Il sonno della ragione collettiva: tra pluralismo e disobbedienza civile
Daniele Corasaniti
Lo scontro istituzionale in corso tra alcuni amministrazioni locali e gli attori principali del governo giallo-verde rappresenta un precedente non inedito per la storia recente del nostro paese, dove più volte gli attori principali delle forze governative hanno trovato nelle amministrazioni locali di colore politico avverso forze oppositive o comunque di ostaggio rispetto agli scopi perseguiti con le loro politiche.
Basti ricordare le proteste che si sono levate in numerosi casi di leggi ritenute di disfavore verso talune amministrazioni locali o provvedimenti che si ponevano in contrasto con alcune linee programmatiche di grandi centri urbani. In alcuni casi i sindaci e le amministrazioni hanno innalzato così tanto il livello dello scontro da far parlare a media e stampa mainstream di atti di “disobbedienza civile”, giusto per citare – frettolosamente e goffamente – quel pezzo di storia che nacque da Thoreau in poi e che notoriamente fu di ispirazione per grandi processi di cambiamenti sociali, come quelli guidati da Mahthma Gandhi.
La disobbedienza civile, tuttavia, è un fatto incredibilmente diverso – non meno serio – di quello che è invece il problema che si sta attualmente sollevando nel nostro paese e che riguarda invece la gestione dei processi culturali. Per cui lasciamo stare la disubbidienza civile e vediamo invece di capire di cosa stiamo parlando.
All’indomani dell’approvazione del D.L. sicurezza (o d.l. Salvini che dir si voglia), prima le associazioni per la gestione delle strutture di accoglienza e di integrazione dei migranti e poi diverse – non tutte, appunto – amministrazioni comunali hanno manifestato la propria contrarietà contro questa politica del governo, per ragioni diverse. Mentre i primi lamentavano non solo il taglio cospicuo di fondi ma anche la messa in discussione stessa del sistema delle cooperative al servizio dei migranti, le amministrazioni lamentano invece la questione della protezione umanitaria (ii) e lo smantellamento del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) (i)
(i) Quest’ultimo, com’è noto, è il luogo nel quale i migranti venivano inseriti in percorsi di istruzione primaria, di inserimento sociale e di avviamento al lavoro. Un percorso, l’unico, che funzionava davvero nel nostro Paese (con tutte le fisiologiche sbavature del caso) e che in alcuni casi era diventato un modello di integrazione riconosciuto a livello internazionale: non solo il caso Riace, ma se ne potrebbero citare tanti altri. Con il D.L. approvato si è deciso che gli ingressi a questi saranno possibili per una fascia limitatissima di migranti con determinati criteri, mentre i rimanenti verranno trasferiti.
(ii) Sul fronte della protezione umanitaria le conseguenze del D. L. sicurezza si annunciano come devastanti. In Italia soltanto nel 2017 sono state presentate 130mila domande di protezione internazionale e nel 25 per cento dei casi è stata concessa la protezione umanitaria, all’8 per cento delle persone è stato riconosciuto lo status di rifugiato, un altro 8 per cento ha ottenuto la protezione sussidiaria, il restante 7 per cento ha ottenuto altri tipi di protezione. Il permesso di soggiorno derivante dalla concessione della protezione umanitaria durava due anni e dava diritto al lavoro, ai servizi sociali e all’edilizia popolare. La nuova normativa, di fatto, lo abolisce limitandolo ad alcuni casi speciali (protezione sociale per vittime di sfruttamento violenze, ragioni di salute e calamità naturali nel Paese di origine) che generano un permesso speciale di un anno.
Ora non è difficile comprendere quali saranno le conseguenze di entrambe le questioni. Nel primo caso (i) la maggior parte dei richiedenti asilo negli SPRAR sarà costretto a trasferirsi presso altre strutture dei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) o nei Cara, dove notoriamente non svolgono nessuna attività di inserimento sociale né tantomeno educativa o istruttiva. Attività che in teoria risultano fondamentali non solo per il singolo migrante e per il suo percorso di formazione individuale, ma è anche strumentale ad evitare che intraprenda strade di devianza sociale. Insomma, venuti meno gli Sprar maggiori saranno i costi in termini di insicurezza sociale: un migrante che arriva nel nostro paese senza istruzione né lavoro sarà più dedito ad attività delittuose se non coerentemente inserito in progetti di educazione e socializzazione largamente intesa.
