In luogo del materialismo storico e della dialettica, propensi a vagliare le connessioni esistenti fra interessi e pratiche discorsive, ma anche ad analizzare i rapporti di forza economici e politici su scala planetaria, nonché i diversi conflitti di potere, si è affermata allora una tendenza deteriore e più accessibile a quell’“analfabetismo di ritorno” già denunciato a suo tempo da Tullio De Mauro (e che comporta naturalmente anche un preoccupante analfabetismo politico): il complottismo storico. Tutto viene semplificato e ogni fenomeno reale ricondotto alla volontà di pochi soggetti (talvolta nominati, altre volte indicati generalmente come “poteri forti”) che tesserebbero la tela degli avvenimenti con un’impeccabile precisione, con una meticolosità degna di un dio. L’analisi del quadro politico, lo studio della storia, l’esame delle linee tendenziali dei vari conflitti, vengono gettati nella pattumiera, nulla serve più a niente. L’intero quadro politico/sociale è divenuto magicamente semplice e ognuno può capirlo con facilità: tutto ciò che è, è così perché alcune persone, per perseguire i propri interessi, vogliono che sia così. Qualcuno arriva a teorizzare che l’intera storia del genere umano altro non sarebbe che il disegno della volontà di pochi soggetti che si tramandano il mondo di generazione in generazione, giocando con le nostre vite, come fossimo marionette di cui soltanto loro, di padre in figlio, controllano i fili. Certo, è il trionfo della semplificazione, ma non solo. Sul piano filosofico è la morte della dialettica e l’apoteosi del soggettivismo: nessuna dialettica delle volontà e nessuna dialettica del potere. Proprio come la biopolitica così anche la volontà e il potere vengono pensati come fossero sostanze uniformi e privati della loro dinamica interna: i conflitti tra le biopolitiche, i conflitti tra le volontà e i conflitti tra i poteri (ancorché fra loro non equipollenti), scompaiano come per incanto trasformando dunque “biopolitica”, “volontà” e “potere” in entità astratte. Ma questa morte della dialettica e questa apoteosi del soggettivismo significano sul piano più prettamente politico la rivalsa della tradizione controrivoluzionaria. È in essa che incontriamo la facile sostituzione del “materialismo storico” con il “complottismo storico” come criterio con cui fornire le spiegazioni degli avvenimenti. Così ad esempio, rimuovendo le “contraddizioni oggettive” fra lo sviluppo dello spirito e le istituzioni politiche (Hegel) e quelle fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione (Marx), la Rivoluzione Francese viene spiegata dagli ideologi della Restaurazione come il complotto di un pugno di agitatori, dalla natura malvagia, folle e malata. Una simile dinamica si ripresenta con lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre. Nel mondo liberale comincia a essere agitato lo spettro del “complotto ebraico/bolscevico”: i tipografi della corona inglese stampano “I Protocolli dei Savi di Sion” (poi rilanciati da Hitler per presentare le proprie persecuzioni antisemite come una legittima difesa di fronte a un’incombente e terribile minaccia) e Winston Churchill parla apertamente di una «cospirazione mondiale per il rovesciamento della civiltà». La cultura reazionaria denuncia il grave pericolo in cui si trovavano le tradizioni, le identità nazionali, le peculiarità territoriali a causa dell’ascesa di comunisti ed ebrei sulla scena storica. Sì, le culture millenarie delle nazioni erano ormai sul punto di soccombere per colpa della «repubblica internazionale» voluta dai bolscevichi e dall’ebraismo apolide. L’ebreo viene denunciato come freischwebend, privo di radici e di storia, incarnazione di uno spirito mercantile e utilitarista («un parassita e un autentico mercante» lo definisce Carl Schmitt) e incline a entusiasmarsi per parole torbide come «internazionale». Dunque ebrei e comunisti, facce di una stessa medaglia, costituiscono gli artefici di un enorme complotto: un complotto di dimensioni planetarie che, come denunciava ancora Carl Schmitt, va da «Rothschild» a «Karl Marx»[ref]Su ciò cfr. Losurdo, cit. pp. 93-111[/ref]. Il nazismo si presentava allora come un eroico atto di resistenza, come una difesa della libertà minacciata da questa gigantesca cospirazione. Così come un atto di libertà si presentano quelle teorie che denunciano in un fantomatico “Piano Kalergi”, un complotto per sostituire l’etnia europea con le popolazioni provenienti dall’Africa o dall’Asia, nella presunta idea che l’annientamento delle identità nazionali e locali, ma anche l’intorbidamento della razza bianca attraverso il meticciato, sia per i gruppi economici transnazionali la via migliore per garantirsi il proprio incontrastato dominio. Ancora una volta lo stesso concetto di “economia” (o di “gruppi economici”) viene privato di una sua dialettica interna e reso uniforme in una semplificazione senza precedenti che riconduce nuovamente a una manciata di volontà soggettive una serie infinita di avvenimenti. Come nel caso delle persecuzioni naziste, anche in questo caso colpire i flussi migratori viene presentato come un atto di resistenza contro la volontà delle elite, contro la loro cospirazione: contrastare le politiche di integrazione e accoglienza diventa, vale a dire, secondo le tesi del “complottismo storico”, un atto di libertà.
Quanto si allontanano da queste narrazioni tipiche della tradizione reazionaria, le odierne visioni che riconducono tutti gli avvenimenti della pandemia da Covid-19 alla volontà soggettiva, nella sostanza al complotto, di pochi “gruppi economici” transnazionali, ovvero di poche “case farmaceutiche”? Quanto si discosta dalle narrazioni tipiche della tradizione reazionaria chi ha parlato della pandemia come di una vera e propria «invenzione» (dunque nuovamente come di un complotto) per opera dei «media», delle «autorità» e dei «governi» (ancora una volta, nel processo di semplificazione della logica populista queste tre istanze vengono uniformate e private di dialettica interna) finalizzata a varare «provvedimenti d’eccezione» e «limitazioni della libertà»[ref]G. Agamben, L’invenzione di un’epidemia, Quodlibet, 26-02-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia. [/ref]? Quanto si discosta da quelle narrazioni chi ha dipinto l’«emergenza sanitaria» come «il laboratorio in cui si preparano», in maniera soggettiva e volontaristica, «i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità»[ref]G. Agamben, Distanziamento sociale, Quodlibet, 06-04-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale. [/ref]? A ben vedere, a uno sguardo più attento, il complottismo di Agamben si riconnette alla tradizione reazionaria non soltanto sul piano metodologico, ma anche su quello dei contenuti: esso rivela infatti tutti i tratti del suprematismo occidentale (un mito particolarmente caro ai teorici della “white supremacy” – come Lothrop Stoddard, che indicava nei “neri” e “nei gialli” la “minaccia del sotto-uomo” in procinto di avanzare contro la civiltà bianca – a Oswald Spengler e agli stessi ideologi del Terzo Reich): «È possibile, infatti», a suo avviso, «che noi stiamo oggi assistendo a un conflitto fra il capitalismo occidentale, che conviveva con lo stato di diritto e le democrazie borghesi e il nuovo capitalismo comunista, dal quale quest’ultimo sembra uscire vittorioso», un conflitto in sostanza fra un capitalismo civile, quello bianco e occidentale, e un capitalismo barbaro, di matrice comunista, quello giallo e orientale: è infatti questo «il significato storico del ruolo di guida che sta assumendo la Cina non solo nell’economia in senso stretto, ma anche, come l’uso politico della pandemia ha mostrato eloquentemente, come paradigma di governo degli uomini»[ref]G. Agamben, Capitalismo comunista, Quodlibet, 15-12-2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-capitalismo-comunista.  [/ref]. Insomma, mancano ormai soltanto “I protocolli dei savi di Mao Zedong”: le misure antipandemiche rappresenterebbero ad avviso di Agamben un processo di “cinesizzazione” del mondo. L’erosione del suprematismo occidentale e dell’unipolarismo americano, la riduzione del potere globale degli Usa, che possiedono ancora circa 800 basi militari sparse per il mondo, vengono viste da Agamben come una minaccia. La resistenza contro le misure antipandemiche costituirebbe allora anche un atto di resistenza contro il “yellow peril”, contro il processo di “comunistizzazione” e “cinesizzazione” del pianeta. Insomma, dopo la teoria del “complotto ebraico/bolscevico” cara alla tradizione reazionaria del primo Novecento, Agamben si propone di combattere oggi le misure di contenimento della pandemia diffondendo la teoria del “complotto sino/comunista”. Non è un caso che la medesima minaccia da lui percepita venga denunciata anche da un intellettuale di orientamento apertamente reazionario come Marcello Veneziani, il quale paventa, dal canto suo, l’instaurarsi nel nostro paese di un «comunismo sanitario», pronto a ridistribuire «i redditi, livellando ogni attività», ma soprattutto a ridefinire il «capitalismo dentro una gabbia statuale, come accade già nel modello maocapitalista cinese». Sarebbe, ad avviso dell’intellettuale noto anche per le sue difese della figura di Mussolini, un vero e proprio incubo: «la crescita del modello asiatico, l’egemonia della Cina comunista, la caduta di leadership degli Stati Uniti»[ref]M. Veneziani, Dopo la pandemia, Mondo nuovo, maggio 2020.[/ref]. La “minaccia del sotto-uomo”, insomma, il “yellow peril” e il “complotto sino/comunista”, con la loro messa in discussione del suprematismo occidentale, stanno tentando di iniettare, attraverso le misure antipandemiche, la loro barbarie nelle vene del mondo bianco e civilizzato, e così facendo preparano il decadimento dei nostri superiori costumi sociali, preparano, vale a dire, ciò che Spengler aveva già a suo tempo definito “il tramonto dell’Occidente”.

