Recensione a J. Sanchez Tortosa, La libertad desnuda (ed. Confluencias, Madrid 2022)

di Carmine Luigi Ferraro

Qual è il percorso dell’idea di libertà nella storia umana? Nel testo che presentiamo, J. Sánchez Tortosa ci mostra come tale idea si sia sviluppata nella letteratura, nella filosofia, nell’estetica, spesso attraverso percorsi antagonisti, se non incompatibili. E tuttavia se c’è un argomento di fondo, comune ai diversi percorsi, questa è la teologia. La libertà nasce infatti come nozione teologica, legata all’Assoluto ed il tentativo di liberarla da questo abbraccio, ha finito- in realtà- con il rafforzare tale legame. Tortosa inizia a considerare il paradosso della libertà che, nel percorso della civilizzazione, inizia laddove c’è la schiavitù. Nelle società schiaviste, la libertà è garantita solo a pochi e l’idea di libertà la troviamo coltivata nella produzione mitologica, letteraria, storica, giuridica, teologica…. Nell’antica Grecia, la libertà è concepita come potere, legata al culto di Hera e Zeus nei riti di liberazione degli schiavi. Lo schiavo può rifugiarsi nel tempio ed ottenere la propria libertà: un rito sacro dunque, vissuto come epitome della condizione stessa dell’essere umano. Al di là dei miti, sono gli ambiti giuridico-economici quelli in cui si inizia a definire l’idea filosofica della libertà. Infatti in Grecia ed a Roma, la condizione del cittadino è contraddistinta dalla possibilità di avere tempo libero nel quale negoziare, discutere, immaginare…; l’uomo libero è, insomma, colui che è libero dal lavoro servile o manuale, al quale è invece legato il servo. Il cittadino ha inoltre il diritto di proprietà e le garanzie giuridiche…, ci sono cioè delle strutture codificate, con una certa oggettività operativa ed indipendente; per cui la libertà non è individuale o personale, bensì giuridica, politica, istituzionale, comunitaria. Tenendo conto di tutto ciò, se ne deduce che la libertà non è data per se, ma la si costruisce, si forgia, è Paideia, è scuola: ossia il tempo liberato da lavoro manuale e dedicato alla formazione, alla conoscenza che libera la condizione umana dalla paura di re e tiranni, dagli dei, dalla propria mortalità, che sono i sintomi dell’ignoranza. Da questo punto di vista, la libertà diventa obbedienza alla ragione, come considerato da diversi autori, da Platone a Cicerone, da Virgilio fino a Dante, Spinoza, sia pure con sfumature diverse. San Agostino è invece colui che inaugura il senso ontologico della libertà quando afferma che la volontà ed il libero arbitrio possono essere complici delle passioni. Questo perché il libero arbitrio rappresenta la possibilità della scelta, un dono caritativo di Dio per poter fare realmente il bene morale. Libertà piena è allora l’esercizio sensato del libero arbitrio, la giusta scelta, il cui massimo grado si trova nella sottomissione dei desideri alla ragione. Le cose buone, come quanto di libero c’è nell’uomo procede da Dio. Tortosa però sottolinea come questo volontarismo teologico faccia venire alla luce una serie di paradossi, dilemmi, aporie per ciò che riguarda la quotidianità della scelta, come struttura materiale nella quale si esercita il libero arbitrio. Ciò viene illustrato dal dilemma dell’asino di Buridano del teologo J. Buridan (1300-1358), discepolo di Ockam (ma si possono trovare antecedenti anche in Aristotele, Dante e più tardi in Spinoza), nel quale l’asino posto davanti a due sacchi di fieno indiscernibili, finisce con il morire di fame, di inazione, per non essere stato capace di scegliere. E’ questo un caso di estrema incapacità, il grado zero della libertà. Durante la Riforma, la concezione teologica dell’idea di libertà viene contestata e culmina nella polemica sul libero arbitrio fra Erasmo e Lutero, che può essere riassunta in questi termini: il primo continua ad affermarlo in convivenza con la volontà di Dio; Lutero lo nega perché incompatibile con l’infinità volontà di Dio. A questo dibattito, l’autore inserisce anche la riflessione di Spinoza, particolarmente analizzata, il quale arriva alla conclusione che la libertà è solo obbedienza alla ragione. Kant per salvare la libera volontà, ritiene che non sia possibile risalire all’infinito nella serie delle cause, richiedendo in tal modo un principio primo. La sua esistenza è allora collegata ad un presupposto: al metafisico, al teologico, ancora una volta. Dalla ragion pura, quindi, discende la libertà come postulato della ragion pratica. Nell’idealismo tedesco, la volontà è chiave dello spirituale, ottenendo una riunione della scissione ontologica fra soggetto ed oggetto (essere e dover essere, sensibilità e Ragione…). Secondo questo dominio ontologico, non c’è sapere o essere che non sia incarnazione della libertà illimitata di una soggettività totale. Lo Spirito Assoluto è il superamento di ogni contraddizione che tormenta gli uomini; e tuttavia –sottolinea Tortosa- l’identificazione fra spirito e libertà finisce con l’inaugurare il cammino verso una totalizzazione dell’essere, che diventerà una caratteristica del XX secolo. Sarà Sartre a riprendere l’alternativa limite fra essere e nulla, utilizzata dall’idealismo contro Spinoza, che si esplicita in questi termini: «il non-io determina l’io, per cui nel materialismo assoluto di Spinoza, ogni scappatoia del libero arbitrio si dissolve, poiché una piena oggettività produce ogni singola soggettività; oppure l’io determina il non-io, ed allora si erige l’affermazione di una libertà sovrana, fondante, di un soggetto assoluto che invade l’individuo e lo divora spiritualmente» (p. 139). Nella sua opera L’essere e il nulla, come ne L’esistenzialismo è un umanesimo, Sartre sostiene una tesi fondamentale: l’uomo è condannato alla libertà, e perfino rinunciare alla libertà costituisce un esercizio di libertà; una sorta di fanatismo della libertà. Sartre sostiene quindi che l’uomo è caratterizzato dalla capacità di decidere, di autodeterminarsi, è destinato alla libertà, ma anche il peso della responsabilità. Ma Sartre, al pari della libertà, è anche vittima degli orrori che hanno contraddistinto la storia del secolo XX: il nazismo a livello personale, e lo stalinismo di cui è vittima intellettuale, finendo con il subordinare l’esistenzialismo all’ortodossia marxista-leninista, concludendo così il ricco percorso della storia contraddittoria, paradossale della liberà descritto da J. Sánchez Tortosa, anche attraverso un percorso iconografico che la stessa ha avuto nella storia dell’arte. «I suoi tragici paradossi – afferma concludendo l’autore- la lasciano nuda e avvolta sotto gli stracci, le maschere e gli abiti che le manifestazioni iconiche segregano, risplendendo ancora delle sonnolente e banali soggettività dei tempi digitali. Catene rinnovate in versione algoritmica sottopongono i servi soddisfatti a fantasticherie spettrali punteggiate da riflessi narcisistici. Battendo sotto l’immagine, la dea della libertà tace, incapace di farsi sentire in mezzo al chiassoso deserto degli uomini» (p. 148).

