L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813: la formazione al senso per la filosofia

1. Nel suo concreto svolgimento la fichtiana Dottrina della scienza si presenta non solo come un sistema compiuto di filosofia trascendentale, ma anche, e insieme, come il risultato, mai definitivamente fissato, di una ininterrotta attività del pensare, che non si appaga mai dei risultati conseguiti, riflette su nuove questioni, dischiude punti di vista originali, apre nuovi campi di indagine. Le diverse esposizioni della Dottrina della scienza, i manoscritti di “meditazioni personali” (eigene Meditationen) su di essa, che Fichte compose durante il corso della sua vita e che sono stati resi accessibili dalla Edizione storico-critica (Gesamtausgabe [GA]) – come per esempio i Diari degli anni 1813 e 1814 – offrono una chiara testimonianza di questo tratto fondamentale della Dottrina della scienza, compresa e realizzata non solo come dottrina (teoria), ma come attività del pensare. In quanto compenetrazione autocritica del sapere, sapere del sapere, la Dottrina della scienza viene sviluppata attraverso una specifica “praxis” della riflessione (Besinnung) e dell’auto-riflessione (Selbstbesinnung), che devono venire consapevolmente esercitate dal filosofo nella sua ricerca e nel suo insegnamento onde pervenire al contenuto sistematico, all’esposizione stessa del sapere trascendentale. Pertanto la Dottrina della Scienza è insieme sistema e prassi del pensare  ovvero prasseologia (Praxeologik), in cui questa si evidenzia come la premessa dinamica e, allo stesso tempo, come il necessario presupposto del venire in essere del primo elemento, cioè del sistema.

Tale dimensione prasseologica della costruzione della Dottrina della scienza – che per Fichte significa: della filosofia stessa – deve essere esplicitamente presa in considerazione dal filosofo trascendentale, riflettuta criticamente e posta metodicamente in gioco. Che la Dottrina della scienza sia non soltanto teoria della ragione, ma insieme e allo stesso tempo anche prassi della ragione stessa, anzi prassi riflessiva della ragione, riguarda non soltanto la mediazione di un contenuto dottrinale già pronto e costituito, ma anche e soprattutto la costruzione, la costituzione stessa del sistema trascendentale. Quest’ultimo non è infatti una morta impalcatura di concetti fissi, ma un organismo vivente di pensieri creativi, che poggiano sull’intuizione intellettuale ovvero sull’auto-intuirsi (Sich-Anschauen) (o intra-intuirsi [Sich-Einschauen]) dell’intelligenza e che restituiscono la stessa immanente sistematicità dello spirito umano. Il “sistema del figurare” (Bilden) (per riprendere una definizione di Reinhard Lauth) deve essere configurato ed elaborato sempre di nuovo nella vivente attuazione del pensare, ovvero nel figurare (Bilden) stesso[ref] Cfr. Reinhard Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di Marco Ivaldo, Trauben, Torino 2004.[/ref].

2. In diversi luoghi  Fichte porta ad espressione tale caratteristica della Dottrina della scienza usando un termine preciso: arte [Kunst]. Nella Esposizione della Dottrina della scienza 1801-2 ad esempio, egli fa notare che, per praticare la filosofia in quanto Dottrina della scienza, è necessaria “un’arte della riflessione (Besinnung) esercitata fino alla libertà assoluta” (GA II/6, 133). Anche all’inizio della Dottrina della scienza di Königsberg 1807 la Dottrina della Scienza viene caratterizzata come “arte del vedere” (GA II/10, 113). Arte della riflessione, arte del vedere: secondo Fichte la Dottrina della scienza è un esercizio (ovvero una pratica) della riflessione o del  vedere – questo termine (Sehen) esprime per Fichte l’essenza stessa del sapere -, che deve risultare sì dall’osservanza di determinate regole, ma sempre comunque in un libero atto del pensiero. Di qui la parola-guida: arte. Un mero seguire la regola senza la vivente attuazione della libertà non è in nessun modo sufficiente a realizzare la Dottrina della scienza come arte del vedere o del riflettere. Già nelle lezioni Sulla differenza tra la lettera e lo spirito in filosofia del 1794 Fichte aveva chiarito che il fatto di accontentarsi, nel filosofare, dell’applicazione di regole conosciute, non avrebbe prodotto altro che una “pura filosofia per formule (Formular Philosophie)” (GA II/3, 330), forse anche totalmente corretta dal profilo formale, ma mai in grado di corrispondere al vero compito della filosofia in quanto esposizione del vivente sistema dello spirito umano. Per un filosofare vivente e non semplicemente formale – si potrebbe dire – occorre una immaginazione ‘speculativa’, che Fichte in queste lezioni chiama “spirito” (Geist): non c’è Dottrina della scienza senza spirito!