5. Il quadro internazionale

Se siamo d’accordo nel pensare la libertà non già come una vuota forma ma come un contenuto dal valore universale, non possiamo allora fare a meno di riscontrare come nel corso della pandemia da Covid-19, fra i vecchi sistemi a conduzione capitalistica (vedi in primo luogo Stati Uniti ed Europa) e gli esperimenti sociali a orientamento socialista (vedi Cuba, Cina e Vietnam) – per quanto questo possa sembrare un paradosso agli occhi di quel suprematismo occidentale che identifica “Occidente” e “democrazia” ed è abituato a concepire la “libertà” unicamente come “libertà dell’Occidente” e mai come “libertà dall’Occidente” – siano stati i secondi ad avere difeso ben più dei primi il valore dell’universalismo e la causa della libertà. Nei primi infatti la libertà del potere economico (la libertà particolaristica) ha inficiato la libertà di esistenza e il diritto alla vita (la libertà universalistica), ben più che nei secondi.
Questo può essere constatato non soltanto dal punto di vista delle scienze matematiche (confrontando cioè il numero dei decessi fra gli uni e gli altri, ovvero l’impegno e la capacità con cui rispettivamente hanno difeso il diritto alla vita all’interno del proprio dominio), ma anche dal punto di vista dello spirito generale e dei comportamenti via via assunti su scala planetaria. Fin dal primo momento la Repubblica Popolare Cinese ha esortato tutti i paesi del mondo a mettere da parte gli asti politici, a cooperare, a coordinarsi tutti insieme nella lotta contro il Covid-19: «L’epidemia ci mostra chiaramente che il virus non conosce confini nazionali, non distingue tra Nord, Sud, Est o Ovest. Nessun Paese può affrontarlo da solo, soltanto unendo le forze è possibile vincere questa sfida»[ref]M.G. Napolitano, Ambasciatore cinese: “Gli aiuti? Siamo amici, vogliamo salvare vite”, Adnkronos, 05-04-2020.[/ref], ha affermato ad esempio l’ambasciatore cinese in Italia. Così ben presto alle parole sono seguiti i fatti: soltanto alla nostra penisola la Repubblica Popolare ha inviato «31 tonnellate di materiali, tra cui equipaggi per macchinari respiratori, tute, mascherine….alcune medicine anti virus insieme a sangue e plasma»[ref]Coronavirus, l’aiuto cinese all’Italia: “Materiale, esperti e i risultati del lavoro di migliaia di medici”, La Stampa, 13-03-2020.[/ref]. Nelle Marche, in provincia di Ancona, la Cina ha realizzato un ospedale da campo con 50 medici, 80 infermieri e 30 tecnici tutti provenienti da Wuhan, pronti a rischiare la vita, in un momento in cui di vaccini non v’era neppure l’ombra, pur di portare il proprio bagaglio di esperienze e aiutare l’Italia a prendersi cura dei malati di Covid[ref]Un ospedale e medici cinesi a Ancona, ANSA, 25-03-2020.[/ref]. Numerose task force sanitarie sono state d’altro canto inviate da Pechino nel nostro paese per sostenerci in un momento di grande difficoltà[ref]Coronavirus, la Cina invia in Italia il terzo team di medici, RaiNews, 25-03-2020.[/ref]. La prima di queste (mentre il governo italiano mostrava tutta la propria debolezza nei confronti di Confidustria e del potere economico, permettendo alle fabbriche e ai centri di produzione di rimanere aperti nonostante gli scioperi e le proteste operaie[ref]Emergenza coronavirus, la rabbia nelle fabbriche aperte. Scioperi spontanei: “Non siamo carne da macello”, La Repubblica, 12-03-2020.[/ref]), ha mostrato forte preoccupazione per il lassismo mostrato dalla nostra dirigenza politica di fronte a una simile emergenza: «Dovete fare di più per contrastare la diffusione dell’epidemia. In Lombardia le misure prese non sono abbastanza rigide: bisogna fermare le attività economiche e la mobilità», ha affermato la Croce rossa cinese in Italia; «per strada ci sono ancora troppe persone», hanno ammonito a Roma un docente cinese di medicina polmonare e il vicedirettore dell’Istituto Nazionale delle malattie parassitarie; purtroppo «non vi sono altre misure», ha affermato in maniera perentoria Qiu Yunqing (infettivologo cinese al vertice della delegazione dei tredici esperti che ha visitato gli ospedali del nord Italia), è necessario un «distanziamento sociale “rigido” con tutte le serrande abbassate: fabbriche, uffici, negozi. Tutto chiuso»[ref]Coronavirus, l’infettivologo cinese: “Per fermare il contagio bisogna chiudere tutto. Servono più tutele per i vostri medici”, Il Fatto Quotidiano, 30-03-2020.[/ref].
Sarebbe sciocco e malizioso, una sorta di atteggiamento da “Yellow Peril” o da “Protocolli dei savi di Mao Zedong”, ritenere che dietro questi suggerimenti vi fosse un perfido desiderio cinese di attentare alla libertà della popolazione italiana anziché una chiara volontà di difenderla.
Anche il Vietnam, dal canto suo, non ha fatto mancare il proprio spirito collaborativo e solidaristico, spedendo a Malpensa un carico di oltre tre tonnellate di materiale ospedaliero[ref]COVID-19: Arrivato carico di aiuti sanitari dal Vietnam, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 17-04-2020 https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/approfondimenti/covid-19-arrivato-scarico-di-aiuti-sanitari-dal-vietnam.html.[/ref]. E persino la piccola Cuba ha inviato i propri medici e infermieri esperti in malattie infettive, poi candidati al Nobel per la Pace, con l’obbiettivo di portare il proprio contributo[ref]Coronavirus, Cuba in soccorso dell’Italia: 52 medici e infermieri in arrivo a Crema, La Repubblica, 21-03-2020; Coronavirus: Cuba invia seconda brigata medica in Italia, Sicurezza Internazionale 14-04-2020; L. Landoni, Coronavirus, i medici cubani al lavoro in Lombardia candidati al Nobel per la Pace, La Repubblica, 28-09-2020.[/ref].
Nessuno di questi paesi si è sognato anche soltanto lontanamente di sferrare un attacco economico, a colpi di embarghi e sanzioni, contro un qualunque Stato occidentale o orientale.
Come si è comportato invece, da questo punto di vista, il mondo capitalistico? Nel marzo 2021 l’Italia, insieme a Gran Bretagna, Francia e Olanda, esprime a Vienna, presso il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il proprio voto contrario a una risoluzione di condanna degli embarghi unilaterali[ref]Polemiche per la decisione dell’Italia di votare “no” all’Onu alla condanna delle sanzioni Usa su Cuba, La Repubblica, 30-03-2021.[/ref].
Gli Stati Uniti, da parte loro, dopo oltre 60 anni di blocco commerciale e di vere e proprie attività terroristiche contro Cuba[ref]Cfr. S. Lamrani (a cura di), Il terrorismo degli Stati Uniti contro Cuba. Il caso dei Cinque: una storia inquietante censurata dai media, Sperling & Kupfer, Segrate 2006.[/ref], intensificano sotto l’amministrazione Trump la guerra economica ai danni dell’isola, varando ben 243 misure coercitive, poi confermate e incrementate dal Presidente Biden[ref]Cuba, Biden conferma le misure di Trump, Adnkronos, 16-07-2021; Usa, Biden: “Le nuove sanzioni a Cuba sono solo all’inizio”, Tgcom24, 23-07-2021.[/ref]nonostante la già espressa condanna dell’Onu[ref]D. Battistessa, Embargo Cuba, Onu: “Il blocco economico Usa vìola i diritti umani”, Osservatorio Diritti, 16-07-2021.[/ref]. Il 4 giugno 2020, Steve Bannon, uomo dell’estrema destra americana ed ex-capo stratega della Casa Bianca, fonda a New York, assieme a Guo Wengui, miliardario e dissidente cinese già accusato di corruzione, il “New Federal State of China”, organizzazione che si propone in modo esplicito l’obbiettivo di rovesciare il PCC e il governo di Pechino. Il Presidente Trump, dal canto suo, vara sanzioni contro la Cina[ref]Trump firma le sanzioni alla Cina per Hong Kong, ANSA, 14-07-2020.[/ref], anche queste, come quelle contro Cuba, incrementate e inasprite dall’amministrazione Biden[ref]Biden estende bando Trump su società cinesi, 59 aziende nella black list, Il Sole 24 Ore, 03-06-202; I Bremmer, Perché Biden mostra i muscoli con la Cina (più di Trump), Corriere della Sera, 08-07-2021.[/ref]. Questa continuità in politica estera fra i due presidenti americani si è manifestata anche nel modo in cui entrambi hanno alimentato, senza alcuna prova concreta e in assoluto spregio alle dimostrazioni dei più autorevoli studi scientifici[ref]Cfr. Kristian G. Andersen, Andrew Rambaut, W. Ian Lipkin, Edward C. Holmes & Robert F. Garry, The proximal origin of SARS-CoV-2, Nature Medicine, n. 26, 2020 https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9; L’Oms, ‘il virus è di origine naturale’, ANSA, 01-05-2020; L’Oms: “I dati portano all’ipotesi di un’origine  animale del virus”, ANSA 10-02-2021.[/ref], le tesi complottiste sull’origine artificiale del Covid-19[ref]G. Belardelli, Biden e Facebook riabilitano la teoria dell’origine artificiale del Covid, HuffPost, 27-05-2021. A confutare la strampalata tesi sul virus uscito da un laboratorio di Wuhan è anche un dato di cui qualunque epidemiologo dovrebbe essere a conoscenza: l’epicentro di un contagio virale non coincide necessariamente con il luogo in cui il virus ha avuto origine, che invece potrebbe essere plurimo, come sembrano suggerire anche gli studi sulla presenza del Covid già in Italia nel settembre del 2019: cfr. Covid in Italia già da settembre 2019, lo dice uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano, ANSA, 15-11-2020 e altri che hanno rilevato già la presenza di malati di Covid negli Usa a dicembre e in Francia nel novembre 2019: ‘Covid era già negli Usa a dicembre 2019’: lo studio federale su un milione di volontari, Il Fatto Quotidiano, 15-06-2021; Coronavirus, “in Francia primi casi già a novembre”, Adnkronos, 07-05-2020.[/ref].
Nel frattempo la Repubblica Popolare Cinese, non soltanto ha difeso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dagli attacchi dell’amministrazione Trump, che aveva già preparato l’uscita degli Usa e l’interruzione dei finanziamenti, ma anche dai recenti conflitti che, in merito alla gestione delle vaccinazioni, sono sorti fra questa e il blocco degli Stati capitalistici occidentali. A tal proposito va ricordato che la Cina ha sostenuto assiduamente, insieme a Cuba e al Vietnam, la proposta avanzata da India e Sudafrica al WTO, di sospendere i brevetti sui vaccini così da consentire al Terzo Mondo quelle coperture di massa che altrimenti questo, data la sua condizione di penuria economica, non sarebbe riuscito a garantirsi. La vita però sembra ancora una volta, per gli Stati/nazione a conduzione capitalistica, non valere tanto quanto i profitti delle grandi aziende farmaceutiche a cui essi hanno destinato i propri fondi pubblici per lo sviluppo dei vaccini: così con il voto contrario di Stati Uniti, Gran Bretagna e Paesi dell’Unione Europea, la proposta di India e Sudafrica viene respinta. “Senza pagamenti nessuna vaccinazione”: nonostante alcune dichiarazioni estemporanee del Presidente Biden, che soltanto verbalmente ha mostrato ripensamenti, questa è rimasta la decisione immutata dell’Occidente capitalistico. Ed è su questo punto che è sorto un nuovo scontro con l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quest’ultima ha infatti ritenuto che per combattere in maniera più adeguata la diffusione del Covid-19 ed evitare un proliferare di varianti che renderanno via via meno efficaci gli stessi vaccini finora sviluppati, sia più importante garantire a tutto il pianeta almeno la copertura di una prima dose che a pochi paesi quella della terza. Accettata da tutto il mondo economicamente arretrato e dagli Stati a orientamento socialista, questa raccomandazione dell’Oms è stata invece bruscamente respinta dagli Stati occidentali a conduzione capitalistica, per i quali sembra più importante garantire la terza dose agli Übermenschen del blocco euroatlantico, che la prima agli Untermenschen degli Stati sottosviluppati[ref]Cfr. G. Cadalanu, Schiaffo dei Paesi ricchi all’Oms: “Prima la terza dose a noi, poi si vedrà”, La Repubblica 06-08-2021.[/ref]. La Repubblica Popolare Cinese, invece, oltre ad aver sostenuto assiduamente la richiesta di India e Sudafrica relativa alla sospensione dei brevetti sui vaccini, oltre ad avere già da sola vaccinato più di un quinto della popolazione mondiale[ref]Vaccini: Cina, somministrate oltre 1,5 miliardi di dosi, ANSA, 23-07-2021.[/ref] e limitato i contagi attraverso controlli sanitari rigorosi e l’introduzione del passaporto vaccinale[ref]R. Ippoliti, La Cina lancia il passaporto vaccinale, è il primo paese al mondo, La Stampa, 09-03-2021. Anche Cuba, dopo avere avviato nell’isola le vaccinazioni di massa per i bambini dai due anni in su e consentito il ritorno a scuola soltanto previa vaccinazione, ha aperto le frontiere unicamente per quei turisti che presentano un certificato di vaccinazione internazionale anti-Covid-19 o un certificato RT-PCR negativo rilasciato nel paese di origine entro le 72 ore di viaggio precedenti all’arrivo. Allo stato attuale a Cuba si sta pensando anche di introdurre un passaporto vaccinale per i cubani, sul modello Green Pass, sia per permettere il movimento all’estero dei propri cittadini, sia per consentirne l’accesso in sicurezza agli edifici pubblici. Cfr. Susana Antón Rodriguez, Pasaporte digital COVID-19 cubano, Granma (órgano oficial del comité central del pardido comunista de cuba), 26-05-2021.[/ref], oltre ad avere già offerto il proprio contributo in termini di medici, vaccini e materiale ospedaliero ai paesi in difficoltà, dopo avere già offerto 110 milioni di dosi al programma Covax (un’operazione lanciata dalle Nazioni Unite per facilitare l’acquisizione di vaccini ai paesi più poveri), si è impegnata a donare ben 2 miliardi di fiale al resto del mondo entro la fine del 2021 e 100 milioni di dollari al programma succitato. La Cina, ha affermato il Presidente Xi Jinping, «continuerà a fare tutto il possibile per aiutare i Paesi in via di sviluppo a fare fronte alla pandemia» e seguiterà a impegnarsi per «rafforzare la cooperazione internazionale sui vaccini e favorirne la distribuzione»[ref]Vaccini: Xi, Cina darà 2 miliardi di dosi entro fine 2021, ANSA 05-08-2021.[/ref]. Certo, fra i paesi che fanno capo al blocco euroatlantico va annoverato anche il caso di Israele, che ha avuto un numero relativamente basso di decessi e che ha garantito il “diritto alla vita” alla propria popolazione attraverso una vaccinazione di massa tempestiva. Ma un tale diritto, questo Stato, ha saputo pensarlo in termini realmente universali? Dopo aver ricevuto una pioggia di critiche per aver fatto mancare il sostegno alle popolazioni dei territori occupati, Israele ha stretto un accordo con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la fornitura di 1,2 milioni di dosi Pfizer. Quest’ultima, però, è stata ben presto costretta a cancellare l’accordo e a restituire le dosi, non appena si è accorta che Israele le aveva fatto pervenire carichi di fiale con una data di scadenza imminente. Insomma, mentre il governo di Tel Aviv aveva già effettuato sulla propria popolazione il 60% delle vaccinazioni, i palestinesi, con gli ospedali già saturi di malati, restavano ancora sotto l’1%[ref]R. Bongiorni, Medio Oriente: israeliani vaccinati al 60%, palestinesi sotto l’1%, Il Sole 24 Ore, 03-04-2021; La denuncia contro Israele: vaccini solo ai coloni, esclusi palestinesi, Huffpost, 03-01-2021.[/ref], e si trovavano di fronte alla tragica possibilità di scegliere fra il morire (direttamente o indirettamente) di Covid-19 o inocularsi nelle vene dei farmaci scaduti[ref]Palestinesi annullano accordo su vaccini con Israele. Annuncio da Ramallah: la data di scadenza è troppo ravvicinata, ANSA, 18-06-2021.[/ref]. Ancora una volta è stata la Repubblica Popolare Cinese a giungere in soccorso, garantendo al popolo palestinese 200.000 dosi di vaccini e un milione di dollari in contanti da spendere in aiuti sanitari[ref]La Cina promette vaccini e un milione di dollari ai palestinesi, Sicurezza Internazionale, 22-05-2021.[/ref].
Al termine di questo quadro, possiamo giungere a una conclusione: fra, 1) i paesi capitalistici guidati da governi liberalconservatori o apertamente controrivoluzionari (vedi gli Usa di Trump e il Brasile di Bolsonaro); 2) quel mondo dei No-Vax, No-Mask, No-Pass e No-lockdown che, pur nelle proprie differenze interne, ne ha in qualche modo legittimato le scelte; 3) i paesi capitalistici guidati da governi liberaldemocratici (anch’essi troppo subalterni ai grandi poteri economici e incapaci di pensare la libertà sostanziale e il diritto alla vita in termini autenticamente universali) e 4) i paesi a orientamento socialista guidati da partiti comunisti (Cuba, Cina e Vietnam in primo luogo), sono questi ultimi che, pur con le loro contraddizioni, hanno manifestato una maggiore propensione universalistica, un maggiore spirito cooperativo e una più profonda inclinazione a difendere la libertà su scala planetaria. Sono d’altro canto gli stessi soggetti politici che hanno mostrato come quest’ultimo termine, “libertà”, non possa essere svincolato da un contenuto di valore universale, da quelle “lotte di classe” e quelle “lotte per il riconoscimento” (di marxiana ed hegeliana memoria), che proprio di un universalismo sempre più concreto vogliono essere il veicolo. Dovremmo ricordarcene tutte le volte che in un discorso sentiremo impiegata la parola “libertà” come un significante vuoto, come un vessillo retorico con cui adornare e adombrare il perseguimento di meri interessi particolari.