Non ultimo fra i paradossi della libertà – aggiungiamo noi- vi è sicuramente quello fra libertà e sicurezza, che in Italia abbiamo vissuto particolarmente negli ultimi due anni, ed introdotto già nel corso del Seicento da J. Barclay nel suo romanzo Argenis (1621): «O rendi agli uomini la loro libertà o dai ad essi la sicurezza per la quale abbandoneranno la libertà». Due paradigmi antitetici e che verranno sempre usati, specie durante le epidemie, le catastrofi, dai Governi europei per governare secondo i propri interessi, facendo credere ai cittadini che si opera in nome della loro tranquillità e per il loro futuro.

Ciò che viene dalle stelle. Tentativi di recupero del desiderio.

di Zoe Cocco

 

Desiderio. Cosa significa? Che cos’è? Cosa vuol dire desiderare? Quello che desidero è il frutto di un’influenza esterna oppure no? È giusto desiderare? Cosa si può desiderare? Cosa non si può?

In classe con gli studenti capita spesso di affrontare queste domande.

Ancor più spesso si sente parlare di desiderio al bar, al centro commerciale, dall’estetista.

Anche in biblioteca, negli occhi dei “cercatori di libri”, si percepisce desiderio.

Infine noi stessi, nel nostro piccolo e sconfinato mondo personale, ci ritroviamo a fare i conti con il desiderio.

Un termine che rimanda ad un’alterità irraggiungibile (de-sidus, ciò che viene dalle stelle) che tuttavia funge da motore della nostra agentività, della nostra forza di agire nel mondo. Leggendo il libro di Valeria Bizzari si comprende quanto sia necessario “SOstare nei desideri”.

L’utilizzo del plurale non è casuale poiché il termine oltre a rappresentare l’Altro, ad essere espressione di una mancanza incolmabile, si presenta anche come pluralità poiché la costante assenza fa si che vi sia un continuo spostamento del desiderio  da un oggetto ad un altro, da un soggetto ad un altro.

Ma questo pluralismo si evidenzia ancora di più, si fa da bidimensionale a tridimensionale, giacché non solo il desiderio si sposta da un oggetto ad un altro, ma può assumere nature le più diverse: desiderio amoroso, desiderio di conoscenza, persino desiderio di aspetti che suscitano disgusto, desiderio come slancio creativo e resistenza all’omologazione. Tutte queste declinazioni di desiderio presentano a loro volta sfaccettature diverse per cui non è del tutto sbagliato immaginare un io immerso in un mare di desideri.