3. Ora, era fondamentale convinzione di Fichte, della cui verità e validità egli è divenuto consapevole con crescente intensità, che la costruzione della Dottrina della scienza come arte del riflettere o del vedere presuppone e richiede la formazione (Bildung) di uno specifico “organo” del riflettere e del vedere stessi. Proprio all’inizio della Dottrina della scienza 1807 Fichte afferma che, grazie all’introduzione nella Dottrina della scienza i suoi uditori “sarebbero diventati partecipi di un senso nuovo, al quale si sarebbe aperto un nuovo mondo” (GA II/10, 111). Un nuovo senso, un nuovo mondo: per poter essere compiutamente compresa e realizzata, l’arte della riflessione – la Dottrina della scienza – necèssita di un particolare senso o organo di senso, da curare e coltivare in quanto tale, e che soltanto può renderci accessibili gli oggetti propri della filosofia (qui designati come “nuovo mondo”)[ref] Cfr. Michael Gerten, Geistige Blindheit und der Sinn für Philosophie. Das systematische Problem einer Einleitung in Fichtes Wissenschaftslehre, in „Fichte-Studien“, 31 (2007), pp. 135-158. [/ref]. Poco prima, nell’anno 1805, nelle lezioni introduttive di Erlangen Institutiones Omnis Philosophiae, appare una formulazione che è significativa per il mio tema: “senso per la filosofia”. Fichte chiarisce che ambito della filosofia non sono gli “oggetti del senso esterno”, ma piuttosto quelli del “senso interno” oppure di “un nuovo senso interno”. Senza di esso ciò di cui la filosofia discorre rimarrebbe una “parola vuota, come il parlare sui colori da parte di un cieco”. Incontreremo ancora questa metafora di cecità e visione. Ora, in queste Institutiones il senso interno di cui si tratta viene designato anche come senso per la filosofia. Leggiamo: “il primo esito assolutamente necessario dell’esposizione filosofica consiste […] in ciò, che grazie alla sua sollecitazione si apra, si sviluppi e venga formato un senso per la filosofia che è specificatamente e toto genere diverso da tutti gli altri sensi e facoltà” (GA II/9, 36). Nessuna arte del riflettere allora senza senso per la filosofia.

4. Il crescente significato che Fichte sembra assegnare al risveglio e alla formazione del senso per la filosofia ha tuttavia anche un altro motivo, che non aveva a che fare tanto con l’interna costruzione del sistema, quanto con le “sorti” della ricezione della Dottrina della scienza – ovvero con la comprensione o con la (frequente) incomprensione della stessa presso il pubblico colto. Ancora nel 1801 Fichte aveva intrapreso il “tentativo” di “costringere i lettori a capire” – come recita il sottotitolo del Rapporto chiaro come il sole – mediante nuove spiegazioni. Egli però si sarebbe reso conto via via che l’eliminazione del fraintendimento del suo assunto fondamentale, e la corretta comprensione dello stesso, non potevano venire “costrette” semplicemente mediante ripetute illustrazioni del contenuto dottrinale, ma che esse richiedevano l’assunzione di una determinata disposizione (o orientamento) spirituale da parte dei lettori o degli ascoltatori. Tale disposizione non può essere indotta per via logica; essa infatti appartiene alle premesse del riflettere logico-trascendentale, il quale a sua volta può diventare cosciente del suo valore intrinseco in via riflessiva. Orbene, l’orientamento richiesto ha come presupposto la formazione (Bildung) del senso per la filosofia, e può venire in essere solo  grazie a quest’ultimo.

Fichte ha trattato ed approfondito questo motivo-chiave della formazione del senso per la filosofia in opere o lezioni che per lo più recano come titolo “introduzione” (Einführung o Einleitung), oppure vengono  designate come “prolegomeni” (Prolegomena) [ref] Cfr. Federico Ferraguto, Filosofare prima della filosofia. Il problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J. G. Fichte, Olms, Hildesheim 2010; Id., Orientarsi nel pensiero e avviamento alla filosofia, in “Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici, XXXVIII, 1 (2013), pp. 133-148. [/ref]. Tali elaborazioni tuttavia non devono in nessun modo esser considerate come semplici avviamenti esteriori alla filosofia: esse sono già filosofia, ovvero sono parti integranti del concreto compimento della Dottrina della scienza, se questa deve essere intesa – come ho già sottolineato – non solo come l’esposizione di un contenuto dottrinale determinato, ma come attività della ragione in actu, sì, come “esercizio” del pensare.