Iniziativa degli Accademici “NO ALLA POLIZIA NEI CAMPUS” nelle Università greche

Le università Greche sotto il mirino – la Democrazia in pericolo. La nuova proposta di legge sull’Istruzione Superiore minaccia la Libertà Accademica e introduce lo Stato di Polizia nei campus universitari.

LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.

Prolegomeni a un capitalismo francescano.

DI Fabio Vighi (Università di Cardiff)

1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 [ref]https://www.liberation.fr/tribune/1997/05/07/opposer-a-le-pen-la-vituperation-morale-c-est-lui-laisser-le-privilege-de-l-insolence-la-conjuration_206413, traduzione dell’autore (qui e seguenti)[/ref]. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’

La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato. Tale illusione è sempre più necessaria, poiché un sistema globale lastricato di valore e prossimo alla saturazione non può reggersi su sé stesso. Più la globalizzazione capitalista si ostina a liquidare chiunque non si adegui alle sue leggi, più tende all’implosione; e più diventa ostaggio di una logica perversa la cui regola madre è la costruzione del fantasma ideologico del nemico sanguinario.

Oggi il bubbone del Male emerge, per esempio, nella forma di un’oscena plebaglia populista, sovranista e fascistoide, quel ‘basket of deplorables’ (Hillary Clinton) che ammorba il nostro altrimenti sorridente villaggio globale, e che tutti noi “amiamo odiare”. A questa feccia si oppongono in massa le forze liberali e moderate del pianeta, che giustificano le loro battaglie attingendo a piene mani dall’inesauribile repertorio narrativo della favolistica (incluso quella hollywoodiana), in cui il Bene, appunto, lotta e infine trionfa contro il Male. La crociata umanitaria dei moralizzatori è talmente sentita da far loro dimenticare, però, che l’umanità per cui si battono è già stata massacrata, depredata, e nel migliore dei casi svenduta al miglior offerente proprio dai cavalieri dell’apocalisse liberale.

C’è una frase di Baudrillard che fotografa perfettamente l’ipocrisia cui faccio riferimento: ‘Le Pen viene criticato perché rifiuta e esclude gli immigrati, ma questo è nulla rispetto ai processi di esclusione sociale che avvengono dappertutto.’ Perché limitarsi a combattere il becero razzismo di chi respinge gli immigrati, quando la discriminazione sociale è ovunque, nelle forme dell’esclusione, della ghettizzazione, dello sfruttamento (semi-)schiavistico, della violenza e della guerra? Perché ostinarsi a vedere solo il muro sovranista, quando la globalizzazione stessa coincide con soprusi e divisioni sempre più laceranti? Forse la risposta è più semplice di quanto possa sembrare: puntare il dito contro il cattivo di turno ci protegge dalla nostra intima collusione con un sistema profondamente iniquo; ci protegge da quel razzismo strisciante, virale, codificato nel DNA delle democrazie liberali, su cui si fondano le nostre sacre identità e i nostri sacri privilegi. Come egregiamente dimostrato da Domenico Losurdo, le conquiste civili del mondo liberale si sono affermate in stretta simbiosi con le moderne tragedie della schiavitù, della deportazione, e del genocidio[ref]Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Roma-Bari: Laterza, 2005)[/ref]. Queste tragedie, se solo vogliamo vederle, si ripetono quotidianamente nel progetto neoliberista. Il paradosso che guida i virtuosismi moralistici della “buona politica”, promotrice di un capitalismo imperialista “dal volto umano (sebbene ora mascherato)”, era stato perfettamente compreso da Baudrillard:

‘Se Le Pen non esistesse, bisognerebbe inventarlo. È lui che ci libera dal lato malvagio di noi stessi, dalla quintessenza di tutto ciò che è peggio in noi. Per questo gli lanciamo un anatema. Ma guai a noi se lui scomparisse, perché la sua scomparsa scatenerebbe i nostri virus razzisti, sessisti e nazionalisti (li abbiamo tutti) o, semplicemente, la negatività omicida dell’essere sociale.’

E infatti Jean-Marie Le Pen non è scomparso; è stato semplicemente clonato in un variopinto carosello di mostri e mostriciattoli dati in pasto all’opinione pubblica per legittimare processi di distruzione socio-economica che spingono milioni di esseri umani nella miseria, nella disperazione, e nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ciò significa che la devastazione neoliberista si auto-sostiene non solo attraverso quella che Goethe chiamò ‘ignoranza attiva’, ma soprattutto grazie a un ipocrita dettato moralistico che immunizza chi lo promuove. Non essendo più in grado di generare alcun progresso, e non potendo più coalizzarsi contro il demone comunista, la nostra civiltà omologata e devitalizzata fa leva sul Male, cercando disperatamente di autoimmunizzarsi.

Riprendendo il tema centrale della filosofia di Roberto Esposito, diremmo che l’odierna ossessione per i vaccini debba essere letta, oltre che in chiave farmaceutico-speculativa, anche come metafora immunologica: il meccanismo della vaccinazione descrive perfettamente il funzionamento di un potere globale che si inocula agenti patogeni (immorali e antidemocratici) per stimolare la produzione di presunti anticorpi (“morali” e “democratici”). Da Le Pen a Trump, dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein al terrorismo islamico, fino al “programma nucleare” dell’Iran e alla narrazione pandemica del COVID-19, abbiamo di fronte una lunga serie di operazioni immunologiche attraverso cui si tenta di avallare un modello socio-economico palesemente (auto)distruttivo scaricandone la follia omicida sul malvagio di turno. Per questo motivo il potere è sempre più drogato di emergenzialismo.

