La (nuova) «grande trasformazione»: Badiou e il risveglio della Storia
[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]C[/drop_cap]on il 1989 il mondo occidentale e liberale ha subito una seconda grande trasformazione, dopo quella degli anni fra le due guerre mondiali, che ne ha messo in discussione l’identità e le prospettive. Secondo Alain Badiou si sono riaperte le porte per l’affermazione dell’Idea comunista. La crisi del sistema capitalistico è oggettiva, con buona pace di chi aveva decretato la «fine della storia», ma a leggere l’autore francese, più che di una «rinascita della Storia», sembra di trovarsi di fronte all’ennesima, sterile utopia. Il mondo contemporaneo è protagonista di rivolgimenti straordinari che ne stando mutando assetti e configurazioni. Tanto che, ai più vari livelli, ci si può tranquillamente esprimere in termini di «cambiamento epocale». I giornalisti e poi gli storici, dovendo rispondere alla necessità di individuare delle date simboliche, solitamente si rivolgono all’11 settembre del 2001 e ai terribili accadimenti di New York e Washington. Ma se non c’è dubbio sul valore tragicamente simbolico di questa data, ce ne sono molti, invece, sulla sua capacità di spiegare cause ed origini della nuova e grande trasformazione in atto. Coloro che vogliono comprendere servendosi della ragione storica, infatti, e non (solo) emozionarsi ricorrendo a quello strumento senza tempo (e spesso privo di nessi causali che agevolino l’intelligenza dei fatti) che è il sentimento del dramma immediato, devono piuttosto ricorrere a una data anteriore a quella del 2001, che semmai è uno dei frutti avvelenati del 1989. E’ con il 1989, insomma, con la fine del mondo diviso in blocchi e, soprattutto, con la caduta della presenza fattiva dell’Idea comunista nei paesi del blocco sovietico (latente in quelli occidentali), che abbiamo assistito all’inizio del passaggio epocale, della seconda grande trasformazione del XX secolo dopo quella descritta da Karl Polanyi, che si riferiva agli anni fra le due guerre mondiali.
1 La prima grande trasformazione
La prima grande trasformazione del Novecento, era quella seguita alla pace dei cento anni (1814- 1914), ossia a quel vero e proprio accordo internazionale che impedì l’esplodere di conflitti tra le grandi potenze, fondato su un sostanziale «equilibrio di potere» (a spese dei paesi poveri e colonizzati), sulla «base aurea internazionale» che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale, nonché sul «mercato autoregolantesi», che produceva un benessere economico senza precedenti. Il tutto, tenuto insieme dallo «stato liberale», vero e proprio collante di un mondo occidentale costituito su queste basi (Polanyi 1974: 3). La grande trasformazione, titolo dell’opera omonima di Polanyi, trovò la sua sostanza nel crollo radicale di tutte queste caratteristiche che avevano permeato le nazioni liberali fino a quel momento, trasformando il mondo occidentale prima attraverso la «soluzione fascista (secondo la controversa tesi dell’autore), poi attraverso un rivolgimento più generale, che vide da una parte la Russia approdare al «socialismo dittatoriale», dall’altra i campioni del liberalismo economico (Usa e Gran Bretagna) costretti a ricorrere al New Deal e alle soluzioni keynesiane (stataliste) per riuscire a sopravvivere alla terribile crisi economica del 1929. Comun denominatore di tutti questi stravolgimenti, annotava Polanyi, era l’abbandono del dogma liberale del laissez-faire (Polanyi 1974: 245, 250-2). Il mondo occidentale uscito da questa imponente trasformazione aveva assunto dei connotati straordinariamente nuovi, tanto che uno storico come Hobsbawm, nella sua fortunatissima sintesi del «secolo breve», riferisce del «capitalismo post-bellico» come di un sistema partorito da «una sorta di matrimonio fra il liberalismo economico e la democrazia sociale […] con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’Urss, che per prima aveva praticato la pianificazione economica» (Hobsbawm 1994: 212). Tutto ciò malgrado la fervida opposizione da parte dei teologi del libero mercato (su tutti il von Hayek di The Road to Serfdom, del 1944), i quali ritenevano che questa grande trasformazione dell’economia (e in genere delle politiche e delle società) dell’Occidente avrebbe condotto direttamente a una nuova servitù della gleba: «Essi – ricorda ancora Hobsbawm – si erano schierati per l’intoccabile purezza del mercato anche durante la Grande Crisi. Continuarono poi a condannare le politiche che fecero aurea l’Età dell’oro, quando il mondo divenne più ricco e il capitalismo (insieme col liberalismo politico) rifiorirono grazie alla mescolanza di mercato e di stato nell’economia. Ma fra gli anni ’40 e gli anni ’70 nessuno prestò orecchio a questi vecchi credenti» (Hobsbawm 1994: 318-9).