5. Un esito maturo di queste riflessioni sulla formazione del senso filosofico è rappresentato dalle lezioni che Fichte tenne dal 4 novembre al 23 dicembre 1813 presso l’Università di Berlino come Introduzione alla Dottrina della Scienza [ref] Della Einleitung in die Wissenschaftslehre 1813 possiamo disporre del manoscritto, edito in J. G. Fichte-Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzki, E. Fuchs, P. K. Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, II/16, pp. 225-314; e di una copia dalle lezioni (Nachschrift), custodita nella biblioteca di Halle, di estensore ignoto, ora pubblicata in GA, IV/6, pp. 351-472.  Esiste anche una Nachschrift dovuta a Jakob Ludwig Cauer, incompleta, passi della quale vengono addotti, dagli editori della GA, come varianti o integrazioni al testo della Nachschrift-Halle.  [/ref]. Nel seguito vorrei porre in risalto soltanto alcuni luoghi di queste lezioni che sono significativi per il mio tema. Esse iniziano con un giudizio molto critico e anzi distruttivo sulla ricezione di quella dottrina (trascendentale) che era stata avanzata prima dalle Critiche kantiane e poi dalla Dottrina della scienza. Tale dottrina (Lehre) “nei  tre decenni [trascorsi dalla prima edizione della Critica della ragione pura 1781] non sarebbe stata assolutamente compresa” (dal manoscritto di Fichte, GA II/17, 232). Fichte osserva che “comprensione, possesso, esercizio del principio fondamentale non hanno ancora avuto luogo” – laddove la non-comprensione del principio rappresenta per lui addirittura “un male minore” rispetto al fraintendimento dello stesso, perché la non-comprensione lascia ancora aperta, e possibile all’umanità, la “trasformazione” della maniera di pensare che è “da attendersi”, mentre il fraintendimento, soprattutto quando creda di aver capito (esattamente) e di aver superato la dottrina compresa, annienta la possibilità stessa di una (giusta) comprensione. Il fraintendimento ostinato, che si reputa superiore, è perciò quello che deve essere assolutamente evitato. Ora, per rettificare la non-comprensione ed eliminare il fraintendimento occorre per Fichte stabilire un punto, che non sembra essere stato del tutto chiaro nemmeno a Kant: “Questo insegnamento presuppone un organo sensoriale [Sinnenwerkzeug] del tutto nuovo, mediante il quale nascerà un mondo interamente nuovo, che per gli uomini ordinari non si dà affatto” (GA II 17, 234). Non si dà accesso alla filosofia trascendentale ed nessuna comprensione della stessa senza l’attività del relativo organo di senso, il quale soltanto è in grado di schiudere il “nuovo mondo” – cioè i veri oggetti della filosofia -, e che già nel 1805 Fichte aveva definito “senso per la filosofia”.