In breve, il mondo governato dalla violenza del capitalismo senile ama lavarsi la cattiva coscienza attraverso un perverso ma consolidato meccanismo catartico: difendere l’umanità dal proprio Male, messo in scena, però, nel teatro delle crudeltà altrui. Come per il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, l’escrescenza del Male è prodotta dal Bene, e dev’essere eliminata affinché questa ingombrante verità non venga a galla. Qui vale sempre l’immortale ammonimento di Max Horkheimer, che in piena seconda guerra mondiale scrisse: ‘Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto[ref]Max Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato (Roma: Savelli, 1978), p. 55.[/ref]’

E invece ci hanno persuaso che Donald Trump, novello Kurtz, è personalmente responsabile di tutti gli orrori della terra, dalla schiavitù da cui sono nati gli Stati Uniti d’America all’ultimo “apocalittico” virus. E non importa se l’impero del Bene è colpevole dello stesso Male che attribuisce all’altro. Non importa se parliamo di due facce della stessa medaglia, poliziotto buono e poliziotto cattivo. In fondo, importa solo che il lato soft dell’intelligenza liberal non venga troppo disturbato, perché l’obiettivo è stare dalla parte giusta del Bene, dalla parte giusta dell’universalismo dei diritti (e delle sue bombe), ovvero dalla parte giusta dell’imperialismo turbo-capitalista.

L’ultima folle speranza di un modello socio-economico in lenta decomposizione qual è il nostro è affidarsi a una strategia proiettiva, per cui il tumore di sistema viene trasferito nelle intenzioni di truci soperchiatori. Una società che, nelle parole di Baudrillard, ‘sta morendo di inerzia e immunodeficienza’, ha terribilmente bisogno di ‘doppi negativi’, ovvero di una spettacolare proiezione esterna della propria cinica mediocrità. Ha bisogno cioè di una ‘figurazione burlesca, allucinatoria di questo stato latente, di questa silenziosa inerzia composta in egual misura da integrazione forzata ed esclusione sistematica.’ A proposito del lato burlesco del Male, Silvio Berlusconi è stato lo specchio deformante di un intero sistema sociale anemico e decadente, politicamente esaurito e impotente. Questo sistema aveva necessità di proiettare il proprio Vuoto su una grottesca maschera caricaturale da Commedia dell’Arte che, amplificando magnificamente quel Vuoto, potesse legittimare false o effimere opposizioni. Così il Cavaliere ha permesso ai media liberali, ai politici progressisti e alle moltitudini allo sbando di sprezzarlo pur apprezzandolo, di deriderlo pur imitandolo, di diffamarlo pur abbracciandolo, ottenendo infine dalla sua destituzione (per mano europea) l’agognata immunità morale, da rinnovarsi con l’arrivo del successivo “deplorabile”. Nella formula di Baudrillard: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

2. Verso un capitalismo filantropico-francescano
Allo stesso tempo, però, i paladini del Bene tessono la tela di un futuro resettato, che amano definire più giusto, più sicuro, più resiliente, e ovviamente ammantato di energia green per tutti. Basta lanciare un’occhiata alle pagine del WEF (World Economic Forum) – che ogni anno, com’è noto, si riunisce nella bidonville svizzera di Davos – per capire ciò che ci attende: un mix micidiale di ‘economia delle piattaforme in grado di aprire la strada del benessere a miliardi di lavoratori’ (schiavizzati?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/digitalization-platform-economy-covid-recovery/[/ref], e ‘l’impegno di attivisti aziendali [corporate activists, sic!] capace di affrontare tutte le sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle discriminazioni sociali e razziali’, grazie al motto dal sapore decisamente francescano di: ‘Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto’ (milioni di vite umane?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/the-world-needs-corporate-activists-with-these-5-steps-you-can-become-one/[/ref] .

‘Benvenuti nel 2030. Non possiedo nulla, non ho privacy, e la vita non è mai stata migliore.’ Non è una crudele parodia, ma il titolo, anch’esso molto francescano, di un breve testo di Ida Auken (ex ministro per l’ambiente e ora membro del “Partito Social Liberale” danese) apparso l’11 novembre 2016 sul sito del WEF[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/ (Il titolo è stato recentemente cambiato.)[/ref]. Detto sommariamente, la Auken, anima vivace della sinistra neo-futurista, ci racconta del “comunismo” che verrà[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/[/ref] . A breve abiteremo in città modello in cui ‘non possederemo nulla – né casa, né auto, né elettrodomestici’. La nostra proprietà privata sarà dunque realmente abolita. E ne saremo felici, perché nella città dei servizi digitalizzati, affrancata da traffico e smog, ‘avremo liberamente accesso a ogni cosa’. Nessun bisogno di ‘pagare l’affitto’, perché quando saremo fuori a girare in bicicletta o a raccogliere margherite ‘qualcun’altro utilizzerà il nostro spazio’ (comunismo vero!). Lo shopping sarà un lontano ricordo, perché ‘un algoritmo sceglierà le cose da comprare’, visto che ‘conoscerà i miei gusti meglio di me’. Anche il lavoro muterà in qualcosa di piacevole: ‘tempo per pensare, tempo creativo, tempo per la formazione’. E nonostante la Auken si dica ‘preoccupata per tutte le persone che avranno deciso di non vivere in questa città’ e che ‘si saranno perse per strada’, magari ostinandosi a occupare ‘case abbandonate di paesini del diciannovesimo secolo’, o a formare ‘piccole comunità autogestite’; e per quanto, scrive, ‘di tanto in tanto troverò fastidioso non avere alcuno spazio privato’ sapendo che ‘tutto quel faccio, penso o sogno [sic!] viene registrato da qualche parte’ – nonostante queste piccole complicazioni, insomma, ‘la vita sarà senz’altro migliore’, perché avremo sconfitto ‘tutte le cose terribili che ci stavano accadendo: malattie legate al nostro stile di vita, cambiamenti climatici, crisi migratorie, degrado ambientale, città congestionate, inquinamento idrico e atmosferico, disordini sociali e disoccupazione.’

Basta un piccolo sforzo dell’immaginazione per capire che questa favoletta utopistica è in realtà un perfetto controcanto distopico, per il semplice motivo che se noi non possederemo più nulla sarà perché, dopo aver “disciplinato” i poveri e spolpato il ceto medio, l’élite mondiale avrà in mano davvero tutto. Già ora, in piena ristrutturazione da pandemia, ai paesi a rischio default, così come ai lavoratori lasciati senza reddito, vengono “in aiuto” i grandi istituti finanziari neoliberisti (FMI, World Bank, ecc.) – gli stessi che sponsorizzano i lockdown più draconiani[ref] Si veda il secondo capitolo del ‘World Economic Outlook’ pubblicato dal FMI a ottobre 2020: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/09/30/world-economic-outlook-october-2020[/ref] – pronti a sottometterci a forza di generosi prestiti. Come scrisse Daniel Guérin nel 1936: ‘Quando la crisi economica […] si manifesta in forma particolarmente acuta, quando il tasso di profitto tende a zero, essa non vede altra via d’uscita, altro mezzo per rimettere in marcia il meccanismo del profitto, se non quello di vuotare sino all’ultimo soldo le tasche – già poco fornite – dei poveracci che costituiscono la “massa”[ref]Daniel Guérin, Fascismo e grandi capitali (Roma: Erre emme edizioni, 1994), p. 58[/ref].’ Possibile non vedere che alla base della presente ‘distruzione creativa’ (Schumpeter) da coronavirus non c’è altro che un nuovo “fascismo dei grandi capitali”, per parafrasare il titolo del libro di Guérin? L’obiettivo dello psicodramma pandemico piovutoci addosso è la devastazione di ciò che rimane dell’economia reale, finalizzata alla stipulazione di un nuovo contratto sociale leviatanico (il Great Reset) in cui la nostra sopravvivenza dipenderà dall’intervento “caritatevole” di istituti monetari sovranazionali che, come conferma appunto la Auken, ci spoglieranno di ogni bene e vigileranno persino sui nostri sogni.

In questo scenario, le imprese tecnologicamente più arretrate e meno produttive sono portate alla bancarotta e assorbite dai monopòli. I lavoratori autonomi e precari spariscono nel nulla. Nel migliore dei casi, la massa crescente di disoccupati viene “riscattata” da un reddito di base universale, miserrimo ma sufficiente a costringerla all’eterna gratitudine verso i benefattori. Qualche pezzo di debito sovrano verrà forse bonificato, in cambio però della consegna di beni pubblici agli istituti finanziari che guidano le grandi manovre. E alla fine di ogni anno ci sarà sempre il santo Natale a restituirci un vago senso di fratellanza, magari grazie al temporaneo allentamento di bizantine misure restrittive. Questa transizione verso un capitalismo totalitario servito in salsa filantropico-francescana viene fatta digerire alle masse attraverso irresistibili narrazioni catastrofico-salvifiche, strumento ideale di una propaganda securitaria che spaccia l’Armageddon sociale come atto umanitario.

La distruzione di ampi settori dell’economia reale e, insieme, la draconiana profilassi sociale contrabbandata come profilassi sanitaria, sono fenomeni interni al folle vortice espansivo del capitale, che per indole non si preoccupa di nulla, tantomeno di chi rimane schiacciato dai cambiamenti. Come Marx aveva osservato, il modo di produzione capitalistico, essendo una soggettività automatica, non ha remore a distruggere le fonti stesse del valore, ossia i lavoratori salariati da una parte, e la terra o risorse naturali dall’altra. “New normal” significa appunto rimodellare l’umanità in modo che transiti obbediente, e magari riconoscente, verso l’inferno del Capitalismo 4.0, quello della quarta rivoluzione industriale. La governance globale in materia di bio-sicurezza è oggi l’espressione più evidente di questo dispotismo assai poco illuminato, che trova nel cosiddetto stakeholder capitalism la sua perfetta incarnazione economica: nello spartirsi gli utili borsistici, manager e azionisti delle grandi multinazionali gestiscono anche un possente fronte politico-mediatico intriso di filantropia e sensibilità sociale.

Eccoci giunti al paradosso dei paradossi: lo 0,1% – i vincitori della globalizzazione, ovvero la classe più predatoria dell’intera storia umana (da Bill Gates a Warren Buffett, Bill Clinton, Mark Zuckerberg, George Soros, ecc.) – che si impegna socialmente a sostenere cause nobili come la salute e la lotta contro la fame nel mondo! Grazie a donazioni erogate dalle loro munifiche fondazioni, i profeti del filantro-capitalismo esercitano un’influenza sempre più tirannica sui governi e le loro fragili istituzioni. La stessa Chiesa di Papa Francesco, comportandosi come ha quasi sempre fatto nella sua lunga storia, promuove la causa del potere secolare, oggi cinicamente travestito da ‘capitalismo inclusivo, che non lascia indietro nessuno’[ref]https://www.inclusivecapitalism.com/ [/ref]. Si tratta di un diabolico intreccio di denaro, potere e alleanze lobbystiche che vuole ergersi a nuova morale universale, togliendo così alla politica anche le ultime briciole di autonomia, al punto che le democrazie di tutto il pianeta ormai accolgono i filantro-predatori a braccia aperte, senza nemmeno più fare domande. E se il ricatto morale funziona, ciò significa anche che l’implosione capitalista non è necessariamente esplosiva: non produce automaticamente contraddizioni e potenzialità rivoluzionarie, come ingenuamente credono ancora molti marxisti. Piuttosto, nella sua fase attuale l’implosione del capitalismo genera una subdola forma di deterrenza di stampo fascista, in cui appunto lo Stato (insieme alla Chiesa) promuove gli interessi delle élites finanziarie. Sottovalutare questa deriva è oggi l’errore più grande che si possa commettere.