Quindi un libro sulla storia del pensiero filosofico sul desiderio? No. Tutt’altro. Una riflessione sull’oggi. Sull’importanza di accettare tutte queste alterità e di sostare dentro tutte queste alterità; di imparare ad ascoltare i nostri desideri per evitare di “cadere nei pericoli del desiderio”. Perché sì, si potrebbe incappare nel “desiderio di piacere”, quello che fagocita il Don Giovanni di Mozart o ancora nella probabilità, non remota al giorno d’oggi, di ritrovarsi a desiderare qualcosa che l’io non desidera affatto. In questo il pensiero capitalista prima e i media e i social a seguire l’hanno fatta da padrone, proponendo un menù molto invitante di “oggetti da desiderare”. Hanno fatto di più. Hanno trasformato i soggetti in oggetti: i corpi sono stati oggettivizzati e l’ocularcentrismo – che da Aristotele in poi ha caratterizzato la storia dell’Occidente – ha fatto il resto. Tutti, senza porci in uno stato di vulnerabilità (concetto non gradito perché ha sapore di fragilità), possiamo vivere “appieno” le nostre vite seguendo desideri preconfezionati che non ci “scompongano” e che ci creino l’illusione di essere liberi. Eppure, proprio perché non ci scompongono, potrebbero, al contrario, essere dannosi per la costruzione della nostra identità poiché come ci insegna il racconto di Amore e Psiche […] la vita è sostanzialmente vita desiderante e tutta la vita psichica, nel suo crescere […] è fondata sulla forza del desiderio [ quello che ci rende vulnerabili]. Insomma, la psiche umana ed il desiderio nascono insieme (G. Caselli, 2023). Non c’è io, senza desiderio.

C’è poi un punto che va chiarito riguardo ai pericoli del desiderio e al peso delle influenze esterne e mi si conceda una breve parentesi di natura antropologica. Non siamo monadi sparse nell’universo. Siamo persone che vivono sul piano diacronico e sincronico in un determinato tempo e in determinati luoghi e che naturalizzano, fin dalla nascita, atteggiamenti, modi di pensare, modi di agire, modi di desiderare. Non saremo mai scollegati dal mondo che ci circonda e dalle influenze che ci hanno “tirato su”. La domanda allora sorge spontanea: quindi qualsiasi desiderio sarà sempre influenzato, in una certa misura, dall’esterno? La risposta è sì. Ma in quale misura? Sarà possibile sperimentare un desiderio libero?

Una trattazione chiara, coerente, attuale che prendendo le mosse dalla Grecia antica vuole comunicare l’urgenza del recupero del desiderio come pratica etica che non ha nulla a che fare con teorie morali, con la religione e con la virtù. Un’etica coraggiosa che può dipanarsi anche dal peccato.

Una trattazione commovente.

Un libro utile agli insegnanti, utile agli studenti; utile ai frequentatori assidui di “non-luoghi”, ai clienti compulsivi di Amazon e ai fruitori di social. Il che, in buona sostanza, vorrebbe dire tutti noi.

 

Rivoluzione (una recensione)

di Ivana Rinaldi

 

Scorrendo il volume Rivoluzione curato da Domenico Bilotti e edito da Castelvecchi ci si aspetterebbe una trattazione delle rivoluzioni “storiche” dell’età moderna, da quella francese a quella sovietica. A sorpresa, invece, gli scritti, che vedono, oltre l’ampio saggio di Bilotti, i contributi di Giuseppe Carbone, Francesco Cecere, Ola Cuzba, Guido Liguori, Laura Paulizzi, Maria Reale, Rosaria Zuccarello, sono un viaggio stimolante sulle molte e possibili declinazioni che il termine assume, dalla scienza all’arte, dalla poesia alla letteratura. Pur conservando il taglio del giurista con uno sguardo rivolto alla storia e ai mutamenti sociali politici culturali che hanno attraversato i secoli e la contemporaneità – non a caso, Antonio Coratti e Ivana Zuccarello nell’introduzione citano la raccolta di poesie di Bilotti Le lenti del giurista – l’autore ci offre uno sguardo originale e per nulla convenzionale su eventi, periodi, figure, capaci di interpretare “l’essere rivoluzionario” nelle sue molteplici pieghe e significati.

Lo fa a partire dalla scienza, ripercorrendo le intuizioni di Galileo che sovvertono il metodo scientifico e scardinano certezze. Galileo ha il merito di “aborrire incrostazioni, retaggi e creduloneria”: è una rivoluzione, la sua, del linguaggio, dei significati, degli usi e delle pratiche che si attribuiscono alle parole. E per questo politica. In Vita di Galileo, Bertold Brecht, seppure lavorando di fantasia, come si addice al teatro, ci restituisce un credibile quadro storico in cui il grande scienziato agisce in verità, ma con prudenza, da uomo libero. Allo stesso modo, Albert Einstein, andando oltre il suo lavoro di fisico e matematico ateo che mette in crisi o in soffitta -dipende dai punti di vista – ogni credo che non sia assertore della libertà altrui, propone un pensiero fortemente antiautoritario e contro ogni forma di violenza: “La non violenza è un metodo che contiene un dispositivo, è un mezzo dell’azione, che contiene il suo fine, la pace”. Il fisico e filosofo statunitense Thomas Khun (19922-1996) conferma ne La struttura della rivoluzione scientifica il principio di relatività, secondo il quale la scienza non dovrebbe mai prestarsi ad assoluti. La domanda che sorge è se sia possibile applicare i principi della rivoluzione scientifica alle rivoluzioni politiche. Quando possiamo parlare di contenuti rivoluzionari o riformisti di un dato sistema? Qui si ricorre all’idea di conflitto, che può rovesciare un sistema attraverso l’esercizio della violenza, o essere “inglobato” e permettere mutamenti, come nel caso di una nuova carta costituzionale. Certo, se viene a mancare l’atto “liberatorio”, espressamente aggressivo, non potremmo affermare si tratti di vera rivoluzione. Allo stesso tempo, tuttavia, è pur vero che un colpo di stato può lasciare inalterata la Costituzione presistente. Pensiamo al fascismo che lasciò in vigore lo Statuto Albertino pur avendolo svuotato dei suoi contenuti. Rivoluzione è dunque un “oggetto” in divenire e in continuo mutamento, di cui è difficile stabilirne i confini semantici e di contenuti.