2 La seconda grande trasformazione
L’occidente liberale, uscito dalla prima trasformazione del Novecento con le caratteristiche che abbiamo sommariamente ricordato, è durato effettivamente fino agli anni Settanta, quando qualcosa cominciò a incrinarsi, fino all’esplosione raffigurata simbolicamente dal crollo del Muro di Berlino e, con esso, di un blocco ideologico e politico che aveva rappresentato, e difeso, a livello mondiale le istanze comuniste. Tutto ciò, sarebbe scorretto negarlo, in un contesto che vedeva comunque le potenze occidentali continuare ad «esternalizzare» (nei confronti dei paesi più deboli, del Medioriente, dell’Africa, dell’America latina) quelle forme di sfruttamento che si sono rivelate consustanziali al sistema capitalistico nel corso della sua travagliata storia, e che hanno spinto l’Occidente a dipingersi ogni volta come l’«araldo di una modernità trionfante», mosso dalla «vocazione a costituire il modello della modernizzazione del mondo» (Bessis 2001: 56-7). Né le cose sono cambiate ai nostri giorni, tanto da spingere un autorevole studioso a definire gli stati occidentali come «cattivi samaritani», pronti cioè a proteggere anche militarmente le proprie economie e i propri interessi salvo imporre ai paesi più deboli i dogmi del liberismo più rigido e assurdo, fino a fare della competizione economica globale «un gioco di giocatori ineguali» (Chang 2008: 218-9). Ma certamente l’esistenza del forte blocco comunista, e con esso di influenti partiti di ispirazione marxista all’interno degli stati occidentali, aveva spinto gli stati liberali da una parte a mollare (seppur limitatamente e con palesi contraddizioni) gli istinti colonizzatori nei confronti dell’esterno, dall’altra a rafforzare al proprio interno quel matrimonio fra libero mercato e giustizia sociale destinato a garantire crescita economica e benessere per più ampi strati della popolazione. Questa è almeno la convinzione, nonché la premessa, contenuta nel libro di Alan Badiou Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove rivolte mondiali, uscito in Francia nel 2011 e tradotto in Italia l’anno dopo per i tipi di Ponte alle Grazie. Badiou che, certamente, non manifesta simpatia per la forma di «democrazia» elaborata dagli stati occidentali, frutto dell’inconfessabile alleanza (con tanto di finta opposizione reciproca) fra il capitalismo di mercato dei liberali e il capitalismo di stato dei traditori di Marx (che pure a lui hanno continuato a richiamarsi per molto tempo). In questo ricordando oltremodo le tesi dell’ultimo Debord, quando nei Commentari sulla società dello spettacolo escogitava la formula dello «spettacolare integrato» per descrivere la forma di dominio di un potere, quello del capitalismo di stato (così chiamato anche da Badiou), che si era costruito sull’alleanza tra vecchi (e finti) oppositori, marxismo e liberalismo, su quel connubio inossidabile fra stato e mercato in grado, come nessun potere prima, di esercitare un dominio assoluto sulla totalità della dimensione umana (Debord 1988: § 4). Ma a differenza di Debord, Badiou è convinto che oggigiorno ci troviamo di fronte a una possibilità di riscatto radicale, resa possibile da quella seconda grande trasformazione del Novecento che si connota per due aspetti fondanti: da una parte, a partire proprio dal 1989, stiamo assistendo alla «reazione» del capitale contro le conquiste sociali faticosamente ottenute in decenni di lotte dai movimenti comunisti e socialisti, fino ad arrivare al compromesso storico e sociale del welfare state; dall’altra si assiste a un «risveglio della storia» (con buona pace di chi ne aveva proclamato la fine, proprio nel 1989, come nel caso di Fukuyama) caratterizzato dall’esplodere di movimenti di massa, più immediati e latenti in Occidente, più storici e quindi capaci di una rivoluzione fattiva in Oriente (Primavera araba).