Ora, come risulta dai passi appena citati, il mondo spirituale dischiuso dal nuovo organo sensoriale è completamente sottratto alla percezione di coloro che Fichte definisce “uomini ordinari” (gewöhnliche Menschen): “Per gli uomini quali sono, a seguito della loro nascita, e quali divengono tramite l’educazione ordinaria, questa dottrina è del tutto incomprensibile” (ivi): Gli oggetti di cui parla la filosofia trascendentale non esistono per gli “uomini ordinari”, e ciò perché essi sono sprovvisti del necessario organo sensoriale. Qui riappare la metafora della cecità e della visione, che abbiamo già incontrato, una metafora che – come lo stesso Fichte osserva – risulta particolarmente idonea al tema in gioco, poiché il nuovo senso si rapporta al senso “ordinario” internamente allo stesso modo in cui il vedere e il toccare si rapportano esteriormente. L’“uomo ordinario” è simile al “cieco nato”. Chi volesse parlare con questo di fenomeni (come i colori) che non sono accessibili al toccare, non sarebbe in realtà in grado di parlargli affatto. Peggio ancora sarebbe se il cieco nato pretendesse di capire mediante il toccare quei fenomeni che sono inaccessibili al toccare e accessibili al solo vedere. Il risultato sarebbe o un non-capire, oppure un fraintendere o un equivocare. Proprio quest’ultimo è, secondo Fichte, il destino che è toccato alla Dottrina della scienza: d’esser fraintesa a causa della mancanza dell’organo sensoriale richiesto. Si capisce allora come Fichte sottolinei energicamente che la condizione primaria per rendere comprensibile la Dottrina della scienza è la formazione di un nuovo senso – dell’occhio spirituale – per il quale soltanto possono esistere gli oggetti propri della filosofia. Perciò la Dottrina della scienza – come del resto ogni teoria – è composizione e comprensione in unità di ciò che è dato e conosciuto mediante il senso (= la “percezione immediata”) – solo però non mediante il senso empirico (= ”ordinario”), bensì mediante il senso interno, e da sviluppare dal nuovo. Il nuovo senso è dunque presupposto, vivente premessa della realizzazione della Dottrina della scienza, ciò che per Fichte significa: dell’attuazione della riflessione e auto-riflessione filosofica condotta al suo compimento. Suona di notevole importanza per il mio assunto un’espressione di Fichte in questo contesto, ovvero che la Dottrina della scienza “non sarebbe soltanto dottrina, e nemmeno in primissimo luogo dottrina, ma una trasformazione (Umbildung) completa dell’uomo cui essa giunge. Una ri-creazione (Umschaffung) e rinnovazione (Erneuerung); un ampliamento (Erweiterung) di tutto il suo esserci, da una sfera limitata ad una più alta” (GA II/17, 235). La Dottrina della scienza è non solo dottrina, ma prassi del pensiero, e come tale, cioè in quanto esercizio del pensare, essa possiede una valenza esistenziale. Comporta una metamorfosi dell’uomo ordinario, sì, essa rappresenta per lui una specie di “rinascita” (GA II/17, 237). Ma la metamorfosi e la rinascita presuppongono per parte loro il risveglio e l’esercizio del nuovo senso.

6. Perché nuovo senso? A questa domanda Fichte conferisce, in queste lezioni, una doppia risposta. La prima prende in considerazione la costituzione stessa dello spirito umano; la seconda concerne lo sviluppo spirituale e culturale del genere umano. Riguardo al primo punto Fichte chiarisce che il senso nuovo non è “un senso particolare, partecipato solo a pochi eletti e particolarmente dotati spiritualmente” (GA II/17, 235). Non si danno individui che dispongono di questo senso e altri che ne sono sprovvisti. Una simile opinione sarebbe – come  Fichte si esprime –  “arrogante” e contraddirebbe la sua “intera visione”. Fichte non ha mai dismesso il suo originario umanismo fondato sulla dignità dell’uomo, cioè: fondato sulla dignità di ogni individuo. Ogni individuo ha in se stesso la facoltà di innalzarsi alla conoscenza razionale. Fichte parla in questo contesto di una “disposizione” (Anlage) al senso nuovo, o a un nuovo “percepire” (cfr. la Nachschrift-Halle, GA IV/6, 358 – “percepire” [Vernehmen] è parola apprezzata da Jacobi) – una disposizione che si dà senza eccezione in ogni individuo. Non è la disposizione per il senso spirituale ad essere nuova, perché essa è inseparabile dal nostro essere uomini. Il nuovo che deve venire a manifestazione è il suo “sviluppo” (Entwicklung) . La disposizione deve venire svolta, cioè posta in uso vivente per il percepire effettivo: “Soltanto l’uso reale del senso [interno] è nuovo” si afferma nella Nachschrift-Halle della Introduzione (GA IV/6, 359). Riprendendo la metafora della cecità e della visione: nessuno è, secondo Fichte, spiritualmente cieco per l’eternità. Il cosiddetto cieco spirituale non è privo dell’occhio spirituale e dell’interna forza visiva in quanto disposizione (Anlage); soltanto, quest’occhio è in lui sigillato da una “potenza estranea”, il cui influsso negativo può e deve venire rimosso. Anche se Fichte qui non chiarisce propriamente che cosa si debba intendere con “potenza estranea”, si può supporre che essa rappresenti la forza di ciò che in questo stesso contesto egli designa come “l’ordinaria percezione dell’uomo naturale ” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 238). L’introduzione filosofica alla Dottrina della scienza ha infatti come compito di avanzare le premesse per la liberazione dell’occhio spirituale dalla potenza della percezione ordinaria – con il linguaggio della fenomenologia: della “disposizione naturale”. Ho parlato a ragion veduta di premesse, perché l’introduzione filosofica è in grado soltanto di preparare l’apertura dell’occhio spirituale. Che poi questa apertura abbia luogo davvero dipende dalla libera attuazione del pensare, che ognuno deve attivare in se stesso e da se stesso. Chi vuole praticare la filosofia deve – seguendo l’invito a filosofare da parte del “docente della Dottrina della scienza” – lavorare su se stesso e liberamente pensare, “affinché in questa nuova vita creativa possa afferrarlo l’EVIDENZA” (Sullo studio della filosofia, Berlino 1811-1812, GA IV/4, 46). La liberazione dell’occhio spirituale dalle catene e dalle ombre della caverna, per riprendere la celebre immagine platonica, non è dunque un accadimento passivo, ma un’auto-liberazione, che comunque deve avvenire nel nesso interpersonale tra docente e discente, in un dare e ricevere spirituale – ovvero nella comunicazione. L’arte della riflessione, la prassi della ragione potrebbe essere dunque considerata, secondo questa visione, come una risposta liberatrice, una ‘responsività’ (Verantwortung) nei confronti di un appello a pensare in proprio (Selbstdenken).