Un passaggio fondamentale del volume è lo spazio dedicato a uno dei più grandi teorici italiani del potere, Machiavelli, su cui si forma il pensiero delle classi colte e rivoluzionarie nel corso della modernità. Al di là di letture folcloristiche, Il Principe fornisce indicazioni su come gestire il conflitto ricorrendo, se necessario, all’atto militare: pur non avendo introiettato il linguaggio moderno della rivoluzione politica, né quello della libertà individuale, né una soggettività universale, nel Principe è presente una acuta critica non solo al popolo, ma, più spesso, ai suoi governanti.

A proposito dell’identità culturale che caratterizza l’Italia divisa, abbiamo due esempi di letterati e poeti che non hanno mai disgiunto la creatività dall’impegno politico: Ugo Foscolo, in particolare nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e il Giacomo Leopardi dello Zibaldone. Non manca dunque in questo trattato uno sguardo profondo all’arte e alla poesia, nelle figure dirompenti di Van Gogh, Munch, Majakovskij, Hikmet. Artisti e poeti che hanno saputo interpretare il malessere della propria epoca e trasferirlo in maniera sublime nella loro opera. In particolare il grande poeta russo, cantore della Rivoluzione e morto suicida, ha la statura di un grande intellettuale. Profondamente critico verso il nuovo potere sovietico e che con “grazia, profondità, ed efficacia” esprime le urgenze di una rivoluzione permanente, tradita. Lo stesso Hikmet avverte la menzogna del potere dispotico che si è sporcato le mani, tra il 1915 e il 1916, del genocidio, negato, degli armeni. Nel poeta turco vi è una domanda di umano che si esprime nella vita e nella poesia, e che gli costò anni di carcere e di esilio. Nel Pantèon dei grandi intellettuali non possono mancare Gramsci, Simone Weil, Pasolini, ognuno critico in maniera diversa del proprio tempo. Figure che non smetteranno mai di interrogarci. Di Gramsci si coglie la sua attenzione alla cultura e al paradigma di “egemonia”, criticato da una certa sinistra che vede nell’egemonia culturale un argomento raffinato per eledure il tema di un’organizzazione militare della rivoluzione. Mancanza che secondo alcuni critici costerà al più grande partito comunista dell’occidente, il Pci, un senso di doppiezza tra istituzione e conflitto, tra morale e prassi, tra riformismo nazionale e vocazione internazionale, tra socialismo e socialdemocrazia. Di Simone Weil si sottolinea la distinzione tra “rivoluzione” e “guerra rivoluzionaria”, quest’ultima tomba della prima poiché costringe le aspirazioni rivoluzionarie al diritto di guerra. Una premessa ontologica all’elaborazione della non-violenza, come quella di Gandhi, e del pacifismo antimilitarista della seconda metà del XX secolo. In Pasolini troviamo il critico più feroce dell’omologazione ai valori delle classi dominanti che si esplicita in particolare nel consumismo che accomuna tutti, nello pseudorivoluzionarismo di molta gioventù dell’epoca, immolata invece, secondo lo scrittore corsaro, ai valori del capitalismo, nel sentire, nei consumi, nei modelli di vita.

Nel lungo sguardo che caratterizza il volume non mancano spunti di riflessione sulle rivoluzioni che hanno segnato il secolo scorso: la rivoluzione culturale cinese voluta da Mao, la recente rivoluzione islamica in Iran, tornata tristemente alla ribalta negli ultimi mesi per le proteste delle donne e dei giovani che rivendicano vita e libertà, repressa in modo spesso feroce, confermando quanto le aspettative riposte in essa anche da intellettuali europei, come Foucault, fossero illusorie. Tanti gli spunti di riflessione contenuti nel volume, ogni capitolo meriterebbe un approfondimento. In realtà, ci troviamo di fronte a temi fluttuanti, come fluttuante è la natura dell’essere umano, dice Domenico Bilotti, citando Tolstoj: “La natura fluttuante dell’uomo precede e determina la pari natura fluttuante della rivoluzione: la rivoluzione è fatta di persone, non di automatismi impersonali”. Se è per sua natura instabile, e può favorire il suo insorgere, come la sua morte, ha sempre e comunque come denominatore comune la speranza e il futuro.

Tra i pregi del volume, oltre alla ricca antologia di scritti critici in chiusura, l’attenzione a figure femminili che hanno aperto la strada dell’emancipazione, come Olympe De Gauges, di cui Laura Paulizzi commenta lo scritto Une pièce contre l’esclavage. Originale Il gesto rivoluzionario nell’arte contemporanea a cura di Ola Cuzba, che rompe con i linguaggi precedenti, sperimenta parole, suoni, animali, aria, neve, cibo, rifiuti. Tra gli artisti interpreti di questo nuovo sentire, Cuzba cita Lucio Fontana, Jackson Pollock, Yves Klein, John Cage, l’Arte povera di Kounellis.

