V. Chiti, Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale, Giunti 2014
Vannino Chiti
Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale
Giunti Editore, Firenze 2014, pp. 192, € 14,00.
Vannino Chiti dedica il terzo volume della sua produzione editoriale al dialogo tra le istanze del mondo laico e i valori di quello confessionale, dopo la proposta programmatica veicolata in Laici & Cattolici (Giunti, 2008) e il contributo, già approfonditamente arricchito di spunti internazionalistici e ricostruttivi, emerso in Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo (Giunti, 2011). Ben oltre la ripartizione redazionale del volume, in cinque saggi, intimamente coesi, che rende il testo più accessibile e coinvolgente anche nei passaggi logici più complessi e articolati, sono essenzialmente tre le direttrici attraverso le quali si sviluppa il ragionamento di Chiti: il rinnovamento ecclesiastico che la Chiesa è spinta ad abbracciare dallo stesso Magistero di Papa Francesco, la pluralità di opzioni dialogiche che vanno emergendo nella cultura e nella politica islamica, a dispetto di una rappresentazione massmediologica ancora troppo ferma al mero resoconto cronachistico degli episodi più gravi e luttuosi, il ruolo dell’Europa nel contesto globale e le difficoltà in cui è costretto a muoversi l’ancora incompiuto processo costituente europeo. Quanto al primo aspetto, Vannino Chiti prende le mosse dall’oggettiva epocalità della rinuncia di Benedetto XVI: più che volerne fornire quella lettura persino di taglio escatologico, ad esempio accolta da Giorgio Agamben (Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari, 2013), Chiti evita la capziosa invocazione di continuità o, piuttosto, di cesura tra i due Pontefici e, facendo ciò, riesce a dar conto con lucidità dei punti più genuinamente innovativi che stanno emergendo nella prassi di Francesco. La costante attenzione al social divide che spacca in due anche quelle parti di mondo globale che erano abituate a minime forme di omogeneità reddituale, la scelta di procedere ad un prudente riformismo legislativo ecclesiastico, basato sull’adozione di pratiche consultive larghe (ma, negli esiti, sin qui, di segno progressivo), la rivendicazione dello spirito del Concilio Vaticano II e la necessità di riprenderne i profili attuativi laddove essi erano stati interrotti e mai finalizzati. Nel far ciò, si apprezza particolarmente che Chiti non voglia cedere a rappresentazioni “sentimentali” del post-concilio, preferendo piuttosto concentrarsi su quelle testimonianze, solo apparentemente marginali, che hanno garantito la sopravvivenza della novità conciliare nell’ordinamento e nella pastorale ecclesiale. In proposito, sono rare, rispetto alla pubblicistica recente, e, perciò, da rilevare le pagine del testo dedicate a Don Enrico Chiavacci e a Don Ferrero Battani (pp. 63-68). In special modo, la riflessione di Chiavacci, nata essenzialmente nel campo della teologia morale, si proponeva come una paziente elaborazione alternativa alla tradizione dottrinale, soprattutto in quell’insieme di questioni chiamate, censurabilmente, “eticamente sensibili”. La quarta di copertina del volume, stringata e di cristallina significatività, sembra un evidente tributo all’insegnamento di Chiavacci, del resto: credenti e non credenti hanno un riferimento comune: il primato della coscienza. Questo primato fonda la qualità dell’agire, sia per chi crede in Dio, sia per chi non ha e non cerca la fede. E non è un caso che di Chiavacci si ricordino, ancorché spesso de relato e, invece, ben più analiticamente nella ricostruzione di Chiti, le posizioni in tema di aborto (essenzialmente finalizzate a una legislazione rigorosa e di garanzia, volta ad assistere i diritti della donna e la tutela sociale della maternità, come pure si intestava la legge n. 194 del 1978) e di celibato ecclesiastico, dove il profilo dell’A. considerato non era, forse, quello dell’esplicita rottura, ma certo di un ripensamento che avrebbe potuto e dovuto essere condiviso e incoraggiato. In una Chiesa che voglia recuperare prospettive del genere, Papa Francesco è guida preziosa, anche quando le posizioni in concreto veicolate paiono sostenere un orizzonte teorico non del tutto inedito. Ad esempio, non ad una visione positivistica del dialogo interreligioso, punta Francesco, sebbene a uno spirito di concordia e di cooperazione che si sostanzi precipuamente nel riconoscimento degli interlocutori altri, della loro rilevanza esistenziale e spirituale per i rispettivi seguaci, nell’individuazione delle opzioni di reciproca collaborazione sui tanti scenari di guerra (innanzitutto, la Siria), dove il movente religioso è spesso il travisamento opportunistico di un conflitto eminentemente politico-economico. E bene fa Chiti (pp. 103-113) a ripercorrere le tappe più significative, anche sotto il profilo, ahinoi, militare delle cd. primavere arabe: agitazioni popolari che sin qui non sono riuscite