Nel secondo caso (ii), da premesse diverse si arriva ad un medesima conclusione: il potenziale livello di insicurezza sociale provocato dal nuovo status del migrante che non riceve protezione umanitaria. Chi non riceve protezione umanitaria o comunque nessuno degli altri status di protezione sarà infatti inevitabilmente destinato ad entrare nel calderone dell’irregolarità. Ed un migrante irregolare è un migrante potenzialmente ed inevitabilmente più pericoloso rispetto a quello che riceve asilo, poiché solo non potrà accedere ai regolari contratti di lavoro, ma spesso inserirà incidentalmente nella morsa del lavoro nero e del capolarato, contribuendo in maniera notevole anche a forme districate di dumping sociale o, nella peggiore delle ipotesi, a nuove forme di insicurezza cittadine, con un innalzamento del livello di micro-criminalità e insicurezza collettiva.
Insomma, da entrambi i fronti la preoccupazione delle amministrazioni locali sembra essere quella che il decreto sicurezza instauri processi di criminalizzazione secondaria e determini quindi un infittirsi di tensione nei già compromessi rapporti sociali delle grandi realtà metropolitane.
Qualcuno, giustamente, in punta di piedi, chiede: ed i rimpatri?
Il ché, in astratto, non sarebbe nemmeno errato, sebbene, da sinistra in particolar modo, i rimpatri (che sono altra cosa rispetto alle espulsioni) siano sempre stati oggetto di un certo insopportabile astio e tabù. Su ciò è invece bene ribadirlo anche in questo contesto: in un sistema che abbia voglia di funzionare ed in cui risulti credibile il sistema di protezione internazionale e di integrazione, un efficiente sistema dei rimpatri risulta strumentale e indispensabile.
Ma fra dire ed il fare c’è in mezzo un mare di complessità. E per renderci conto di cosa stiamo parlando basta guardare ai numeri. I rimpatri decisi da Frontex, l’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera, ad esempio, sono negli anni sempre il doppio di quelli effettivamente realizzati (nel solo 2016 sono oltre 305 mila quelli decisi a fronte di appena di poco più di 175 mila effettuati). Allo stesso modo l’Italia nel medesimo anno, a fronte di più di 41mila immigrati scoperti, ne ha rimpatriati circa un terzo, 18mila.
Il tutto per più ordini di ragioni. La prima è che non sempre è facilmente rintracciabile un migrante, che spesso invece – proprio in virtù del proprio status di irregolare – tende a dileguarsi e quindi a subire gli effetti tipici di tali condizioni. In secondo luogo, il sistema dei rimpatri funziona male anche per via di una difficoltà dei governi italiani di instaurare buone relazioni diplomatiche con i paesi nei quali eseguire i rimpatri, ovviamente non interessati a ri-ospitare un emigrante se non in cambio di una contro-prestazione in termini di sostegni ed investimenti. In più, i rimpatri – per quanto indispensabili – costano e non poco. Si passa da cifre che oscillano dai 5mila agli 8mila euro fino a quelle anche di 80mila, ovviamente a carico dello Stato. Il tutto a rendere più complicato e più ineffettivo un sistema già di per sé ingolfato e al quale difficilmente si può seriamente fare affidamento.
Di fronte a questo stato di cose una manciata di osservatori persiste nel giudicare la protesta delle amministrazioni come meramente ideologica o legata a singoli aspetti di dialettica politica.
Ammettendo che ciò sia vero, per quel gioco delle parti che inevitabilmente interessano gli scontri propri della democrazia repubblicana, non sembra tuttavia potersi escludere che al di là della componente ideologica, vi sia una più profonda questione sociale che questo provvedimento intacca in uno dei peggiori modi possibili. Al di là degli slogan, infatti, non c’è solo un’ottica razzista, xenofoba e di lotta alle minoranze etniche in gioco. C’è invece anche in ballo una nuova dimensione del conflitto nel quale la questione dei migranti viene affrontata.
È ovvio che la diversità, il pluralismo, sia di per sé fattore di un incontro prima e di uno scontro poi. Lo scontro, gli scontri, i conflitti, sono fisiologici all’interno di una società complessa. La storia, in fondo, come diceva taluno, è storia dei conflitti. Le istituzioni hanno dunque il compito di domarli e comporli, concedendogli sede di sfogo e rappresentanza in prima sede e di ricomposizione in seconda. È chiaro che invece qui lo scontro non viene ricomposto ma anzi trova un ulteriore momento di sfaldatura sociale. La politica, in nome di una contraddizione ontologica, abdica ai suoi compiti e ai suoi ruoli i di attore principale di un ragionamento collettivo. E nel sonno di questo inevitabili si generano nuovi mostri.