Rivoluzione è insomma un libro da leggere e di cui discutere.

 

Lady Sapiens. Come le donne inventarono il mondo

di Giulia Carletti

 

Un’antropologa, uno storico e un regista sono gli autori di Lady Sapiens. Come le donne inventarono il mondo (Piemme, 2022), un saggio che, come annuncia il sottotitolo originale (Enquête sur la femme au temps de la Préhistoire: Indagine sulla donna ai tempi della preistoria) si propone di tracciare scientemente un’alternativa alla narrazione tradizionale di questo antichissimo e lunghissimo periodo dell’umanità: il Paleolitico (da ca. 2,5 milioni a ca. 15-12 000 anni fa). La vita dell’Homo Sapiens maschio, predatore e soggiogatore, è stata a lungo la più rappresentata, non solo come oggetto di indagine degli studi preistorici, ma anche come immagine proposta nella cultura visiva, dalla pittura ottocentesca al cinema. Una giovane donna, chiamata “lady sapiens”, componeva l’altra metà di esseri umani che popolavano quella parte di mondo antichissimo e di cui, gli autori polemizzano, ci si è occupati poco o secondo la lente degli stereotipi di genere: dall’impalcatura di una rigida divisione sessuale delle mansioni fino ad una agognata fertilità femminile deliberatamente attribuita alle menti degli uomini preistorici. Nella prefazione, Sophie A. de Beaune ci dice: “tra la visione tradizionale della femmina schiacciata sotto il giogo maschile e quella, opposta, di una donna cacciatrice in tutto e per tutto simile a un uomo, manca un ritratto rigoroso e più sfumato che provi a integrare le fonti archeologiche con gli approcci etnografici” (p. 13). A un anno dalla pubblicazione de La Preistoria è Donna: Una storia dell’invisibilità delle donne (tradotto da Giunti, 2021), il libro cita ampiamente la storica francese Marylène Patou-Mathis, contribuendo così alla decostruzione di quel retaggio che vede il dominio dell’uomo sulla donna e le guerre fra esseri umani come presenti “dall’alba dei tempi”.

L’idea del sapiens paleolitico, preda di pulsioni aggressive e animali contro i suoi simili e contro la donna, è stata a lungo prevalente tra gli studiosi a partire dalla fine del Settecento, più che di questa disciplina, della mente, che iniziavano già a impostare una linea culturale pseudo-evoluzionistica che vedeva nella natura atavicamente scimmiesca la causa della pazzia umana, fuori dal controllo della ragione. Di conseguenza, essendo stato il cranio “centro delle ricerche sull’anima e sull’intelligenza, era abbastanza naturale che gli studiosi del XIX secolo si concentrassero sui teschi per tentare di comprendere e di identificare i nostri antenati; su quegli stessi teschi che erano stati utilizzati per difendere teorie evoluzionistiche che ai giorni nostri risultano alquanto imbarazzanti” (p. 36). A partire da inizio Ottocento, tali idee fecero breccia tra i fisiognomisti fino ad arrivare agli psicoanalisti, tutti autori di cui Patou-Mathis non aveva esitato a riportare le affermazioni più feroci contro la donna, debole per natura, difettosa e malata fin dalla nascita, quando non idealizzata, priva del corpo e di una sua sessualità. E la nascita dell’umanità sta proprio nel periodo che ci vide separarsi dalla filogenesi animale, un periodo conteso a volte più intellettualmente e culturalmente che scientificamente, dalle diverse discipline, quasi a voler avere un accesso per la verità umana, i suoi pensieri, i suoi “istinti”, per spiegare il comportamento e la mente di oggi.

La suggestione è che, invece, tale tipo di conflitti sociali presero maggiormente piede con la sedentarizzazione dei gruppi umani e con la loro organizzazione collettiva nel Neolitico, durante e dopo i processi di civilizzazione. Come anche suggerito da Patou-Mathis e come ci spiegano le autrici e gli autori del libro, non vi è un insieme consistente di tracce provenienti dal Paleolitico tale da riuscire a confutare un’ipotesi di pacifica convivenza tra tribù e tra uomo e donna cacciatori-raccoglitori, o, quanto meno, le tracce rinvenute spiegherebbero più che altro disuguaglianze materiali (ad esempio nelle mansioni, nell’alimentazione, nel vestiario), non tanto quelle immateriali (legate ai diritti sessuali e riproduttivi, la famiglia, la rappresentazione “artistica” della donna, etc): ma per gli autori tali disuguaglianze non bastano a definire la civiltà paleolitica come patriarcale (né tanto meno matriarcale). Un’immagine diversa di donna, però – forse ben prima della comparsa di Homo Sapiens! – è ciò di cui la nuova paleontologia e la neonata disciplina dell’archeologia cognitiva si stanno occupando.