BENJAMIN, BAUDELAIRE E LA MODERNITÀ. Una voce critica nella folla.

Il 26 settembre 1940 moriva il filosofo marxista ebreo e «eretico» Walter Benjamin (1889-1940), a Port Bou, sulla costa atlantica della Spagna, in fuga dalla persecuzione nazista, e in vana attesa d’imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove l’attendevano a New York gli amici Max Horkheimer e Theodor W. Adono, nel ricostituito il nucleo dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, soppresso nel 1933 dal regime nazista. Quando Benjamin si tolse la vita con un’overdose di morfina, portava con sé i manoscritti dell’ultima opera, dedicata a Baudelaire e ai Passages di Parigi. A ottant’anni dalla scomparsa, oggi il suo lascito intellettuale non cessa di suscitare interesse per l’ampiezza e la profondità di vedute su temi filosofici fondamentali, ancora oggi. In particolare, il tema della «modernità» (termine forgiato da Baudelaire), la quale, malgrado le sirene del «postmodernismo», è ancora la nostra, nei primi decenni del ventunesimo secolo.
Tra i molteplici temi affrontati da Benjamin, il maggiore è dunque senz’altro la critica della modernità capitalistica, che trova espressione letteraria nell’opera del maggiore poeta della «Parigi capitale del secolo XIX», Charles Baudelaire (1821-1867). La recente edizione degli scritti dell’ultimo Benjamin, fornita da G. Agamben, B. Chitussi e C.-C. Härle : Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Vicenza, Neri Pozza, 2012) ha offerto una nuova immagine del già noto autore delle tesi Sul concetto di storia, nelle vesti di critico letterario e insieme di filosofo critico della società capitalistica degli ultimi decenni del XIX secolo. Perché Baudelaire? Anzitutto per l’attenzione che il poeta presta ai soggetti marginali della società, nei poemetti in prosa, Lo Spleen di Parigi (1864-1869), con la sensibilità rivolta alle stridenti contraddizioni sociali, più visibili che altrove, nella Ville Lumière.
Dietro il celebre énivrez-vous! di Baudelaire («Ubriacatevi! Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena […] ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare»), c’è la liberazione dal tempo del lavoro meccanizzato che nell’intellettuale poeta, godendo questi appunto del privilegio di avvalersi del prodotto del plusvalore liberato (il «tempo libero»), si rovescia nella noia, lo spleen legato al vuoto dell’alienazione, del meccanico ripetersi delle ore (pendant della ripetitività dei gesti lavorativi), la solitudine della folla nella grande città. Per il Baudelaire letto da Benjamin la folla «cominciava a organizzarsi come pubblico. Assurgeva al ruolo di committente e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori dei quadri del Medioevo». Baudelaire è qui la voce critica nella folla, la quale sta sullo sfondo di molti suoi poemi («La sua folla è sempre quella della metropoli; la sua Parigi è sempre sovrappopolata… la massa era il velo fluttuante attraverso il quale Baudelaire vedeva Parigi»). La folla è la massa anonima della metropoli, e lo choc cui soggiace il passante (flâneur) che si lascia trascinare dal suo flusso, è la modalità nuova d’esperienza del moderno.
Choc e spleen sono i tratti comuni della società occidentale moderna nell’età del capitalismo avanzato. «A una passante» è il titolo della più suggestiva tra le poesie dei Fiori del male, che attirò l’attenzione anche di Proust (per la figura di Albertine, nella Recherche): una donna bellissima, alta, snella, velata a lutto, attraversa la folla in senso contrario a quello del flâneur, lo urta, lui ne cade perdutamente innamorato («Un lampo… poi la notte! – Fuggitiva bellezza/ il cui sguardo m’ha fatto improvvisamente rivivere, / non ti rivedrò che nell’eternità?/ Altrove, ben lontano da qui, tardi, troppo tardi, forse mai!/ Io non so dove fuggi, tu ignori dove io vada, / O te che avrei amato, o te che lo sapevi!»). Benjamin vede condensata in questa esperienza lo choc dell’incontro, della «catastrofe» che colpisce il soggetto moderno, nella società industriale, con la sua estraneazione rispetto al proprio stesso desiderare e sentire: «L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo, quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Così il sonetto presenta lo schema di uno choc, anzi lo schema di una catastrofe. Ma essa ha colpito, insieme al soggetto, anche la natura del suo sentimento. Ciò che contrae convulsamente il corpo del poeta non è la beatitudine di colui che è invaso dall’eros in tutte le stanze del suo essere; ma ha piuttosto qualcosa dell’imbarazzo sessuale, come può sorprendere il solitario… Questi versi… fanno emergere le stimmate che la vita in una grande città infligge all’amore».
In questo esempio si scorge in modo esemplare la grandezza dell’opera di Benjamin, la sua preziosa eredità consegnata al nostro secolo, che sta in questa capacità di voce e di sguardo critico lanciato tra le pieghe della realtà; in una «modernità» – Baudelaire la definiva «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile» – ferita dalle «stimmate» della vita nelle grandi metropoli. La modernità capitalistica cittadina ha prodotto una nuova forma di esperienza (choc, spleen, estraneazione ecc.), che Benjamin sottopone a una critica serrata, critica della vita quotidiana dalla prospettiva di un pensiero radicale che tenne ben ferma, allora, la necessità del «freno di emergenza», il freno socialista e comunista della rivoluzione.

L’articolo è uscito in precedenza per l’ «Avanti» del 21/12/2020

Perché la Fiat licenzia MicroMega (la fredda legge della Repubblica della fabbrica)

di Antonio Cecere

Abbiamo appreso dalla stampa che la dirigenza di «GEDI» licenzia la storia e l’esperienza intellettuale della redazione di MicroMega. La notizia arriva fulminea, ma nessuno deve rimanere stupito, perché MicroMega è il baluardo della sinistra illuminista, quella Repubblica delle lettere che sappiamo bene essere incompatibile con la Repubblica della fabbrica.

Homo pandemicus: ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi
Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’ – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.

Il multiculturalismo nella quarantena

di Celso Frederico

(Traduzione di Antonino Infranca)

 

Parlare di multiculturalismo adesso? Fino a poco tempo fa era un tema centrale nei progetti politici dei governi progressisti, ma, ad un tratto, i cambiamenti del vento in Brasile hanno portato un’inattesa regressione e il franco dibattito sul multiculturalismo è entrato in quarantena. Le politiche pubbliche di inclusione sociale sono state archiviate e, in questa congiuntura sfavorevole, assistiamo alle reazioni infuriate che propongono la distruzione di statue di personaggi storici legati alla schiavitù. Più distruttivo, però, è il tentativo di bandire dalla letteratura autori considerati omertosi verso la schiavitù, come Machado de Assis, la cui lettura fu già sconsigliata da militanti antirazzisti. O anche Monteiro Lobado, vittima preferita del “politicamente corretto”. I libri di Lobato devono uscire dalla circolazione o le nuove edizioni devono essere emendate dai riferimenti razzisti? Nessuna di queste alternative educa. Soffriamo una schiacciante sconfitta e, così, non conviene essere puntigliosi con coloro che sono sotto attacco e, molto meno, fornire munizioni ai disprezzabili carnefici. L’ascesa del fascismo bolsonarista, comunque, ha portato novità inattese per le forze di opposizione e ciò ci obbliga a un processo riflessivo di autocritica e di ridefinizione delle strategie di lotta.
Quando si parla di multiculturalismo, non c’è come sfuggire a una questione fondamentale: come dovrebbero convivere le diverse culture in uno Stato democratico di diritto, che oggi cerchiamo penosamente di difendere?
Ci sono, almeno, due risposte possibili.
La prima enfatizza le differenze culturali ed etniche per proporre la “lotta per il riconoscimento” di tali differenze come forma compensatoria delle diseguaglianze e permettere un’integrazione sociale che preservi le differenze. Questa risposta è orientata da una logica culturale.
La seconda, al contrario, sposta l’enfasi dalla cultura alla sfera socioeconomica. Perciò, rivendica una politica pubblica che favorisca l’integrazione nel mercato del lavoro come condizione per la realizzazione della cittadinanza e dei valori comuni alla società. In questo modo evita che le differenze culturali si irrigidiscano e mettano in pericolo la democrazia.
Ciascuna risposta ondeggia su strade differenti: o si considera la nazione come un insieme di etnie differenti o si punta ad una visione di assimilazione che valorizza l’ibridismo come costitutivo della nazionalità e della cittadinanza.
Si aggiorna, così, nel campo politico, l’opposizione tra i diritti particolaristi (delle cosiddette “minoranze”), difesi dai diversi movimenti sociali e i diritti universali del cittadino, stabiliti con la Rivoluzione Francese del 1789.
Argomenti forti sono utilizzati in questa contesa dalle due correnti.
I difensori del particolarismo hanno ragione quando denunciano il carattere astratto di un universalismo centrato sulla falsa idea di cittadinanza, che proclama che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, malgrado siano diseguali nella vita reale.
I difensori dell’universalismo, a loro volta, hanno ragione nel criticare l’enfasi esagerata degli interessi particolaristi, affermando che essi impediscono la convivenza democratica e la comprensione tra gli uomini.
Siamo, pertanto, di fronte a un confronto che attraversa il campo della cultura, della politica e della filosofia.

