L’educazione alla complessità per una cittadinanza inclusiva (Prima parte)

Piero Dominici

  1. Il cambio di paradigma e l’urgenza di educare alla complessità ed alla responsabilità

La tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio, rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica, condizionandola profondamente e  determinando dinamiche e processi di retroazione (si pensi ai progressi tecnologici legati a intelligenza artificiale, robotica, informatica, nanotecnologie, genomica etc.). In altre parole, nel quadro complessivo di un necessario ripensamento/ridefinizione/superamento della dicotomia natura/cultura, non possiamo non prendere atto di come i ben noti meccanismi darwiniani di selezione e mutazione si contaminino sempre di più con quelli sociali e culturali che caratterizzano la statica e la dinamica dei sistemi sociali. Sempre più difficile, oltre che fuorviante, provare a tenere separati i due percorsi evolutivi e, allo stesso tempo, sempre più urgente si fa la domanda di un approccio multidisciplinare e interdisciplinare alla complessità per l’analisi e lo studio di dinamiche sempre più (iper)complesse, all’interno delle quali i piani di discorso e le variabili intervenienti si condizionano reciprocamente, mettendo a dura prova i tradizionali modelli teorico-interpretativi lineari. D’altra parte, l’ ipercomplessità non è – e non è mai stata – un’opzione, è un “dato di fatto”: purtroppo, c’è ancora poca consapevolezza di trovarsi di fronte ad una ipercomplessità che si è a tal punto estesa da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della complessità e di analisi che peraltro, quasi inevitabilmente, ne restituirebbero una visione quanto meno parziale; da rendere quasi impensabile e, addirittura, utopistico quello, ben più ambizioso, di definire un modello teorico-interpretativo (dimensione fondamentale ma troppo spesso sottovalutata, considerata perfino “inutile”…) o un sistema di pensiero in grado di spiegare il mutamento in atto; in grado di riconoscere e comprendere l’ambivalenza e l’interazione di tutti i livelli problematici coinvolti. Non è un caso, infatti, che si ricorra a “vecchi” modelli e schemi interpretativi, magari riadattati con qualche neologismo ad effetto per presentarli come originali e innovativi. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che, evidentemente, riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti” e di conoscenza scientifica funzionali proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, oltre che dell’imprevedibilità che la connota (-> epistemologia dell’errore e dell’incertezza). Dimensioni problematiche complesse che, anche nel quadro di una progressiva ridefinizione dello spazio della sfera pubblica (globale) e dei confini (saltati) con la sfera privata, condizionano interpretazioni, discorso pubblico e narrazioni egemoni.

Il vero problema è che – da sempre – continuiamo a non essere educati e formati a riconoscere questa ipercomplessità (a vedere gli oggetti come sistemi e non viceversa*) e, in ogni caso, non con la nostra testa. Un’inadeguatezza resa ancor più evidente nella società dell’interdipendenza e dell’interconnessione globale: un “nuovo ecosistema” (1996) in cui tutto è (almeno, in apparenza) collegato e connesso, all’interno di processi e dinamiche non lineari, con tante variabili e concause da considerare. Una ipercomplessità che – bene chiarirlo ancora una volta – è cognitiva, sociale, soggettiva, etica, e che, investendo ogni ambito della vita e della prassi, ci richiede, conseguentemente, di ripensare le categorie, l’educazione e le “forme” della cittadinanza che, non da oggi, non è più soltanto una questione giuridica, anzi lo è in minima parte (ibidem).

Dentro le vecchie “torri d’avorio”, reclusi negli stretti ed isolati ambiti disciplinari – per logiche che non riguardano neanche la falsa e fuorviante contrapposizione tra (iper)specializzazione degli stessi e loro complessità e interdisciplinarità (Dominici 1998 e sgg.) – i saperi devono fare i conti con la complessità e l’ambivalenza della vita, oltre che con processi e dinamiche (e razionalizzazioni) che continuano ad evolversi in maniera sempre più rapida e non lineare.

I “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica sono di fatto completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa).

Il processo evolutivo degli ecosistemi sociali sta progredendo verso una ridefinizione degli spazi relazionali e delle asimmetrie, che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (2003). Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi che coinvolga direttamente sia la Scuola che l’Università, purtroppo ancora pensate e organizzate come “entità” separate le cui politiche (?) andrebbero progettate in chiave sistemica; una riformulazione del pensiero e dei saperi in prospettiva aperta e multidisciplinare, che sappia (evidentemente) tener conto e valorizzare la specializzazione di conoscenze e competenze, superando quella visione distorta e fuorviante che la vede incompatibile con la complessità e l’approccio che essa sviluppa. Quanto detto dovrebbe, poi, concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali – nel lungo periodo – alla costruzione sociale del cambiamento e ad un’innovazione inclusiva che, ricordiamolo, se imposti esclusivamente come processi dall’alto, si riveleranno sempre un cambiamento esclusivo, per pochi e di breve periodo. Occorre prendere definitivamente coscienza che questo è il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici e sociali. E il livello strategico è, ancora una volta, quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la Scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione che  peraltro, in questi ultimi decenni, si son viste divorare da media, reti e gruppo dei pari lo spazio educativo e della socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile educare e formare teste ben fatte (Montaigne) e non teste ben piene; è anche il livello strategico dove (almeno) provare a coltivare e praticarel’empatia, il pluralismo e il riconoscimento del valore della diversità per costruire società aperte e realmente inclusive, fondate su cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione; infine, è il livello cruciale dove determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità. Percorsi che, inevitabilmente, si incrociano, fino a sovrapporsi, e che riguardano allo stesso tempo teoria e ricerca scientifica, scuola e università, cittadinanza e democrazia, eguaglianza delle condizioni di partenza e inclusione. Educazione e cittadinanza…Educazione è cittadinanza, educazione è possibilità di partecipazione, educazione è inclusione.