3 Il ritorno dei morti viventi
Risveglio della storia a cui mancherebbe, per completare il progetto rivoluzionario, l’incontro di questi movimenti con l’Idea in grado di fornirli di senso, entusiasmo, unità e, quindi, di un progetto unitario volto alla distruzione di quell’ordine capitalista oggi finalmente colpito da una crisi strutturale e irrimediabile (le previsioni di Marx si sono avverate con un secolo e mezzo di distanza, secondo la tesi di Badiou). L’Idea di cui parla l’autore francese, ed è lui stesso a usare la maiuscola, è quella «comunista», finalmente rispettosa del disegno marxiano e non disposta a corrompersi e degradarsi come nel caso della dittatura di stato sfociata in Urss e nella Cina maoista. L’armamentario a cui Badiou decide di ricorrere è quello classico, seppure rivisitato in chiave moderna e alla luce delle sconfitte storiche: parliamo di «ritorno dei morti viventi» non in senso spregiativo o dileggiante, quanto piuttosto nel senso tecnico di riportare alla luce, e al ruolo di protagoniste, delle «entità» che troppo semplicisticamente si erano date per sconfitte e defunte, quando invece si erano ritirate a uno stato di latenza (non privo di una qualche oggettiva capacità di influenza). Si parte dalla spinta anarchica (propria delle pulsioni messianiche del giovane Marx, da lui stesso poi ampiamente corrette) per cui inserire lo stato fra i nemici da combattere e quindi superare (esso è produttore di stragi, di divisioni umane, di finzioni inesistenti ma funzionali al potere, oltre ad essere naturalmente il rappresentante legale degli interessi capitalistici). Si condanna la democrazia occidentale (sì, anche quella rappresentativa) come una forma capziosa di dominio su masse deleganti e, quindi, auto-relegantesi al ruolo di strumenti passivi della macchina del potere. Si biasima l’ingenuità, oltre che la disonestà intrinseca, di quel relativismo culturale per cui abbiamo imparato a non riporre fiducia (meno ancora fede), in «verità assolute», portatrici di un progetto totalizzante, e salvifico al tempo stesso, di riconfigurazione totale della società umana: Badiou rivendica per l’Idea comunista il valore di Verità cui aderire con «entusiasmo» (da notare il termine di marcata origine religiosa, visto che alla lettera vuol dire «avere dio dentro»). L’autore francese si pone anche il problema del «soggetto rivoluzionario», in grado di dirigere il processo di organizzazione delle masse rivoluzionarie (che abbisognano di «rettitudine e vera fedeltà alla lotta»), che egli riconosce, alla luce delle esperienze storiche, non poter essere rappresentato dalla forma-partito, ormai diventata obsoleta: «E’ il problema principale che ci è stato lasciato in eredità dal comunismo di Stato del secolo passato» (p. 83). Ma ecco che, dopo tanti decenni di sconfitte, «sta arrivando (tornando?) il nostro turno. E per noi il problema centrale sarà quello di un’organizzazione politica in cui il “fuori tempo” sia anche il “fuori-partito”, se è vero che l’epoca dei partiti, inaugurata dal club dei giacobini durante la Rivoluzione francese, alla fine del XVIII secolo, scandita dai “comunisti” nel senso dell’Internazionale fondata da Marx a metà del XIX secolo, istituzionalizzata dal partito socialdemocratico tedesco negli anni intorno al 1880, rivoluzionata dal Lenin di Che fare? all’inizio del XX secolo, si è chiusa negli anni Sessanta e Settanta, quando la Rivoluzione culturale cinese non è riuscita a realizzare il desiderio di Mao e degli studenti e operai rivoluzionari di trasformare il Partito della dittatura socialista in Partito del movimento comunista» (p. 84). La differenza più forte rispetto al marxismo tradizionale (e ancor di più rispetto a Marx), è quella per cui Badiou, diremmo paradossalmente, vede il terreno più fertile di realizzazione di questa rivoluzione comunista ben «fuori dall’Occidente» del capitalismo avanzato (e in agonia), riponendo una fiducia incredibilmente esagerata e persino ingenua nei movimenti della Primavera araba (contemporanei al momento di composizione del libro).