Multiculturalismo e lotta per il riconoscimento

La lotta per il riconoscimento, prima di essere sollevata dal multiculturalismo, ebbe le sue origini in Francia, quando un movimento politico, la guerra per la liberazione dell’Algeria (1954-1962), ebbe ripercussioni forti nell’allora egemonica filosofia esistenzialista. Nei corsi di Alexandre Kojève, dedicati alla filosofia di Hegel, si discuteva con entusiasmo la dialettica del servo e padrone, presente nella Fenomenologia dello spirito. Queste due figure della coscienza si impegnavano in una lotta per il riconoscimento, così come il colonizzato e il colonizzatore, nei testi di Fanon e di Nemmi. Con questo riferimento astratto, la riflessione filosofica si incontrò con l’azione politica. A partire da lì si generalizzarono i movimenti sociali rivolti a rovesciare l’immagine di inferiorità della donna e del negro. Lo Stato democratico, allora, aderì alla politica dell’universalismo, consacrando l’eguaglianza di tutti i cittadini.
In un secondo momento, la lotta per il riconoscimento ebbe una trasformazione: il riconoscimento dell’eguaglianza lasciò posto alla lotta per il riconoscimento delle differenze. Lo Stato, adesso, affronta una nuova sfida: tener conto della rivendicazione particolarista di soggetti collettivi, in un ordinamento giuridico che permetta all’individuo isolato di essere il portatore di diritti universali.
Sul piano teorico, si consolidò una concezione del mondo che rifiuta l’universale in nome delle “micro-narrative” – la storia dei negri, delle donne, dei gay, ecc. La critica delle “grandi narrazioni” nega l’esistenza di una storia universale da tutti condivisa. Alcuni autori usano l’espressione “ghetti cognitivi” o “apartheid progressista” per caratterizzare criticamente la proposta; altri puntano alla vicinanza ideologica con il liberalismo e alla visione di una società democratica in cui le differenze siano ospitate: ciascuna nel suo angolo.
Il confronto tra il culturalismo e l’ideale democratico è risorto in Francia alcuni anni fa. Il centro del dibattito era l’uso di simboli religiosi (specificamente il burqa) nelle scuole pubbliche e laiche. Dopo vari anni di discussione accalorata, il governo francese decretò la proibizione. Non mancarono buoni argomenti dai due lati: la critica all’intolleranza statale che chiude gli occhi verso le altre culture e perseguita i musulmani: parla di universalismo, ma è al servizio di un particolare; o, dall’altro lato, la difesa della laicità minacciata dal fondamentalismo – una identità fanatica che vuole imporre il suo particolarismo a tutti.
È evidente che si deve rispettare la diversità culturale e la sua convivenza pacifica dentro lo Stato democratico, ma ciò presuppone una cultura politica comune che deve essere accettata. Perciò, il governo francese proibì l’uso del velo islamico nelle scuole pubbliche. La proibizione si basava sul principio che gli immigranti devono accettare la laicità dello Stato: chi è immigrato in Francia ha scelto e, pertanto, deve condividere le regole della convivenza esistenti in quel paese.
La lotta per il riconoscimento, come ogni confronto di dimensioni politiche, ebbe come uno dei suoi funesti ed imprevisti risultati un’odiosa reazione, anch’essa appoggiata da una visione essenzialista e particolarista: la xenofobia è risorta violentemente per difendere la “purezza” razziale (e la difesa dei posti di lavoro), mediante una “pulizia etnica”. Da un lato ha generato la segregazione, dall’altro l’odio razziale.
Passiamo alla critica all’universale, il punto di partenza del multiculturalismo.
La denuncia dell’“universalismo astratto” della sua concezione, secondo la quale, la legge è uguale per tutti, constata, a ragione, che essa eguaglia i disuguali e impone una pretesa uniformità. Tale concezione rimonta all’Illuminismo, che, concependo gli uomini, genericamente, come esseri razionali, non prestava attenzione alle differenze individuali. Contro questo livellamento, il romanticismo si oppose, esaltando la singolarità e collocandola in opposizione all’universale.
La dialettica è sorta per superare questa antinomia. Hegel affermava che non esiste un abisso insuperabile tra l’universale e il singolare e neanche una relazione di esteriorità, poiché i singolari sono parte costitutiva dell’universale e questo si incarna negli esseri singolari (basta ricordare “l’uomo universale” del Rinascimento e i “personaggi tipici” del romanzo realista). Non si può, pertanto, confondere la concezione dialettica dell’“universale concreto” con la visione livellatrice dell’“universale astratto”.
Secondo Hegel, quest’ultima deve essere compresa come manifestazione iniziale, immediata, del concetto di universale, ancora astratto, vuoto, indeterminato. Perciò, Hegel introdusse nel suo concetto dialettico le successive determinazioni che arricchiscono l’universale e che sono i suoi momenti costituenti. In questo modo, le particolarità possono, infine, riconoscersi, integrandosi armonicamente nell’universale e diventando coscientemente parti di esso senza perdere, nel frattempo, le loro qualità specifiche. L’universale, per la dialettica, non è una notte in cui tutte le vacche sono nere e non implica il cancellamento delle qualità inerenti dei singolari, che, spogliati di quelle, sarebbero integrati a forza in una pretesa indifferenziata unità. La dissoluzione dei diversi nella monotonia dell’Uno è l’accusa antica sollevata dai critici dell’hegelismo. Marx difese Hegel, affermando che il primato del generale sui particolari non significava la dissoluzione di questi “under a general principle”.
Tale diluizione è presente oggi nella falsa universalità della cosiddetta generalizzazione. Da un lato, essa ha messo in crisi lo Stato-Nazione, quell’istituzione che, secondo Habermas, ha reso possibile l’affermazione della politica come la strada che porterebbe all’accesso al vero universale. Dall’altro, essa impose, al suo posto, un preteso universale: la società del consumo. Adesso si può parlare di omogeneizzazione pastorizzata di un mondo popolato da false equivalenze: le differenti merci, svuotate dal loro valore d’uso, equiparate dall’astratto valore di scambio; gli individui appartenenti alle differenti classi sociali nominati indistintamente come “cittadini”; e, finalmente, questi ultimi trasformati in “rivendicanti” consumatori che lottano in apparente eguaglianza di condizioni per i loro “diritti” in un mercato che, cinicamente, consacra la “sovranità del consumatore”.
Oltre le relazioni di mercato, si concentra, ancora, la massa di individui privati, non di soggettività desideranti, ma di posti di lavoro stabili. Dentro il mercato coesistono le differenti classi sociali che si battono, non per il riconoscimento delle loro differenze, ma per il possesso della ricchezza prodotta dal lavoro sociale. Il multiculturalismo, contrariamente, ha sostituito la contraddizione con la diversità.
Se il campo della cultura, come disse Habermas, è pre-politico e, storicamente, ha prodotto solo «le sfilacciate forme tradizionali di integrazione sociale», è necessario allora riscattare la dimensione della politica, della democrazia, dell’ideario repubblicano, dell’emancipazione sociale, poiché è qui che l’universale può progressivamente realizzarsi. Perciò, alcuni autori, tornando alla concezione dialettica, preferiscono parlare di “universalismo concreto” per dar conto di un processo attraverso il quale la legge potrà produrre l’eguaglianza per tutti. Solo così è possibile uscire dalla “piccola politica”, dalla frammentazione culturale dei particolari che non si intendono, verso la “grande politica”: la lotta contro lo sfruttamento economico, fonte primaria della disuguaglianza e dei conflitti contro le forme di discriminazione sociale delle differenze.

Brasile: il multiculturalismo come politica pubblica

Il multiculturalismo come politica pubblica implementata dallo Stato ha fatto il suo ingresso tra di noi nel seminario sul multiculturalismo e razzismo, realizzato il 2 giugno 1996, durante il governo di Fernando Henrique Cardoso. Per il seminario furono convocati diversi intellettuali brasiliani e brasilianisti nord-americani per discutere l’introduzione delle affermative actions a Brasilia. La centralità della questione razziale, come si aspettava, suggeriva ovviamente una comparazione tra Brasile e Stati Uniti.
Monica Grin, in un saggio dedicato al seminario, chiede: «Se ci sono nell’ordine sociale brasiliano i “soggetti razziali” di diritto ai quali dovrebbero essere dirette quelle politiche? Così la domanda che il dibattito di Brasilia poneva in forma più incisiva era: quale è lo statuto ontologico della “razza” in Brasile? Esistono soggetti “razziali”? Ossia i soggetti sociali si definiscono e si percepiscono a partire da una chiara divisione razziale?».
Affermare che, a somiglianza degli Stati Uniti, ci sarebbero tra di noi “soggetti razziali”, come pretendevano alcuni degli intellettuali presenti, così come alcune correnti del movimento negro, ha come risultato la politicizzazione delle differenze e una concezione razzializzata della vita sociale. Si tratta qui della trasposizione di una problematica nord-americana della race-conscious – la presa di coscienza della negritudine come presupposto per la lotta per politiche compensatorie che puntino alla diminuzione delle disuguaglianze. Ma in Brasile, al contrario, la presa di coscienza sorge come risultato dell’azione statale che pretende di creare i “soggetti sociali” da includere mediante interventi focali compensatori.
La creazione dei “soggetti razziali”, in Brasile, cozza contro la specificità di un contesto che non ha nulla a che vedere con gli Stati Uniti. La “graduazione” tra le “razze” stabilisce un continuum che cancella la rigida differenziazione tra bianchi e negri esistente negli Stati Uniti, espressa dalla antica legge del one-drop rule seconda la quale un’unica goccia di sangue negro, ereditata dagli antenati, è sufficiente per classificare un individuo come negro.
Dall’altro lato, l’inesistenza tra di noi di una borghesia negra dimostra che la questione razziale e la questione sociale si fondono. Perciò, Fabio Wanderley Reis ha considerato «chiaramente odiosa, nelle condizioni generali che caratterizzano i vasti strati indigenti della popolazione brasiliana, la pretesa di stabilire una discriminazione tra le razze come criterio per l’azione di promozione sociale dello Stato. Si rifletta che è proprio alla base della piramide sociale, dove ovviamente si trovano i bersagli potenziali più importanti dello sforzo sociale dello Stato, che più si mescolano e si integrano socialmente popolazioni razzialmente diverse, per non parlare della presenza più intensa della stessa mescolanza».
Il brasilianista George Reid Andrews, a sua volta, ricordò che l’azione affermativa, negli Stati Uniti, è una politica che «ha beneficiato principalmente o esclusivamente, la classe media negra; poco o nulla ha fatto per la classe povera». Non sorprende, quindi, dice l’autore «che il movimento negro negli anni Ottanta sia stato guidato in maggior parte da membri di questo strato sociale».
Così, fu necessario un intellettuale nord-americano, che nulla ha di marxista, per ricordare l’equivoco di cercare i riferimenti per le nostre piaghe nell’esempio nord-americano. Egli ebbe anche l’audacia di ricordare ai presenti che l’unico programma governativo nel mondo che ha ridotto le disuguaglianze razziali fu quello cubano, che ha eliminato le differenze razziali nella salute, aspettativa di vita, educazione e lavoro. e ciò fu possibile perché l’azione governativa non si è diretta al colore della pelle, ma alla promozione degli strati più poveri della popolazione.
Oggi, dopo l’implementazione delle politiche affermative e l’ascesa di Trump e Bolsonaro, assistiamo al “ritorno del represso”. Gli ampi settori delle classi medie nei due paesi hanno esposto apertamente, senza alcun prurito, il risentimento di fronte alla “sgradevole” presenza dei segmenti fino allora marginalizzati. Il risentimento, questa “passione fredda”, questa “forza reattiva”, è entrato con forza nella sfera pubblica.
La nuova congiuntura che si è aperta obbliga a tornare al tema, oggi “inopportuno”, del multiculturalismo e riscattare la “grande politica”. Se la piccola politica, come quelle espresse nell’affermazione di identità e nella cultura delle differenze, rimaneva prigioniera del particolare, la Politica – con P maiuscola – ci può condurre progressivamente all’universale. Si tratta qui dell’azione politica che induca gli uomini a superare le loro limitazioni singolari e la mera particolarità che li caratterizzano per identificarsi con il genere umano.
Nello stato democratico di diritto, le politiche pubbliche dovrebbero muoversi in questa direzione. Nel caso brasiliano, il superamento della particolarità ha a suo favore il mito della “democrazia razziale”, considerato da molti soltanto come un’“ipocrisia”. Ma, l’ipocrisia è un omaggio che il vizio presta alla virtù. C’è qualcosa di importante e virtuoso in questo mito brasiliano che dovrebbe servire di riferimento per costruire una democrazia sostantiva, senza aggettivazioni, in cui il colore della pelle di una persona smetta di essere oggetto di orgoglio o discriminazione.

 

IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E L’EMERGENZA COVID-19

di Andrea Ciacci

Abstract:

Il contributo affronta la tematica del principio di precauzione, vera e propria bussola dei governi nazionali nel fronteggiare la pandemia da Covid-19. L’analisi prende le mosse dalle prime apparizioni del principio per giungere alle sue più recenti formulazioni, interrogandosi infine relativamente alla coerenza dell’operato del Governo italiano con il corretto utilizzo del principio de quo.

The research addresses the issue of the precautionary principle, which has been the main tool many National governments have been using to face the Covid-19 pandemics. The analysis also questions the actions taken by the Italian government, subjecting them to the magnifying glass of the principle itself.

