Oltre la libertà… di “essere sudditi” (parte II)

Piero Dominici

Alcune premesse ci sembrano essenziali e funzionali allo sviluppo di qualsiasi argomentazione/progetto in materia di cittadinanza e inclusione:

  1. La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono divenute le risorse principali. Alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni (che costituiscono fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale) non corrisponde tuttavia un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione).
  2. La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovoecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia(à educazione e istruzione), al di là dei tanti interessi in gioco.
  3. Il concetto di “cittadinanza” è, come noto, un concetto complesso che vanta una letteratura scientifica estremamente articolata di area non soltanto giuridica. Un concetto o, per meglio dire, una categoria del pensiero politico e sociale che richiede urgentemente una ridefinizione e un ripensamento e non – come spesso traspare anche dal dibattito pubblico – una semplice estensione/adeguamento funzionale alla prassi tecnologica. Di conseguenza, gli stessi diritti di cittadinanza vanno ripensati se non altro perché siamo ormai tutti membri di una società che, nonostante i drammatici conflitti e le evidenti asimmetrie/disuguaglianze, è globale e cosmopolita. Tematiche e questioni che, proprio nell’era della globalizzazione e del nuovo ecosistema, dell’economia politica dell’insicurezza e dei grandi flussi migratori, assumono una centralità ancor più strategica, pur rischiando di essere definiti e restituiti in maniera banale e/o quanto meno semplicistica. Esiste il rischio di una cittadinanza senza cittadini. Il rischio è, in altre parole, quello di promuovere una partecipazione a soggetti/attori sociali che, di fatto, non hanno gli “strumenti” (evidentemente, non mi riferisco a quelli tecnici e tecnologici) per partecipare concretamente.
  4. Considerando fondata l’equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie all’interno delle organizzazioni (nel lungo periodo). In questa prospettiva, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo apre interessanti prospettive a processi di democratizzazione del sapere ed è destinato ad accrescere le possibilità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza; ma, affinché ciò avvenga, è necessario che si facciano seriamente i conti non tanto con il digital divide (che, con ogni probabilità, sarà risolto nel tempo) – questione evidentemente importante – quanto con il cultural divide: si tratta di un discorso di vitale importanza – e non solo per la governance di Internet e del nuovo ecosistema. Sempre più frequentemente i giovani, che transitano dalla scuola all’università, oltre a non essere in tanti casi neanche curiosi, hanno molto spesso difficoltà legate alla mancanza della logica (fondamentale) e di un metodo di analisi, di ragionamento, perfino di studio che li metta in condizione di fare connessioni tra i piani di analisi e discorso, di individuare possibili spiegazioni ai problemi, di essere critici nell’affrontare/interpretare una realtà assolutamente complessa (logica e filosofia andrebbero praticate fino dai primissimi anni di scuola). Mentre, al contrario, si rivelano estremamente abili nell’utilizzo delle nuove tecnologie della connessione, nel navigare e nell’utilizzo (in certi utilizzi) dei social network.
  5. Occorre, inoltre, considerare anche che «La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette anche in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica su ciò che accade e, più in generale, su una (iper)complessità che mette a nudo la radicale inadeguatezza dei paradigmi, dei modelli interpretativi, delle culture tradizionali e, ancor di più, dei moderni strumenti di controllo e gestione». (Dominici, 2003 e sgg.)

Alla luce delle considerazioni effettuate, appare ancor più evidente come la costruzione di una governance democratica, con i relativi processi di partecipazione e coinvolgimento (engagement) dei cittadini, sia processo estremamente complesso e caratterizzato da ambivalenza e numerose criticità. Un processo che chiama in causa diverse variabili, approcci, metodi di analisi e rilevazione ma che richiede anche, e soprattutto, immaginazione, capacità di “fare rete” (e “fare sistema”) e, allo stesso tempo, visione sistemica di lungo periodo. Un processo che può trovare una sua effettiva traduzione soltanto se supportato da una cultura della complessità e della condivisone che fatica ancora molto ad affermarsi dentro e fuori le organizzazioni (pubbliche e private). E non saranno certamente le tecnologie della connessione e/o nuove leggi/normative a risolvere tutte le criticità; al contrario, le continue accelerazioni, nel determinare nuove opportunità, innescano e radicalizzano problemi di gestione e controllo.

In uno scenario così complesso,si rivela tutt’altro che semplice definire e costruire le condizioni di una partecipazione pubblica che non è, e non può essere, semplice acquisizione di consenso – magari ottenuto anche attraverso sofisticate strategie di marketing – su modelli, azioni, pratiche, servizi che sono stati definiti, progettati, calati/imposti dall’alto da parte di saperi esperti ed élite. Si pensi, in tal senso, anche alla questione di una tecnocrazia sempre più invasiva che occupa, ogni giorno di più, quegli spazi sociali e politici (della πολις) lasciati vuoti da una Politica sempre più marginale, soprattutto quando deve confrontarsi con i poteri economici.