4. Risveglio della Storia o ritorno dell’Utopia?
Ma è proprio a partire dalla questione del soggetto rivoluzionario, di cui lo stesso Badiou ammette tanto la centralità quanto le difficoltà connesse, a portare alla luce un limite intrinseco al suo progetto di risveglio della storia (e della rivoluzione comunista). Certamente egli ha il pregio di chiamarsi fuori dalle fragili e curiose proposte (ad esser buoni) di individuare un soggetto politico avanzate da alcuni dei più illustri autori di ispirazione marxista della contemporaneità. E’ sufficiente aprire alcuni di questi volumi per rendersi conto della fragilità teorica che lo ha preceduto rispetto a tale questione: il Marco Revelli di Oltre il Novecento riteneva di individuare il nuovo soggetto rivoluzionario nel «passaggio dall’estenuata figura del militante a quella, ancora incerta e vacillante, del Volontario (scritto, anche qui, con la maiuscola); Hardt e Negri, nel loro celebre Impero, dopo una raffinata e fascinosa analisi delle nuove contraddizioni insite nel capitalismo globalizzato, riponevano le speranze di riscossa nientemeno che nel «militante creativo», ispirato da un «progetto di amore» che deve trarre spunto dalla figura di S. Francesco. Né le cose vanno meglio se ci rivolgiamo al testo, più recente, di Žižek, che individuando nelle «baraccopoli» il fenomeno geopolitico quantitativamente più rilevante del capitalismo globale, suggerisce che da questi abitanti, e dalle vittime dell’apartheid e del «terzo mondo» in genere possano emergere i nuovi soggetti rivoluzionari: si tratta, per Žižek, nientemeno che di «politicizzare, organizzare e disciplinare le “masse destrutturate” degli abitanti delle baraccopoli» (Revelli 2001: 286; Hardt-Negri 2000: 381; Žižek 2008: 424-7; Ercolani 2011: 444-8). Grande è la confusione sotto al cielo, e a questa confusione ci sembra fornire un apporto non indifferente anche Badiou, soprattutto laddove decide di ritirare fuori (ed è l’ennesimo ferrovecchio) la proposta della «dittatura», una «dittatura popolare» rappresentata da «un’autorità che si legittima da sola proprio a partire dall’autolegittimazione della propria verità» (p. 62). Al rifiuto della democrazia rappresentativa, insomma, Badiou fa seguire la proposta di una «democrazia di massa» in grado di imporre la dittatura delle proprie decisioni, in virtù del fatto che è costituzionalmente portatrice di una verità in grado di affermarsi come «volontà generale». Il pensiero corre a Rousseau, certamente, ma occorre ricordare che persino il ginevrino giungeva ad ammettere, alla fine dei conti, la necessità di una «figura mitica» come Mosé o Licurgo, insomma un legislatore in grado di elaborare e codificare la volontà generale, che è sì sempre retta, ma non sempre guidata da un giudizio illuminato, poiché «il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre è capace di vederlo» (Rousseau 1959-69, tomo III: pp. 380-2). La storia non finisce, e quindi non si risveglia. Essa, piuttosto, segue un percorso che è bene conoscere per trarne delle lezioni che possono tornare utili nel momento presente. Il limite di fondo di Badiou, invece, consiste proprio in questa sua riproposizione, per quanto aggiornata, di schemi che non tengono per nulla conto delle lezioni della storia. Non sono le masse a poter guidare la storia, e qualunque dittatura popolare è sempre sfociata nel potere dispotico di un grande Capo o, tutt’al più, di un’oligarchia privilegiata. Non sorprende affatto che questa soluzione populistica provenga da un autore che ha trascurato, nella sua analisi del mondo contemporaneo, due fenomeni invece centrali per evitare il pericolo di nuove forme di anarchia e di teologia senza dio (apparentemente): la religione e la Rete (nuova forma di religione panteistica). Si tratta, in fondo, di un meccanismo ben compreso dal filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, quello per cui l’uomo si ammanta di «credenze» cui aderire totalmente, fino a sostituirle alla realtà, perché a differenza delle «idee» esse non presentano aspetti problematici. Se è vero, insomma, che uno storico che voglia comprendere un uomo o un’epoca deve prima investigare il «sistema di credenze» (Ortega Y Gasset 1946-68, tomo IX: 500) che li caratterizza, l’errore principale di Badiou risiede proprio nell’incapacità di innalzarsi su un piano scientifico e razionale, finendo per rimanere lui per primo coinvolto da una nuova forma di teologia politica che egli chiama «risveglio della storia», ma che in realtà somiglia assai di più a quel «sonno della ragione» generatore di mostri che non vorremmo vedere più.
Riferimenti bibliografici
Bessis S. (2001): L’Occident et les autres. Histoire d’une suprématie, La Découverte, Paris Chang H.J. (2008): Bad Samaritans. The Mith of Free Trade and the Secret History of Capitalism, Bloomsbury Press, New York Debord G. (1988): Commentaires sur la société du spectacle, Éditions Gérard Lebovici, Paris Ercolani P. (2011): La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora, La Scuola di Pitagora, Napoli Fukuyama F. (1989): The End of History?, in The National Interest, Summer Gasset O.Y. (1946-1968): Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid Hobsbawm E.J. (1994): The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, Abacus, London Polanyi K. (1974): The Great Transormation. The Political and Economic Origins of Our Time (1944), Beacon Press, Boston Revelli M. (2001): Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino Rousseau J.J. (1959-69): Oeuvres Complètes, Gallimard, Paris Hardt M. – Negri T. (2000): Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano Žižek S. (2008): In Defense of Lost Causes, Verso, London – New York Paolo Ercolani insegna storia della filosofia e teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale e membro dell’Osservatorio filosofico. Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il Novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006), Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008), La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti (Bari 2012).
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