Il libro si struttura all’interno di un percorso argomentativo che lascia pochi dubbi su cosa conti veramente per l’Autrice, su qual è il messaggio “politico” che lei intende lanciare: per esprimere la sua soggettività la persona umana ha bisogno di uno spazio pubblico improntato ai canoni della laicità e di una narrazione progressiva e libertaria dei diritti. Questo è il ticket attorno al quale Cinzia Sciuto costruisce il suo lavoro. Premetto pure che si tratta di un saggio con una forte “carica giuridica”, pronta ad emergere ad ogni “giro di pagina” per dare conto di una fattualità materiale che irrompe sulla scena pubblica seguendo logiche inedite, di cui l’Autrice dà conto attingendo al patrimonio ermeneutico della filosofia. L’Autrice è una filosofa che scrive di diritti civili, laicità e femminismo (così leggiamo nella seconda di copertina del libro).
Da un lato, la laicità, dunque, che il prossimo anno festeggia trent’anni, dalla storica sentenza n. 203 dell’aprile 1989. In questi trent’anni, però, il principio di laicità (definito addirittura “supremo” dai giudici della Corte in quanto “uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica”) ha faticato non poco a trovare pratica attuazione: il nostro è un Paese in cui i “problemi pratici” – non solo della laicità, parafrasando A.C. Jemolo – faticano a trovare soluzione stando al passo con i cambiamenti della società. La storia della società italiana è fatta di improvvisi passi avanti e forti rallentamenti: pensiamo alle battaglie sui diritti civili e oggi sui diritti sociali in funzione dell’integrazione delle persone straniere.
La causa di questa attuazione “rallentata” della laicità, non risiede soltanto nei “non possumus” della gerarchia cattolica, ma anche nella lentezza della politica italiana dal 1989 ad oggi (nonostante alcune importanti conquiste democratiche, precedenti e successive a questa data, forse più precedenti che successive) che non ha saputo “orientare” la cooperazione tra Stato e Chiesa: “… alla promozione dell’uomo e [al] bene del Paese” (art. 1, legge n. 121/1985).
Preferisco parlare di “orientamento” (laico) dell’attività politico-istituzionale e non di “imposizione” della laicità come categoria ideologica. Alla laicità, ritengo, ci si debba “affezionare”. E questo avviene solo se le istituzioni politiche e la società civile organizzata (la “Repubblica”, di cui parla spesso la Costituzione) sono in grado di tradurla in formula migliorativa (rectius: accrescitiva) della trama democratica. Per dirla con la Sciuto, solo se la laicità diventa “precondizione della democrazia”. Una precondizione, però, “discorsiva”, che non “pretende” – che non si “impone”, appunto – che si nutre di interazioni feconde, che non considera il cittadino, per dirla con Tocqueville, “in modo astratto” e che mette in conto anche il suo possibile “fallimento”. Dunque la laicità come “sfida” che il legislatore deve saper cogliere per farla diventare “norma di riconoscimento della volontà del legislatore” (Colaianni).

Ebbene, la storia della laicità in Italia è ancora una storia in attesa di essere completamente scritta e metabolizzata (e questo anche a trent’anni dalla sentenza del 1989). Tra fughe in avanti e improvvisi rallentamenti, non siamo ancora riusciti a farne “il requisito pre-politico della convivenza civile in una società disomogenea” (Sciuto, p. 22). Piuttosto, siamo ancora nella condizione in cui – come direbbe Zagrebelsky – potere politico e potere religioso preferiscono “scambiarsi la veste” anziché mettere in pratica l’art. 7, comma 1 Cost. (il principio-valore della “divisione degli ordini”, quello di Cesare da una parte e quello di Dio dall’altro). Viviamo ancora (direbbe il Bellini) in piena “confusione dei poteri”.
Dall’altro lato abbiamo invece i diritti. Quali diritti? Qui la proposta dell’Autrice lavora su un doppio registro ermeneutico calato (con grande consapevolezza filosofica) all’interno della società attuale. Da un lato, ci sono i diritti delle persone, che prevalgono su quelli delle organizzazioni, “vengono prima”. Qui la nostra Costituzione non lascia dubbi: i diritti fondamentali devono essere declinati “partendo” dalla persona umana e inquadrando le organizzazioni (le “formazioni sociali” di cui all’art. 2 Cost.) in funzione servente rispetto agli individui. L’Autrice sottolinea l’importanza della centralità del principio personalista nelle dinamiche della sfera pubblica per “smontare” quello che lei chiama “l’inganno del multiculturalismo”: una teoria (quella c.d. “multiculturalista”) che, per come ha trovato progressiva affermazione in Italia (e non solo), ha finito col dare ampio spazio alla c.d. “teoria dei diritti riflessi” di matrice fascista, dove le libertà e i diritti della persona venivano riconosciuti (secondo una gerarchia statalista e confessionista) solo in ragione del grado di fedeltà al Regime. Una teoria (quella dei diritti riflessi) che ha resistito anche all’avvento della Repubblica, essendo il principio confessionista rimasto in vigore formalmente fino al 1984 (data della revisione concordataria) ed è sopravvissuto anche oltre questa data, in modo “metamorfico” grazie ad una produzione normativa di matrice sia pattizia che unilaterale statale supportata da una politica più “sensibile” alle “spinte gentili” (Sunstein) del potere ecclesiastico che al “progetto costituzionale di libertà religiosa” (Tozzi).
Dall’altro lato ci sono invece i diritti e gli interessi delle organizzazioni (specie quelle di matrice confessionale) che si dispiegano nella governance del potere pubblico secondo un modus operandi disciplinato giuridicamente dal circuito delle fonti c.d. a “produzione atipica” (il Concordato, art. 7, comma 2 e le intese, art. 8, comma 3 Cost.). Al di là di questo perimetro c’è solo la legge fascista sui “Culti ammessi” del 1929.
Il problema politico e giuridico di questa particolare tipologia di fonti (c.d. “pattizie”) è che non sono state utilizzate (come auspicava il Costituente) per garantire il “peculiare” di ogni singola confessione religiosa, da “mettere in sicurezza” in quanto fattore esclusivo di ogni specifica esperienza di fede, quanto piuttosto a tracciare nel tempo un solco divisorio (e discriminatorio) tra organizzazioni religiose favorite (quelle munite di accordi) e organizzazioni religiose, appunto, discriminate (quelle senza accordi, soggette alla disciplina fascista prima citata).