La partecipazione è “fatta” di processi di negoziazione, continua e costante, che devono articolarsi dal momento dell’ideazione fino a quello della decisione; e, a questo livello, non è più possibile continuare a non fare i conti con i “cittadini reali” (passatemi il termine) che, al di là della questione “competenze digitali” (giustamente, molto dibattuta), si discostano in maniera significativa da quella figura quasi idealtipica di “cittadino ideale” (critico, informato, competente, in grado di interagire alla pari con la PA e, più in generale, con il potere), spesso immaginata e presa come riferimento da parte degli stessi decisori. Allo stesso tempo, non è più possibile continuare a non fare i conti con variabili e criticità preoccupanti come l’analfabetismo funzionale, la povertà educativa e, più in generale, le condizioni critiche in cui versano scuola e università che, da tempo, non stanno più svolgendo le loro funzioni di ascensori sociali. La cosiddetta “società civile” è destinata a rimanere anello debole all’interno delle dialettiche complesse e ambigue della prassi democratica.

Parlare di inclusione, cittadinanza, democrazia digitale senza tentare almeno di contrastare fenomeni e processi che le rendono difficilmente realizzabili (ostacolando l’innovazione aperta e inclusiva), equivale al legittimare i meccanismi di un contesto storico-sociale sempre più segnato da disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale che definiscono in maniera netta la stratificazione sociale, anche a livello globale. Finché non sarà garantita l’eguaglianza delle condizioni di partenza, anche parlare di “cittadinanza” e “inclusione” rischia di diventare un esercizio puramente retorico. E – ci tengo a ribadirlo – non ci potrà essere alcuna cittadinanza digitale senza garantire i diritti di cittadinanza, oltre evidentemente a quelli della persona. In tempi non sospetti, abbiamo proposto la definizione di “società asimmetrica” (2003), proprio in una fase estremamente delicata di mutamento, in cui le narrazioni egemoni sulla Rete e sulla rivoluzione digitale presentavano, quasi in termini di nesso di causalità, la relazione tra digitale e partecipazione, tra “digitale” e “fiducia” – tuttora confusa, non soltanto in politica, sia con la popolarità on line che con una certa idea/visione dell’immagine e della reputazione – tra digitale e inclusione; infine, tra digitale e cittadinanza.

I concetti stessi di partecipazione e cittadinanza chiamano in causa una questione di carattere più generale, ma di fondamentale importanza: l’urgenza di ripensare il “contratto sociale” e, conseguentemente, di ridefinire le regole di ingaggio della cittadinanza e dell’inclusione. E, su questo terreno, non possiamo non prendere atto di un ritardo culturale importante, ribadendo con forza una nostra vecchia formula: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza, educati alla libertà ed alla responsabilità. Educati ad una cittadinanza (stesso discorso vale per la costruzione sociale di una cultura della legalità e/o di una cultura della prevenzione: si costruiscono a scuola!) che – bene esser chiari – è fatta di diritti, che devono essere conosciuti ma anche di doveri. In ogni caso, occorre agire e intervenire, con una certa urgenza, là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa “società asimmetrica” e diseguale (scuola e università); là dove si producono, elaborano, distribuiscono informazioni e conoscenza, le “vere” risorse strategiche del nuovo ecosistema. Con la centralità, ancora una volta, posta sui processi educativi e formativi, sul capitale umano e le Persone che, a loro volta, devono contribuire attivamente a co-costruire uno spazio sociale e comunicativo in grado di generare e distribuire valore e, perché no, “fiducia”; vero e proprio dispositivo fondamentale per l’esistenza stessa dei sistemi sociali, ancor prima che democratici.

In questa prospettiva, il presupposto forte della presente analisi è che soltanto l’affermazione e la diffusione capillare della cultura della comunicazione (come condivisione della conoscenza), in generale, nei sistemi sociali ed, in particolare, all’interno ed all’esterno delle pubbliche amministrazioni e del sistema delle imprese (concetto di organizzazione come “sistema aperto”) possa effettivamente creare le condizioni per la realizzazione di quei fondamentali diritti/doveri di cittadinanza senza i quali il cittadino-utente-consumatore non può evidentemente trovare nessun tipo di legittimazione/riconoscimento alle sue istanze. Ritrovandosi, di fatto, in una condizione di sudditanza, all’interno di una sfera pubblica del tutto inconsistente. La sfida più importante si rivela, ancora una volta, quella di abilitare le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile consapevole e competente, i processi e le dinamiche che li riguardano da vicino e che contraddistinguono le nuove sfere pubbliche. In altre parole, è di vitale importanza creare le condizioni “strutturali” affinché sappiano abitare tali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato – in grado di definire le “identità”, le “soggettività” e lo spazio comunicativo pubblico in cui si realizzano ed evolvono – ma anche, e soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e saranno sempre quelle dominanti. Per questa ipercomplessità non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale (de La Boétie); cittadini in possesso non soltanto di competenze tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati anche al “sapere condiviso”, non tanto perché questi presupposti – a nostro avviso strategici, vitali – rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché – ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della condivisione e la società della conoscenza a richiedere elevati livelli di istruzione e formazione, oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e professionale (dati e ricerche su analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro tutt’altro che rassicurante).

In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire dal basso; dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate da una Politica che ha tolto loro autonomia. Servono politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese, basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica industriale nel nostro Paese.

L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono essere gli assi portanti, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di mutamento. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica, con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza: una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì imposte dall’alto senza calarsi,completamente e concretamente, nelle prospettive dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati ad esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole e ri-producendole costantemente. Saremo sempre più costretti a scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000).Tra partecipazione e libertà di essere sudditi. Nell’utopia di poter andare oltre la libertà di essere sudditi!