Partendo dalla recente scoperta della Venere di Renancourt (ca. 27.000 anni fa), avvenuta in Francia nel 2019, Lady Sapiens riporta quelle ricerche sul substrato culturale del periodo preso in esame, passando in rassegna vari studi e report di scavi, insieme alle diverse ipotesi dei ricercatori su credenze e pensieri che potrebbero aver avuto luogo tra le comunità umane del Paleolitico. Il risultato è, fra gli altri, quello di decostruire le interpretazioni ottocentesche che a lungo hanno regnato (e in parte ancora oggi si fanno presenti) non solo nell’immaginario collettivo, ma nella stessa disciplina che, sotto forma di ipotesi fantasiose e mascherate da scienza della mente, si è spesso basata su prove insufficienti o inadatte a tracciare una solida linea evolutiva della donna sapiens e delle sue rappresentazioni nel Paleolitico. La stessa dicitura di “Venere”, dea bianca e occidentale, nasce dai primi studiosi della Preistoria, disciplina figlia della fine del XIX secolo, come anche il nome stesso “preistoria”, nato a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1867.

Articoli e studi, in cui gli autori e le autrici illustrano i nuovi metodi di scavo e di analisi del dna e delle ossa grazie a nuove tecnologie del settore (che rivelano non solo il sesso ma anche lesioni ossee da stress lavorativo, il periodo di allattamento, etc), sono ampliamente citati, documentati e raccontati al lettore con un ritmo fluido e un linguaggio divulgativo che ben connette le varie discipline prese in esame (paleontologia, paleoetnopologia, etnografia, antropologia, sociologia, etc.). Ad accompagnarli, le varie ipotesi di ricerca che, sempre più frequentemente negli ultimi anni, sono volte a indagare quegli aspetti immateriali e “culturali” nei gruppi di cacciatori-raccoglitori che in passato sono sfuggiti allo studio della preistoria.

Ne esce fuori un’immagine di donna abbastanza distante da quella tradizionalmente fatta appartenere al Paleolitico, anche solo sessant’anni fa: una donna con competenze diversissime – anche altre rispetto a quelle maschili – spesso madre, parte attiva e fondamentale del gruppo, con una muscolatura molto più sviluppata di quello che si ritenesse (e che è molto interessante confrontare con le rappresentazioni di statuine che la vedono estremamente in carne, di cui parlerò più avanti). Tra i vari compiti vi era anche l’impegnativa concia delle pelli e la partecipazione alla caccia degli animali di piccola taglia (la più costante e fruttuosa per il gruppo), anche tramite la costruzione di trappole. Il loro coinvolgimento nella vita attiva era totale e “la dicotomia tra ‘uomo cacciatore’ e ‘donna raccoglitrice’, dunque, così come è stata presentata negli anni Settanta, appare caricaturale”, ci dicono gli autori e le autrici, in quanto “non vi è ragione al mondo per cui i gruppi preistorici dovessero privarsi del prezioso aiuto di metà della popolazione adulta durante la caccia” (p. 145).

Ma forse l’ipotesi che più ci incuriosisce è quella che vede lady sapiens detentrice di saperi e creatività. Da un lato, gli unici “reperti” lasciati volontariamente, e cioè le ipnotizzanti immagini nelle caverne, ci mostrano spesso mani impresse in negativo, come quelle della grotta di Pech Merle. Gli studi più recenti, tra cui quelli di Snow, rivelano (p. 173) che si tratterebbe di mani anche femminili e di bambini. Artiste quindi? Un’ipotesi estremamente affascinante, “nemmeno concepibile per gli studiosi del XIX secolo” (p. 171), ma che potrebbe apparire anche molto plausibile, poiché più compatibile con il tempo richiesto da una tipologia di compiti “femminili” che “maschili”. Dall’altro, recenti studi sul dna salivare e sui tessuti ci suggeriscono una competenza nelle primissime forme di arte medica basate sulla conoscenza e utilizzo di piante, vegetali e resine, facendo strada a ipotesi più “avventurose” che le vedevano sciamane ante litteram, come ipotizzato da Nicholas Conrad che riscontra un legame tra magia a uso medico e femminilità.

Attraverso i capitoli, i primi più generali focalizzati sui costumi dei sapiens paleolitici e gli ultimi più specifici sulla vita e le attività della donna paleolitica, la curiosità cresce parallelamente su due livelli. Il primo – non strettamente legato alla tematica femminile – si dipana lungo la fitta esplorazione di tutti quegli oggetti non strettamente legati alla funzionalità materiale, o di cui si mette in guardia da una scontata interpretazione di questo tipo. Il rinvenimento di calchi di tessuti, decorazioni, di statuine forate, fino ad arrivare alle pitture rupestri e bassorilievi, apre la strada a ipotesi non solo su costumi ed esigenze estetiche, ma anche sulle relazioni tra individui, sugli aspetti sociali di potere o status, sui rapporti tra i primi esseri umani.  Non è detto che l’orientamento all’utile fosse la caratteristica distintiva dell’uomo e della donna del Paleolitico. Gli autori contestano fermamente l’ipotesi che li vede schiavi dei soli bisogni fisici che li rende simili ai nostri antenati animali, ai nostri discendenti scimpanzé e oranghi, dalla quale filogenesi ci separammo milioni di anni fa. L’impiego di molto tempo per realizzare vestiti e pelli, in epoche in cui il clima non li rendeva ancora fondamentali alla sopravvivenza, fa nascere domande come: il vestiario, già nei primissimi millenni di vita del genere umano, poteva acquisire una funzione simbolica, di status, di socialità? La pelle stessa, l’organo più esteso del corpo umano, pare venisse trattata meticolosamente a giudicare dalle tracce di pigmenti rinvenuti nelle tombe. Come suggeriscono gli autori, esso era già allora “un vettore di comunicazione tra gli elementi e gli esseri viventi” (p. 60). La pelle, dunque, era già nella preistoria oggetto di un pensiero simbolico, affettivo e relazionale? Poteva contribuire a formare un’immagine culturale, terreno unicamente umano di sensazioni ed emozioni nel rapporto con gli altri, anziché ad avere una funzione prettamente protettiva del corpo?