7. La novità del senso spirituale non riguarda soltanto lo sviluppo della sua disposizione nell’individuo e il suo manifestarsi nella temporalità della singola persona. Questo sviluppo è infatti un processo che avviene non solo in singoli individui, ma si estende, come Fichte sottolinea, all’intero genere umano. Ma come dobbiamo pensare questo sviluppo all’altezza del genere umano? L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813 distingue due momenti (o gradi) di sviluppo del senso spirituale. Essendo quest’ultimo strettamente intessuto con l’essere stesso dell’uomo, Fichte non può né vuole affatto disconoscere che nel passato e fra i contemporanei il senso spirituale sia già stato e sia tuttora, efficace, e attivo. Un passo significativo suona: “Con [questo] senso [e non con quello solo ordinario] si è visto (gesehen) da quando gli uomini esistono, e tutto ciò che di grande e di eccellente si trova nell’umanità, e solo fa sussistere l’umano, proviene dalle visioni di questo senso” (manoscritto GA II/17, 236). Senza l’azione di ciò che Fichte in questo stesso contesto chiama anche la percezione del mondo spirituale, sarebbe divenuto impossibile tutto quel buono e quell’eccellente per cui “il genere umano è conservato nell’esistere” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359) – perfino la stessa filosofia trascendentale. Il primo momento di sviluppo del senso interiore è perciò caratterizzato dal suo esserci e il suo operare di fatto. Ciò che però assolutamente manca a questo momento, secondo Fichte, è che in esso il senso interiore non viene visto e osservato nella sua differenza ed opposizione rispetto al senso ordinario. Il risultato paradossale di questa assenza di auto-osservazione del senso spirituale, cioè dell’intelligenza (intelligere), è da un lato che le impressioni di ambedue i sensi, quello ordinario ed empirico e quello spirituale, rimangono in qualche modo confuse (= da cui: oscurità, confusione); dall’altro lato è che la vita, priva di un vero legame unificante, rimane divisa in due metà separate (il fattuale e lo spirituale). Confusione e separazione, invece che distinzione e relazione. La Nachschrift-Halle dell’Introduzione adduce su questo tema il seguente chiarimento: Se il senso interiore non viene osservato come tale nella sua differenza da quello ordinario, “gli uomini restano sospesi tra i due mondi, senza poter scoprire il legame tra essi; perciò senza nemmeno poter notare la loro differenza” (GA IV/6, 359).

Il secondo momento dello sviluppo della disposizione spirituale consiste dunque secondo Fichte in ciò: che il senso spirituale in quanto tale deve essere osservato e percepito nella sua fondamentale differenza rispetto a quello ordinario-naturale. Ciò che è effettivamente nuovo per l’umanità è, secondo l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813, l’auto-vedersi del vedere spirituale, è che venga effettuato un auto-compenetrarsi del senso interiore in una libera attuazione. Fichte definisce questo gradino come “senso del senso”. Quest’ultimo non sarebbe semplicemente la percezione del mondo spirituale (primo gradino), ma la percezione di questa percezione. Solo grazie all’auto-compenetrarsi del senso interiore, o dell’occhio interiore, diviene possibile afferrare unitariamente la differenza e il legame del mondo dato fattualmente e del mondo spirituale, cosa che nel primo gradino di sviluppo, quello del mero esserci del senso interiore, non poteva ancora aver luogo. Il legame unificante entrambi i sensi, quello esteriore fattuale e quello interiore spirituale, è perciò il senso del senso, l’auto-vedersi dell’intelligenza, che secondo Fichte è un principio allo stesso tempo pratico e teoretico. In definitiva è il nuovo senso – proprio quel senso che deve entrare come nuovo nel mondo della manifestazione: il senso del senso -, che realizza la percezione degli oggetti spirituali colta nella sua struttura riflessiva. E senza l’auto-riferimento riflessivo, dice Fichte, la percezione del mondo spirituale non potrebbe neppure considerarsi completamente fondata e assicurata nella sua differenza dalla percezione fattuale.