a produrre una classe dirigente in grado di governare la trasformazione con quello spirito di liberazione (altri direbbero: costituente) che l’intero popolo medio-orientale da decenni esige, a prescindere da quale fazione sia, volta per volta, alla guida del tutto. Da osservatore della politica internazionale, oltre che da cultore della geopolitica, Chiti non può non osservare come in Egitto e in Tunisia (pp. 105-106) il ruolo svolto dai Fratelli Musulmani sia ancora lontano da potersi valutare serenamente. La presa del potere, se interpretata come supremazia (nemmeno “egemonia”, in senso gramsciano, nell’immaginario popolare o, per dirla con Chomsky, nei meccanismi di produzione del consenso sociale), è stata, sin qui, anche e prevalentemente l’esclusione delle forze, nient’affatto minoritarie, che all’interno dell’Islam ben conoscono quali siano le sfide in atto. Ad esempio, il rifiuto della tradizionale querelle tra l’interpretazione letterale e l’interpretazione sistematica ed evolutiva del Corano (una diatriba che sarà per la cultura mediterranea e medio-orientale ben più significativa di quanto lo fu quella tra sinistra e destra hegeliana per la genesi del costituzionalismo continentale) e l’apertura al tema dei diritti umani, non più tarati sulla pedissequa riproposizione delle categorie elaborate nelle Carte internazionali, successive alla conclusione della seconda guerra mondiale, ma nell’ottica di apprezzare specificamente le realtà territoriali più coinvolte nella sfida della modernizzazione di un’immensa area socio-geografica. E Chiti non cerca equilibrismi, anzi prende posizione, fornendo una lettura pacata eppure incisiva: chiama sul banco degli imputati la politica occidentale (in Libia, ad esempio, dove le macerie sono state fonte di appetiti interni agli stessi rapporti di forza nella governance europea tra Francia, Inghilterra e Germania) e invoca quello splendido, ricchissimo, multiforme, filone di studi che è chiamato, non senza qualche forzatura occidentalistica, “Islam della Liberazione” (pp. 131-137 e, in questo stesso contesto, con l’ambizione di una riflessione di massa dell’Islamismo sui diritti della donna, pp. 138 e ss.). Non si può prescindere, per Chiti, dall’insegnamento di Gharbi Kacem, di Hassan Hanafi, di Mohammed Taha e, per capire le dinamiche del subcontinente indiano, sospeso tra modernizzazione, sopravvivenza del sistema delle caste e radicalismi di marca tanto hinduista quanto islamista, di A’la Mawdudi. Ed è così nelle pagine conclusive del volume (pp. 180 e ss.) che si rinvengono le più evidenti proposte pratiche, dopo essersi volti al cielo e al modo tutto terrestre con cui l’interpretazione del cielo è strumento per governare la terra. Per Chiti, l’attuale empasse nella politica europea (non solo economica) è una ferita aperta, che può essere sanata solo e soltanto in modo netto, chiaro. Innanzitutto, deponendo le pretese degli Stati nazionali nella guida della governance: nessuno dei cinque maggiori Stati membri della UE avrà nei prossimi 30 anni la stessa collocazione nella gerarchia economica planetaria. O si esce dalla crisi con un progetto culturale e integralmente politico comune, e l’Unione diviene il terminale sicuro e affidabile per le istanze locali, anche quelle micro-regionali (altrimenti abbandonate alla propaganda bieca di separatismi xenofobi e improvvisati, solo raramente fondati sul piano sociale e spesso basso tema di -inutile- rivendicazione politica), o lo smembramento è destinato ad avvenire in ordine sparso: ordine sparso in cui l’Italia rischia di essere capofila del patibolo e non economia civile in grado di resistere, alla pari, con gli altri attuali membri non europei del G20. Europa Federale, allora! La delocalizzazione del meccanismo decisionale proposta da Chiti è ben diversa da quella del dumping sociale in economia, ove si ricercano le materie prime, anche umane, al minor costo più che al miglior prezzo, perché si pone il problema dell’individuazione delle linee di indirizzo in modo chiaro, durevole, non contingente. Terra e cielo, le economie in sofferenza e le religioni reciprocamente sospettose l’una dell’altra, possono e devono unirsi in un progetto federalista europeo: meno barriere all’immigrazione e diretto coinvolgimento istituzionale dei Paesi extracomunitari più interessati ai fenomeni di emigrazione, modalità di coinvolgimento popolare ampie e meditate (quelle procedure consultive che, col rigore tecnico del caso, suggeriva già David Held nel celebrato Modelli di Democrazia), adesione a un progetto di pacificazione che dal semplice perimetro continentale, dove pure è stato tendenzialmente attuato, sappia arrivare all’ordine globale. A patto che questa Europa federale, laica e plurale, sostenitrice delle libertà religiose, non sia un perenne altrove. Siamo, al contrario, in presenza di un doveroso e indefettibile oggi.
Domenico Bilotti
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