Di più, dopo l’entrata in vigore della legge n. 400 del 23 agosto 1988 (“Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”) la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha rafforzato la propria discrezionalità in materia di politica del fattore religioso, anche perché manca nel nostro ordinamento (come ha di recente rilevato la Corte Cost. nella sentenza n. 52 del 2016) una fonte di rango ordinario in grado di bilanciare i delicati apprezzamenti di opportunità politica che l’art. 95 della Costituzione italiana attribuisce alla responsabilità dell’esecutivo (per esempio nella fase di individuazione del soggetto religioso con cui aprire la trattativa in vista dell’intesa) con i diritti di tutte le formazioni sociali a sfondo religioso che gravitano nello spazio pubblico (non soltanto, dunque, le confessioni religiose) tutti egualmente posti “sotto l’ombrello della Costituzione”.
Della urgenza di una legge generale in materia di libertà religiosa ho scritto altrove. Qui mi limito a ribadire che l’argomento è non più procrastinabile, specie sotto il profilo dell’adeguamento delle fonti giuridiche alla complessità della società multiculturale che richiede un ripensamento della politica e del diritto del fattore religioso. Oramai, in buna parte della più recente manualistica gius-pubblicistica si rimarca, come fanno per esempio Bin e Pitruzzella (nell’edizione del 2018 del loro “Diritto pubblico”) che: “L’assenza di una legge generale, che fissi i presupposti e i limiti dell’azione del Governo, crea situazioni di privilegio e precarietà nell’esercizio del diritto all’intesa” (p. 79).
Questa asimmetria (politica e giuridica) tra principi costituzionali in materia di libertà religiosa (integrati con quelli di derivazione europea: artt. 9 della CEDU e 10 della Carta europea dei diritti fondamentali), fonti pattizie e norme di diritto comune ha prodotto quel sistema di privilegi a cui l’Autrice fa riferimento nel capitolo secondo, dove scrive che: “il punto dunque non è escludere le religioni dalla spazio pubblico, ma non concedere loro una posizione privilegiata, un valore aggiunto (…). Lo Stato in quanto tale non può privilegiare la religione – né una in particolare, né alcune, né tutte le religioni in quanto tali – rispetto agli altri sistemi di valori o credenze” (p. 48).
Del resto, una delle lamentele (delle riserve) che la Chiesa cattolica (come soggetto confessionale storicamente più importante) ha sempre espresso di fronte alla possibilità di adottare una legge generale sulla libertà religiosa in Italia è stata quella (da un lato) della “premessa” della laicità come principio orientativo delle disposizioni contenute nelle varie proposte di legge presentate dagli anni ’90 ad oggi e poi, dall’altro lato, l’equiparazione tra confessioni e altre soggettività religiose organizzate, secondo quell’approccio “orizzontale” di cui all’art. 17 del Trattato di Lisbona, dove le “Chiese, le comunità religiose, le organizzazioni filosofiche e non confessionali” sono poste tutte sullo stesso piano e usufruiscono dello stesso sistema “aperto” di regole finalizzato a garantire “un dialogo aperto, trasparente e regolare” tra istituzioni europee e società civile organizzata.