8. La novità di cui l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813 vuole essere l’annuncio è dunque l’idea del senso del senso, e insieme l’esortazione che la disposizione al senso spirituale (all’intelligenza, alla ragione) debba essere svolta fino al punto di afferrare se stessa: “Il senso di questo senso, non semplicemente la percezione del mondo spirituale, bensì la percezione di questa percezione in opposizione all’altra [fattuale] – ciò è davvero nuovo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359). Ora, questo auto-afferrarsi dell’intelligenza è precisamente ciò che la filosofia trascendentale ha avviato a partire dalla Critica della ragione di Kant e poi mediante la Dottrina della scienza. Ci troviamo allora nel circolo seguente: da un lato la filosofia trascendentale ha ‘scoperto’ il senso del senso e lo ha fatto valere, o quantomeno ha cercato di farlo valere; dall’altro lato la filosofia trascendentale ha questo stesso auto-afferrarsi del senso quale presupposto o premessa della sua stessa costruzione -, tanto che l’assunto trascendentale non viene compreso e deve restare frainteso se questo senso non viene esercitato e praticato. La via d’uscita per sfuggire questa situazione, a seguito della quale il nuovo senso appare contemporaneamente come risultato e come premessa dell’intrapresa trascendentale, è secondo Fichte quella per cui si divenga “convinti della mancanza del nuovo senso” e ci si “impegni a procurarselo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359-360). In tal modo mi sembra venga accennato il processo di una educazione (Bildung) riflessiva al senso del senso, cui deve venire riconosciuto un significato centrale nella elaborazione della stessa filosofia trascendentale.

Lo spirito umano deve essere educato allo sviluppo del nuovo senso, del senso del senso, ma una tale formazione, la formazione alla riflessività, è per parte sua una decisiva componente di quella riflessione della riflessione, o riflessione “alla seconda potenza” [ref] Cfr. Luigi Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, nuova ed. aumentata, Mursia Milano, 1976. [/ref], che la filosofia trascendentale è in se stessa – dato che senza esercitazione pensante del senso del senso resta del tutto impossibile non solo l’accesso alla filosofia trascendentale, ma il suo dispiegamento come sistema della conoscenza principiale. Focalizzando l’attenzione sul termine “senso” (Sinn) si potrebbe asserire che senza il senso del senso non sarebbe possibile alcuna radicale riflessione (Besinnung) e autoriflessione (Selbstbesinnung), quale la filosofia trascendentale pretende di essere. Proseguendo questi pensieri Fichte osserva nelle lezioni che il senso del senso rappresenta “un nuovo compito, proposto al genere umano soltanto nella nostra epoca” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 236). Il senso del senso non è un mero possesso, che si possa semplicemente detenere e del quale si possa disporre a piacere; educarlo e farlo valere sulla scena filosofica è un compito assolutamente qualificante della nostra epoca. In ultima istanza: il ‘nuovo’ è per noi compito, alla cui libera assunzione e responsabile attuazione siamo appellati. In quanto compito il senso del senso deve venire effettuato sempre di nuovo in una libera attuazione. Non mi sembra sbagliato considerare il motivo del senso del senso e della sua educazione nelle lezioni introduttive alla Dottrina della scienza dell’inverno 1813 come un ultimo legato dell’autore della Dottrina della scienza. Con esso Fichte vuole dire alla sua epoca ma anche alla posterità che la filosofia trascendentale – per poter essere praticata in generale e addirittura compresa – richiede in definitiva una liberazione dell’occhio spirituale e l’apertura di una nuova percezione, che è l’auto-appercepirsi vivente del vedere spirituale. Secondo questo “ultimo” Fichte la filosofia trascendentale sta o cade con lo sviluppo di questa percezione della percezione spirituale, con il veder-si del vedere.

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