Il secondo riguarda invece il cambio di prospettiva che il libro tenta di operare sugli uomini e la loro convivenza con le donne nel Paleolitico. Come accennato prima, quelli che gli autori definiscono come “stereotipi” ci dicono qualcosa sulle idee erroneamente predominanti della stessa natura umana che vedono nella “animalità” e “aggressività” dei preistorici una legittimazione per una ipotesi di natura umana ancestralmente e geneticamente violenta, aggressiva e patriarcale. Lady Sapiens decostruisce proprio l’idea stessa di esseri umani non solo orientati “per natura” alla funzionalità – dediti quindi unicamente al procacciamento del cibo e alla soddisfazione dei bisogni fisiologici (provviste, riparo, difese contro animali feroci) – ma anche alla sopraffazione sui propri simili e incapaci di pensieri affettivi e cognitivi non violenti. Esso si aggiunge così a tutta quella linea di ricerca della moderna antropologia, paleontologia, ma anche psichiatria e psicologia che mira a superare tali retaggi culturali, che vedrebbero l’attività della mente umana incentrata esclusivamente sul “controllo” di una presunta insita animalità perchè “atavicamente” aggressiva e violenta contro l’altro, contro la donna.

Il passaggio sulla sessualità della donna preistorica (a metà libro, nei capitoli “Sensualità e sessualità” e “Fondare una famiglia”) è significativo da questo punto di vista. E’ il caso di citarlo direttamente: “In effetti, il nostro bipedismo perfetto ha fatto sì che i segni dell’estro, che nelle femmine dei primati non umani indicano di solito il periodo fertile e provocano una risposta istintiva nei maschi, divenissero invisibili” (p. 73). Una sessualità non legata alla riproduzione, ma alla ricerca di rapporto? Nel cosiddetto “salto evoluzionistico”, nella separazione cioè con la filogenesi animale, c’è stata forse una “psichizzazione” della sessualità, del rapporto con l’altro? In questo senso, il dubbio degli autori riguarda anche il considerare la fertilità una caratteristica desiderabile a priori per lady sapiens: non è detto che nel Paleolitico una famiglia numerosa fosse un vantaggio e, men che meno, così comune come si è soliti pensare. La conoscenza e il controllo del proprio corpo, rispetto soprattutto alla gravidanza, pare abbia origini più antiche di quanto pensiamo, e sono al centro di ricerche ed ipotesi che il libro riporta soprattutto attraverso gli studi di Coquet, ricercatrice in antropologia culturale. L’impiego di metodi contraccettivi per impedire la fecondazione oppure il ricorso a metodi abortivi (pp. 112-114) sono un’ipotesi molto probabile se guardiamo agli studi etnologici delle popolazioni indigene con scarsi contatti ma, soprattutto, se esaminiamo le analisi di alcuni rinvenimenti di scheletri in cui appaiono tracce di un albero tropicale tra gli escrementi, pianta il cui infuso provoca l’aborto (p. 196). Ciò fa pensare ad una trasmissione di conoscenze che, Conard immagina, potevano passare anche attraverso la produzione di piccole statuine come, per esempio, la Venere di Hohle Fels (ca. 35 mila anni fa). Inoltre, dall’analisi isotopica dello smalto dentale effettuata da Vincent Balter, è possibile determinare che l’allattamento di Homo erectus e australopitechi avvenisse fino ai tre o quattro anni di vita: gli autori ci dicono che sia improbabile che il periodo di allattamento di Lady Sapiens si discosti molto da questo, anche se studi sul Paleolitico superiore devono essere ancora realizzati (p. 117). E’ possibile pensare che le donne paleolitiche avessero meno figli di quanto si pensasse, o comunque meno di quanto i rinvenimenti del Neolitico rivelino (p. 115). Basti pensare che il passaggio alla posizione eretta, insieme ad altri cambiamenti morfologici lungo l’evoluzione, probabilmente avevano reso il parto più rischioso rispetto ai periodi passati (p. 108): una plausibile difficoltà nella vita della donna paleolitica e, quindi, ostacolo alla sopravvivenza dei membri del gruppo. Una interessante suggestione ci arriva poi dall’invenzione del marsupio, strumento utile per potersi muovere in tranquillità dopo il parto: “legarsi il neonato sul dorso per liberare le mani permetteva effettivamente alla madre, una volta superati i postumi del parto, di essere di nuovo disponibile a svolgere le attività del gruppo” (p. 131).