Per cui, non essere riusciti (fino ad ora) a dotare l’ordinamento di uno strumento giuridico capace di mettere in sintonia (in equilibrio sistemico) norme europee e norme interne in materia di libertà religiosa (secondo una lettura “aperta” e multilivello del progetto costituzionale di politica del fattore religioso: che ha nel ticket 2-19 Cost. il suo “nucleo duro”) complica il quadro alla luce di ciò che l’Autrice affronta a partire dal Capitolo terzo, dedicato all’Islam come “nuova religione europea”.
Qui l’Autrice svolge una disamina molto approfondita su alcune questioni “pratiche” determinate dalla presenza dell’Islam in Europa (abbigliamento, diritti sociali, corti sciaraitiche, etc.). Quanto serve – se agitato in funzione “identitaria” (Sciuto dedica un capitolo all’ “aporia dell’identità”) – a legittimare la costruzione di “sovranità parallele”, finanche alternative (antagoniste) a quella pubblica: da qui l’emersione di fondamentalismi, fanatismi e intolleranza.“[U]na delle conseguenze (…) più inaccettabili della logica comunitarista e multiculturalista [le due facce della stessa medaglia nell’impostazione del libro] è quella (…) dell’introduzione di sistemi giuridici paralleli a seconda della comunità etnico-religiosa di appartenenza. Per farlo non sono necessarie grandi ed eclatanti riforme, bastano piccole concessioni alle richieste di alcuni gruppi spesso minoritari ma molto militanti e il gioco è fatto” (p. 130).
E lo fa questo con lo scopo (ancora una volta) di portare in superficie il problema (irrisolto) del rapporto tra libertà religiosa della persona e ruolo pubblico (in questo caso) delle comunità islamiche, che fungono un po’ da “prisma” per misurare il tasso di pluralismo della società italiana ed europea. Un Islam, quello europeo, che (si evince dal libro), di fronte all’assenza di politiche pubbliche indirizzate all’integrazione (politica e sociale) degli individui (uomini e donne) e delle organizzazioni (a prescindere della consistenza numerica) predilige, per convenienza (specie chi comanda all’interno dei gruppi) l’approccio comunitarista (identitario e isolazionista); con tutto quello che ne scaturisce in termini di “posizionamento” politico dei gruppi (rispetto ai singoli individui e alle loro libertà) nello spazio della legalità costituzionale.
Questo ragionamento serve all’Autrice per “aggredire” nell’ultima parte del libro il modello multiculturalista (Sciuto ne parla in termini di “parola ingannevole”, che stravolge l’ordine delle priorità all’interno della società laica e pluralista, che include ovviamente anche l’opzione a-religiosa e ateista) “che guarda l’altro come un monolite uniforme e pretende di individuare l’autentica cultura e gli autentici rappresentanti di questa cultura” (p. 117).
C’è anche un ulteriore passaggio, molto interessante del libro dove l’Autrice allarga il suo ragionamento e senza tentennamenti scrive che: “l’accusa marxisteggiante che i diritti individuali sarebbero diritti liberali borghesi astratti non sta in piedi, perchè prendere sul serio il principio dell’autonomia dell’individuo ha conseguenze redistributive enormi, oltre ad avere il vantaggio di fondare la pretesa di giustizia sociale su un principio morale molto forte, quello dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani (da assumere come principio normativo, come ideale regolativo a cui tendere, non come punto di partenza naturale)”(p. 122).

Il libro si chiude con una critica (e con una speranza nello stesso tempo). La prima è rivolta a quello che l’Autrice definisce la “posizione accomodazionista” (tirando in ballo Martha Nussbaum e Roy). Si tratta in realtà della “vexata quaestio” su “quanta obiezione di coscienza” uno stato democratico e pluralista può tollerare. Leopoldo Elia parlava di “leggi facoltizzanti” per supportare un ragionamento finalizzato a consentire nelle leggi dello Stato l’allestimento di “clausole di salvaguardia” a favore del dissenso (o contro la volontà della maggioranza). “Accomodare”, come scrive la Sciuto (pp. 137-139) – oppure “assecondare” – “tutte le coscienze individuali” (secondo un approccio “radicale” al tema della libertà di coscienza nella società attuale) rischia di avvantaggiare proprio l’opzione comunitarista la quale potrebbe farsi carico del compito di “portare a sintesi” le domande dei dissidenti (magari senza alcuna consultazione interna) “assorbendo” la richiesta di socializzazione del soggetto nella sfera pubblica (il suo diritto soggettivo di libera manifestazione pubblica del dissenso) in cambio di una sua attestazione-sottomissione di fedeltà al gruppo (riemerge la “teoria dei diritti riflessi” prima citata).
Quanto alla speranza (e allo sforzo per renderla concreta) l’Autrice invita il lettore a liberarsi del “complesso del colonizzatore” (p. 147) – “Chi siamo noi per dire a loro” (p. 148) – e concentrarsi sui diritti, che “se non sono universali (così si chiude il libro) si chiamano privilegi” (p. 153).

Gianfranco Macrì