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Genesi ed applicazioni del principio di precauzione. – 3. Considerazioni conclusive.

1. Premessa

La pandemia [ref]Così classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si rimanda al WHO Director-General’s opening remarks at the media briefing on COVID-19 dell’11 Marzo 2020.[/ref] della patologia respiratoria denominata COVID-19 [ref]Abbreviazione dell’inglese COronaVIrus Disease-2019.[/ref], che sin dai primi mesi del 2020 sta interessando l’intera popolazione mondiale, ha richiesto l’adozione di misure straordinarie da parte degli Stati, volte – nell’attesa dello sviluppo di un vaccino – al contenimento del contagio da coronavirus SARS-CoV-2 [ref]Denominazione adottata dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) e successivamente utilizzata anche dall’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC).[/ref]: si tratta, principalmente, di restrizioni a diritti fondamentali quali l’autodeterminazione e la libera circolazione degli individui, nonché di limitazioni allo svolgimento di attività economiche.

In assenza di presidi terapeutici convalidati e certi, il governo italiano [ref]Attraverso decreti legge (in particolare, i numeri 6 e 19 del 2020), decreti ministeriali e decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri adottati in ossequio alla legge 23 agosto 1988, n. 400 e nell’ambito delle materie che l’articolo 117 della Costituzione riserva alla potestà legislativa e regolamentare esclusiva dello Stato, nonché esercitando il potere di ordinanza in materia di protezione civile che l’articolo 5 del Codice della protezione civile (Decreto Legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018) attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri; per quanto di competenza del Ministro della Salute, per il tramite delle ordinanze di cui all’articolo 32, primo comma, della legge 23 dicembre 1978 n. 833.[/ref] e gli enti locali [ref]Le Regioni si sono avvalse del potere di ordinanza loro conferito, anche nelle materie di igiene e sanità pubblica, dall’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n. 833. I Comuni hanno adottato misure eccezionali attraverso lo strumento delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all’articolo 50, comma 5, del decreto legislativo n. 267 del 2000, predisposto dal testo unico degli enti locali (anche) per i casi di emergenza sanitaria o di igiene pubblica, qualora rivestano esclusivamente carattere locale.[/ref] hanno optato per un approccio all’emergenza [ref] In data 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza fino al 30 luglio 2020. Ciò si è reso necessario “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.[/ref] di tipo precauzionale, principalmente inibendo agli individui (a prescindere dal loro stato di salute) la possibilità di allontanarsi dai propri luoghi di dimora (se non per casi eccezionali, tassativamente previsti nei decreti adottati) [ref] Il c.d. “lockdown”; detto termine, nei paesi anglosassoni, indica quel particolare protocollo d’emergenza teso al confinamento degli individui in una determinata area, per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico.[/ref], vietando gli assembramenti, precludendo l’ingresso e l’uscita da determinati territori, prescrivendo l’utilizzo di idonei presidi sanitari.

È noto come, a partire dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020, le misure in un primo momento operanti limitatamente in circoscritte zone della penisola [ref]Per mezzo del DPCM datato 8 marzo 2020, il quale, all’articolo 1, individua le località interessate nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.[/ref] siano state, successivamente, estese a tutto il territorio nazionale, interessando anche comuni e regioni che fino ad allora non avevano registrato casi di positività al COVID-19.

La vigorosa politica cautelativa adottata dal governo, centrale e locale, è conseguenza della mancanza di esaustiva letteratura scientifica in merito al SARS-CoV-2; l’opportunità di intervenire, “sospendendo” talune libertà costituzionalmente garantite per salvaguardare il bene primario della salute pubblica nonché la tenuta del sistema sanitario nazionale, è suggerita dal principio di precauzione.

2. Genesi ed applicazioni del principio di precauzione

Il principio di precauzione costituisce uno dei più importanti approdi della riflessione giuridica del XX secolo.

La sua genesi è legata a doppio filo col progresso nel campo tecnologico e scientifico, il quale ha reso possibile lo svolgimento di attività il cui raggio d’azione si estende ben oltre il luogo ove le stesse siano poste in essere [ref]Per mezzo del DPCM datato 8 marzo 2020, il quale, all’articolo 1, individua le località interessate nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.[/ref]. Tale condizione di “onnipotenza tecnologica” non è stata, tuttavia, affiancata da una parallela, esaustiva cognizione in merito ai suoi effetti collaterali. È in questo scenario che si afferma il principio di precauzione, non senza qualche opinione critica [ref]A tal riguardo, si segnala il pensiero del costituzionalista statunitense Cass R. Sunstein. Ne Il diritto della paura (trad. it. di U. Izzo, il Mulino, Bologna 2010), Sunstein sostiene che il principio di precauzione è “incoerente, perché le misure regolative da adottare genererebbero, a loro volta, nuovi rischi, con effetti paralizzanti: da un lato proibendo l’adozione di misure regolative, dall’altro consigliando di mantenere fermo lo status quo. Sunstein propone, pertanto, di limitare l’ambito di applicazione del principio di precauzione alle situazioni di esposizione ad un rischio potenzialmente catastrofico, con conseguenze non stimabili ed effetti dannosi irreversibili (il cd. principio anticatastrofe).[/ref].

Hans Jonas è considerato uno dei padri del principio di cui si discorre. Il filosofo tedesco, nel postulare una nuova etica fondata sulla responsabilità verso le generazioni future, riteneva fosse necessario, “nell’era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, onnipotente”e delle conseguenti incertezze sulle “previsioni del futuro”, dare maggiore considerazione alla “profezia di sventura”, piuttosto che ad una più rassicurante “profezia di salvezza” [ref]Cfr. H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.[/ref]. Da tali premesse, Jonas ne derivava l’esigenza di scelte umane lungimiranti e tese ad anticipare il malum immaginato, non soltanto quello esperito.

La règle de droit [ref]Cfr. Charles Lében, Le principe de précaution. Aspects de droit International et communautaire, Edition Pantheon-Assas, Parigi 2002, p. 95 ss.[/ref] dell’agire precauzionale valorizza il dialogo tra diritto e scienza, trovando il proprio ambito di applicazione, dunque, nelle situazioni connotate da un fattore di incertezza scientifica [ref]La Commissione Europea, nella Comunicazione sul ricorso al principio di precauzione del 2000, osserva – al punto 5.1.3 – che “l’incertezza scientifica deriva di solito da cinque caratteristiche del metodo scientifico: le variabili prescelte, le misurazioni effettuate, i campioni individuati, i modelli utilizzati e le relazioni causali impiegate. L’incertezza scientifica può derivare inoltre da controversie sui dati esistenti o dalla mancanza di dati. L’incertezza può riguardare elementi qualitativi o quantitativi dell’analisi.”.[/ref] relativamente alle conseguenze eziologiche di una data condotta.

Questo aspetto consente di discernere il principio de quo da quello similare di prevenzione, il quale opera in situazioni in cui sussistono evidenze scientifiche ed il rischio di eventi dannosi non è meramente temuto, ma di sicura configurazione. Questa maggiore disponibilità di conoscenze consente, contrariamente a quanto avviene nelle angustie delle acquisizioni scientifiche in cui opera la precauzione, l’adozione di provvedimenti mirati, specifici e proporzionati all’evento infausto da evitare.

Il principio di precauzione giustifica un’eccezionale anticipazione della soglia di intervento dello Stato e della Pubblica Amministrazione per la tutela di determinati beni di importanza primaria (quali l’ambiente e salute umana), sacrificando altri interessi pur meritevoli di tutela – si pensi ai diritti di proprietà o di iniziativa economica privata – nonostante l’assenza di evidenze circa l’effettiva sussistenza di rischi [ref]Con l’ordinanza n. 93 del 18 luglio 2019, il Sindaco di Scanzano Jonico ha disposto, “in ossequio all’art. 32 della Costituzione ed al principio di precauzione sancito dal diritto comunitario e dall’art. 3-ter del D. Lgs. n. 152/2006”, il divieto di sperimentazione e/o installazione del 5G su tutto il territorio del Comune, posto che “le radiofrequenze del 5g sono del tutto inesplorate, mancando qualsiasi studio preliminare sulla valutazione del rischio sanitario e per l’ecosistema derivabile da una massiccia, multipla e cumulativa installazione di milioni di nuove antenne”.[/ref].

La necessità, per il legislatore o l’amministrazione, di intervenire (o di non agire [ref]R. Titomanlio osserva come, analizzando la normativa internazionale, comunitaria e nazionale, nonché la prassi giurisprudenziale, tale principio non goda di contorni ben definiti, potendo esser invocato tanto quale criterio di intervento dei poteri pubblici, quanto come criterio di legittimazione dell’astensione degli stessi. Cfr. R. Titomanlio, Il principio di precauzione fra ordinamento europeo e ordinamento italiano, Giappichelli, Torino 2018, p. 13.[/ref]) scaturisce, inoltre, dalla constatazione che l’eventuale danno prodotto sarebbe di ardua, se non impossibile, riparazione una volta verificatosi.

Il principio di precauzione registra la propria affermazione nell’ambito della tutela ambientale, trovando oggi applicazione tendenzialmente in ogni settore. Nella prassi, in particolare, un notevole utilizzo del principio si rinviene nella tutela della salute umana e dei consumatori.

Quanto al diritto positivo, le prime formulazioni possono rinvenirsi nella legislazione tedesca degli anni Settanta, allorquando la Legge sull’impiego pacifico dell’energia nucleare, all’articolo 7, subordina la concessione di un’autorizzazione alla produzione di energia atomica all’adozione di tutte le precauzioni necessarie contro i danni derivabili dalla costruzione e dal funzionamento dell’impianto.

In seguito, e parallelamente al crescente interesse verso la causa ecologista che si registra nella seconda metà del ‘900 [ref]Per i movimenti ambientalisti contemporanei è fondamentale la figura del naturalista statunitense Aldo Leopold, che, con la teoria dell’ etica della Terra, evidenzia come la salvaguardia dell’intero ambiente in cui viviamo sia lo scopo ultimo della specie umana. Cfr. A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches Here and There, Oxford University Press, Oxford 1949 (trad. it. di Andrea Roveda, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, Prato 2019).[/ref], numerose convenzioni internazionali contempleranno il principio in esame.

L’approccio precauzionale, dopo un primo riconoscimento nella Carta mondiale della natura adottata dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1982, è ripreso dal principio n. 15 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992. Quest’ultimo stabilisce che gli Stati, ove “sussistano minacce di danni gravi o irreversibili” per l’ambiente, non potranno addurre “la mancanza di una completa certezza scientifica (…) come motivo per rimandare iniziative costose in grado di prevenire il degrado ambientale”.

Nell’ordinamento europeo entra in scena col Trattato sull’Unione Europea firmato nel 1992 a Maastricht, annoverato tra i principi fondamentali in materia ambientale della politica comunitaria (art.174 TCE, oggi 191 TFUE [ref]Per quanto qui di interesse, si riporta il comma secondo, prima parte, dell’articolo 191 TFUE (ex articolo 174 del TCE), che recita:

“La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga.”.[/ref]). L’articolo 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea [ref]Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) è il risultato di diverse modifiche apportate al testo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea (TCEE) firmato a Roma nel 1957. L’attuale denominazione è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, del 2007.[/ref] prevede che la politica dell’Unione in materia ambientale sia basata, tra gli altri, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva.