  • La nostra inadeguatezza di fronte alle sfide ed ai dilemmi della ipercomplessità

La complessità sociale (e organizzativa), pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza, di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate, tradotte in scelte e decisioni – non possiamo non richiamare anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Una complessità, così come l’abbiamo intesa, ulteriormente accresciuta e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare (nella cd. Società Interconnessa -> + informazioni + dati = + razionalità nelle scelte e nelle decisioni), ancor più imprevedibile – nonostante la dimensione del tecnologicamente controllato sia aumentata in maniera esponenziale –  proprio in virtù dell’enorme (infinita) mole di dati e informazioni che, non soltanto non parlano mai da soli, ma determinano una condizione permanente e costante di razionalità limitata a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello sociale.

Il “dato di fatto” è che non siamo pronti ad affrontare le sfide e i dilemmi (Popper) della (iper)complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre più affinati), quanto di modelli teorico-interpretativi che devono (dovrebbero) guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio multidisciplinare a questa stessa complessità che implica una ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti “confini” delle discipline; discipline sempre più isolate e incapaci di comunicare tra di loro – con profonde implicazione anche per l’esterno delle torri d’avorio.

Questo è “il” problema, è “la” questione, non la specializzazione dei saperi, processo d’altra parte inevitabile con l’affinamento delle metodologie di ricerca e degli strumenti di rilevazione; specializzazione spesso maldestramente contrapposta alla complessità e al relativo approccio, ma anche ai concetti di multidisciplinarità e interdisciplinarità. Il “vero” ostacolo, oltre alle culture organizzative ed alle logiche dominanti, sono proprio le separazioni/steccati disciplinari – si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà (a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da una cultura della comunicazione, da una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, da politiche sociali (lungo periodo) in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre un’innovazione mancata. La società della conoscenza e il nuovo ecosistema globale – non solo per queste ragioni, ho preferito parlare di “Società Interconnessa” – sono destinati a diventare sempre più esclusivi e chiusi, anche in quei “luoghi” in cui non è ancora possibile erigere muri e barriere per gestire (?) la diversità, le disuguaglianze e i conflitti. Sono i germi di quella che abbiamo definito la “società asimmetrica” (cit.): una società apparentemente aperta e inclusiva che, in realtà, garantisce opportunità di inclusione e mobilità solo in linea teorica e a livello di quadro giuridico di riferimento. Quest’ultimo, necessario ma non sufficiente a costruire e, appunto, garantire i pre-requisiti di una cittadinanza piena, partecipata e “non – eterodiretta”.

Come affermato più volte in passato: «Gettati nell’ipercomplessità», siamo di fronte ad un complesso processo di trasformazione antropologica, al cambiamento di paradigmi, modelli, codici, oltre che alla inevitabile sintesi di nuovi valori e criteri di giudizio: le straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, non soltanto spalancano orizzonti e scenari tuttora inimmaginabili, ma rendono ancor più evidente l’urgenza di ripensare, in maniera radicale, istruzione, educazione e formazione, sottolineando la sostanziale inadeguatezza di Scuola e Università di fronte a tale ipercomplessità, di fronte all’indeterminatezza e all’ambivalenza della metamorfosi in atto;  di fronte all’estensione su scala globale di tutti i processi politici, sociali e culturali. La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette ancor più in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica. Nel prendere atto di tale inadeguatezza, e della irreversibilità di tali processi e dinamiche, rileviamo come esista il rischio concreto di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla dimensione tecnologica e, più in generale, applicativa, sottovalutando ancora una volta quella riguardante le Persone, il sistema di relazioni, il contesto educativo e culturale, i mondi vitali (!), le nuove asimmetrie. In tal senso, educazione e formazione critica alla complessità ed alla responsabilità si configurano come gli “strumenti” complessi di costruzione sociale della Persona (prima) e del Cittadino (poi); strumenti in grado di definire le regole d’ingaggio della “nuove” forme di cittadinanza (globale) e di inclusione, correlate all’avvento della cd. società della conoscenza. […]  Occorre essere consapevoli che il futuro è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Andando oltre quelle che, in tempi non sospetti, avevamo definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (cfr. “Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” e Descrittori di Dublino, riferimenti importanti ma poco conosciuti). Occorre correggere radicalmente la strutturale inadeguatezza e le clamorose miopie che caratterizzano, da sempre, le istituzioni e i “luoghi” responsabili della definizione e costruzione delle condizioni di emancipazione sociale, non soltanto promuovendo un’educazione critica alla complessità e alla responsabilità (fin dai primi anni di scuola), ma premiando e incoraggiando, nei fatti e non soltanto nei documenti istituzionali, l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità anche, e soprattutto, a livello della ricerca scientifica. Ciò avrebbe ricadute significative sui percorsi didattico-formativi e la ben nota “formazione dei formatori”» (Dominici, 1998 e sgg,).

Analisi del testo:

  1. Gli studenti elaborino una recensione del testo di Dominici
  • Gli studenti analizzino il rapporto tra tecnologia, complessità e cittadinanza e ne spieghino i nessi a partire dal testo di Dominici
  • Gli studenti prospettino idee e progetti educativi da realizzare nelle scuole per fronteggiare i “rischi” dell’esser “gettati nell’ipercomplessità”