Formulato originariamente per agire all’interno dei confini della sola politica ambientale, il principio ha nel tempo assunto connotati di principio generale, grazie soprattutto all’azione della giurisprudenza europea. Da più parti, tuttavia, si è evidenziata l’estrema vaghezza della sua formulazione, constatato come né l’art. 174 TCE né il successivo art. 191 TFUE contengano indicazioni di carattere sostanziale.

Pertanto, la Commissione, su incarico del Consiglio europeo, ha predisposto la Comunicazione sul ricorso al principio di precauzione [ref]COM(2000) 1 final. 2 febbraio 2000. Tale comunicazione è ritenuta “vaga e confusa” da Sunstein, che nutre notevole perplessità circa la possibilità di combinare l’analisi costi-benefici col principio di precauzione, soprattutto perché non si specifica alcunché su come operare laddove i costi della regolamentazione siano superiori ai benefici attesi: cfr. C. R. Sunstein, op. cit., p. 166.[/ref] relativa al significato nonché al margine di operatività da attribuire al principio, cui riconosce portata generale. Nella sezione introduttiva si legge come la scelta di assumere una decisione fondata sul principio di precauzione sia da preferire in presenza di due condizioni: quando le informazioni scientifiche sono “insufficienti, non conclusive o incerte”, e vi siano indicazioni in merito a possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante “incompatibili con il livello di protezione prestabilito dalla Comunità”.

La Commissione, rilevato come tale principio si scontri, da una parte, con le libertà economiche e, dall’altra, con le istanze di tutela ambientale e della salute umana, ammette la possibilità per le amministrazioni europee di adottare misure precauzionali, purché proporzionate, non discriminatorie, trasparenti e coerenti [ref]Come recita COM(2000) 1 final. 2 febbraio 2000, ai punti 6.3.1, 6.3.2 e 6.3.3[/ref], all’esito di una procedura strutturata di adozione delle decisioni condotta sulla base di informazioni particolareggiate e obiettive di carattere scientifico. Il ricorso al principio di precauzione sarà dunque legittimato ove, al termine di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprensiva di valutazione, gestione e comunicazione del rischio, residui incertezza scientifica relativamente all’entità e alla gestione degli stessi.

La Corte di giustizia si è occupata in numerose occasioni del principio in esame [ref]Si ricorda, in particolare, la recente sentenza del 5 settembre 2019 della quinta sezione della Corte di giustizia (causa C-443/18), con la quale la Corte ha riconosciuto l’Italia inadempiente degli obblighi precauzionali sanciti dall’art. 7, par. 2 c) e 7, della decisione di esecuzione (UE) 2015/789 della Commissione, come modificata dalla decisione di esecuzione (UE) 2016/764 della Commissione, in tema di Xylella fastidiosa. La decisione di esecuzione 2015/789 aveva imposto all’Italia la rimozione degli ulivi che si fossero trovati in un raggio di 100 metri dalle piante già infette dal batterio Xylella, “indipendentemente dal loro stato di salute”.[/ref]. L’approccio precauzionale, secondo copiosa giurisprudenza comunitaria, giustifica l’adozione di misure di protezione quando sussistano incertezze in merito all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, non dovendosi attendere la dimostrazione dell’effettiva sussistenza, nonché della gravità, di tali pericoli [ref]Cfr. sentenza 9 giugno 2016, cause riunite C-78/16 e C-79/16.[/ref].

È sufficiente, dunque, che “persista la probabilità di un danno reale per la salute pubblica nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse” [ref]Così la sentenza 17 dicembre 2015, Neptune Distribution, C-157/14.[/ref]. La Corte sottolinea come il principio di proporzionalità, nella scelta delle misure precauzionali da applicare nel caso concreto, debba fungere da criterio-guida teso ad evitare che si oltrepassino “i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi” [ref] Cfr. sentenza 17 ottobre 2013, Schaible, C-101/12.[/ref]. Pertanto, ove fosse possibile optare tra più misure, il rispetto del principio di proporzionalità impone che la preferenza ricada su quella meno gravosa per il destinatario. Allo stesso tempo, nell’ipotesi in cui l’incertezza ricada sull’ an della produzione di conseguenze nocive, non potranno esser adottate misure che dispongano un divieto assoluto dell’attività sub iudice.

Nell’ordinamento giuridico italiano non vi è una norma generale che contempli questo principio, quanto, piuttosto, si rinvengono semplici riferimenti alla precauzione in normative di settore (ex multis, si pensi al codice dell’ambiente [ref]D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, all’art. 301 prevede come, “in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del Trattato CE”, laddove sussistano pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, debba esser garantito un elevato livello di protezione. Si consente, perciò, al Ministro dell’ambiente, in applicazione del principio di precauzione, di adottare “in qualsiasi momento” misure di prevenzione, purché proporzionali rispetto al livello di protezione da raggiungere, non discriminatorie e coerenti con misure analoghe già adottate.[/ref], al codice del consumo [ref]D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che, ai commi 4 e 5 dell’art. 107, stabilisce che le amministrazioni competenti possano tener conto del principio di precauzione, ma le misure adottate devono essere proporzionate alla gravità del rischio.[/ref] nonché alla legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici [ref]Legge 22 febbraio 2001, n. 36. L’articolo 1, al primo comma, pone tra gli scopi della legge quello di dettare i principi fondamentali diretti, tra l’altro, a “promuovere la ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e attivare misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del trattato istitutivo dell’Unione Europea”[/ref]).

Per via del richiamo ai principi dell’ordinamento comunitario, contenuto nell’articolo 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241, per come modificato dalla legge 15/2005, quello di precauzione costituisce, inoltre, uno dei principi che guidano l’azione amministrativa.

Il Consiglio di Stato ha contribuito a definirne i contorni e ha precisato che il principio di derivazione comunitaria della precauzione impone, qualora sussistano incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, l’adozione di misure di protezione “senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi” [ref]Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 8 febbraio 2018, n. 826.[/ref]. Notevole importanza, a tal proposito, riveste la sentenza n. 6250 del 2013 con la quale è stato stilato quello che, in dottrina [ref] G. Monaco, Dal Consiglio di Stato quasi un “decalogo” sull’applicazione del principio di precauzione. Nota a Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250, in Urbanistica e appalti , 2014, 5, 551 ss. [/ref], è stato definito un “decalogo” per la corretta applicazione del principio in esame da parte delle pubbliche amministrazioni. Le misure precauzionali da adottare, si osserva, “presuppongono che la valutazione dei rischi di cui dispongono le autorità riveli indizi specifici i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente o alla salute”. La valutazione dei rischi propedeutica all’adozione di tali misure, specifica il Consiglio di Stato, dovrà esser il più completa possibile; non potrà basarsi su rischi meramente ipotetici e, al contempo, non sarà necessario raggiungere quell’evidenza scientifica che, d’altronde, difetta e rende necessaria tale anticipazione di tutela. Infine, i giudici amministrativi – allineandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – ritengono indispensabile che la pubblica amministrazione, nello scegliere le misure da applicare, sia guidata dal principio di proporzionalità, affinché gli interessi coinvolti dalla sua azione sopportino il minor sacrificio possibile.

Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di occuparsi del principio di precauzione, sebbene in via mediata, pronunciandosi in tema di salute, tutela dell’ambiente ed iniziativa economica privata. Dallo studio della recente giurisprudenza della Consulta si evince come tale principio abbia assunto le vesti di strumento di bilanciamento fra contrapposti interessi di rilievo costituzionale. Paradigmatica in tal senso è la sentenza n. 116 del 2006, in tema di organismi modificati geneticamente. In tale circostanza, il giudice delle leggi ha utilizzato il principio di precauzione per sostenere la necessità di limitare – non mortificando totalmente – l’iniziativa economica dell’imprenditore agricolo per ragioni di utilità sociale, ovvero di tutela della salute umana e dell’ambiente. Precauzione, dunque, che richiama un giudizio di ragionevolezza e proporzionalità sulle scelte del legislatore. Richiamando un proprio precedente [ref]Corte Costituzionale, sentenza n. 282 del 2002.[/ref], la Corte ha ritenuto tuttavia necessario che l’imposizione di limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica, sulla base dei principi di prevenzione e precauzione nell’interesse dell’ambiente e della salute umana, per esser costituzionalmente ammissibile, debba esser basata su “indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi, di norma nazionali o sovranazionali, a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che, a questi fini, rivestono gli organi tecnico scientifici”.

3. Considerazioni conclusive

Il principio di precauzione trova, dunque, piena cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico e, nel contesto emergenziale in essere, viene in rilievo in almeno due momenti.

Costituisce, anzitutto, l’humus dei provvedimenti [ref]Prevalentemente di natura amministrativa, pertanto suscettibili di vaglio giurisdizionale laddove non si tratti dei cd. atti politici, per i quali l’articolo 7 del decreto legislativo n. 104 del 2 luglio 2010 dispone l’insindacabilità.[/ref] di contrasto al diffondersi del SARS-CoV-2 adottati da Stato ed enti locali sin dai primi mesi del 2020, a causa di una letteratura scientifica in fieri che non consente tuttora di operare sotto l’egida esclusiva della prevenzione in senso stretto e, di conseguenza, adottare presidi meno generici.

Allo stesso tempo, il principio si pone quale strumento di cui avvalersi nel bilanciamento di opposti interessi di rango costituzionale.

A tal riguardo, la preminente tutela della salute, riconosciuta dall’articolo 32 della Carta costituzionale come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, giustifica norme dal carattere eccezionale volte ad impedire o restringere il godimento di altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti, nella misura e per il tempo in cui l’effettivo esercizio degli stessi possa compromettere il fine di contenimento del contagio, e quindi anche al di là delle espresse previsioni costituzionali.

Tuttavia, deficit di proporzionalità e ragionevolezza, principi che la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, considera immanenti al principio di precauzione, si son palesati per taluni specifici aspetti.

Anzitutto, con riferimento all’imposizione di divieti allo svolgimento anche di quelle attività esercitate senza alcun pericolo per la propagazione del virus come, ad esempio, la circolazione in ampi spazi di soggetti sani, muniti di dispositivi anti-contagio e nel rispetto delle indicazioni in merito al distanziamento sociale ed al divieto di assembramento. Secondariamente, con riguardo alla mancata predisposizione di un termine finale ad hoc per ogni specifica, gravosa, compressione delle libertà costituzionali contenuta nei decreti. In proposito, non si può sottacere come la fissazione del termine andasse definita non in via generale, ma con particolare attenzione alle singole limitazioni, e che anche là dove ciò sia stato successivamente fatto le decisioni assunte non son apparse congruamente motivate, ma, più che altro, dettate da una prudenza forse eccessiva ed a volte ingiustificata.

È in prospettiva, con l’auspicabile progresso del sapere scientifico e la normalizzazione della situazione sanitaria del Paese, che il principio di proporzione assumerà un ruolo ancor più decisivo.

I poteri pubblici saranno, infatti, tenuti ad adeguare – costantemente – le straordinarie misure ancora in parte vigenti al mutato contesto, attenuandone il rigore e differenziandole, se del caso, su base territoriale. Un tale modus operandi si rende necessario affinché le legittime esigenze precauzionali non comportino costi sociali superiori ai benefici perseguiti.

Dottorando di ricerca in Teoria del diritto e Ordine giuridico ed economico europeo presso l’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.