Oltre a indagare su fertilità e maternità – i cui studi si basano più sull’analisi delle ossa e del dna – il libro apre uno sguardo sulla “produzione culturale” paleolitica, nient’altro che le più antiche rappresentazioni della figura femminile, sulle quali diversi studiosi, negli anni, hanno speculato e avanzato molteplici ipotesi: dalla dea madre a figure propiziatorie. Di certo, la stilizzazione della figura umana e, quindi, di quella femminile ci parla della capacità di un pensiero simbolico e astratto. Un aspetto che, forse, avrebbe potuto godere di più spazio, ma che comunque è arricchito da diversi studi e ricerche, non limitando l’immaginazione di chi legge. Nel Paleolitico superiore, infatti, il realismo, o comunque un qualche intento realistico di rappresentazione, appartiene alle figure animali piuttosto che a quelle umane. Tra queste, che costituiscono appena il 6% degli artefatti preistorici fino ad oggi conosciuti, l’immagine femminile rimane la più rappresentata, sia nelle pitture che nelle statuine a tutto tondo e nei bassorilievi. Spesso essa appare avente accentuati attributi sessuali e maternali (come ventre, genitali e seno, è proprio il caso della Venere di Renancourt), e/o affiancata alle raffigurazioni di animali – associazione perdurata per decine di millenni (dalla donna/bisonte/felino a Chauvet, per esempio, ca. 38.000 anni fa, fino ai bassorilievi di Roc-aux-Sorciers, risalenti al periodo Magdaleniano, l’ultima cultura del Paleolitico superiore europeo, ca. 15 mila anni fa). Ciò che caratterizza molti artefatti di questo tipo è, dunque, proprio l’attenzione rivolta alla rappresentazione di attributi sessuali femminili, esageratamente marcati oppure, anche se raramente, di un realismo ricercato (come si vede dalle rappresentazioni di Roc-aux-Sorciers, ma soprattutto nella bizzarra composizione della cosiddetta Origine del Mondo a Fontainbleau). Ciò non deve invitarci, dicono gli autori attraverso i pensieri di Nicholas Contrad e Catherine Schwab, ad associare tali raffigurazioni ad una preistorica “pornografia”, quasi come, di nuovo, a evocare una atavica e sempiterna oggettivizzazione dei corpi femminili. Lady Sapiens mette in dubbio anche l’univocità dell’ipotesi di una prodromica “dea madre” neolitica, come quella avanzata dalla nota studiosa Mirija Gimbutas, dando anche spazio alle voci degli studiosi Nicholas Conard e Denis Vialou. Il primo invita a una contestualizzazione storico-sociale di tale interpretazione – come fu quella preistorica di inizio Ottocento negli anni ‘60-’70 – “per poter misurare quanto la propria mentalità e la moda influenzino gli studi sulla Preistoria” (p. 201) e a pensare a una “analogia del mondo che i nostri avi abitavano” (p. 203). Il secondo spiega che “è pericoloso immaginare una divinità sopravvissuta per millenni senza che il ricorso alla scrittura potesse trasmetterne il culto di generazione in generazione” (p. 203). Oggi le interessanti ricerche dell’equipe di Médard Thiry, effettuate nel 2020 sui bassorilievi di questa curiosissima Origine del mondo ante litteram nella grotta di Fontainbleau (delle incisioni che richiamerebbero la figura di una vulva con annessa attaccatura delle cosce al ventre), suggerirebbero l’idea di un sistema idraulico artificiale che, quindi, avrebbe intenzionalmente avvicinato lo scorrere dell’acqua all’incisione della parete: si può forse pensare, come intuitivamente suggeriscono gli autori e le autrici del libro, più che alla simbolizzazione astratta di fertilità, a quella più precisa del momento della nascita, evocando la rottura delle acque? (p. 206).

Da lettrice, avventurarsi tra le civiltà preistoriche più antiche, quelle del paleolitico, scoprirne anche solo minimi aspetti provoca reazioni diverse. Da un lato, la tentazione è quella di partire con l’immaginazione, di fare le più disparate ipotesi sugli stili di vita dei nostri antenati, di ricercare addirittura delle spiegazioni sulla nostra natura umana di sapiens. Dall’altro, c’è la spinta alla ricerca e ai freni che questa, spesso, impone, sia per mancanza di prove, sia per retaggi culturali con i quali la disciplina della preistoria è nata. Forse un più frequente e completo impiego di datazioni dei vari reperti (anche se le prime quattro pagine sono occupate da una bella timeline preistorica) avrebbe aiutato meglio nell’orientamento in un periodo di tempo narrato che si fa molta fatica a immaginare, andando dai 100 mila ai 15 mila anni avanti Cristo. Tuttavia, basta fare riferimento alle fonti per ritrovarci subito ben forniti di date e reperti.

Lady Sapiens è un libro che può essere letto sia tutto d’un fiato, in virtù della sua scorrevolezza di ritmo e di linguaggio, sia a piccoli passi, per approfondire una questione alla volta, essendo ricco di riferimenti e di rimandi a fonti primarie e secondarie. Il “facile entusiasmo” per il quale il libro potrebbe essere (ed è stato) accusato riguarda forse più il tono a tratti celebrativo della narrazione che la metodologia scientifica sulla quale si basa. Ciò che il libro si guarda consapevolmente dal fare, infatti, è proprio creare (di nuovo) un’impalcatura dogmatica sulla realtà della donna preistorica appiattendosi su una presunta società matrilineare o matriarcale: non si cerca di ribaltare la preistoria, perché esiste una carenza di ritrovamenti, anche da parte di chi l’ha narrata “al maschile”! Piuttosto si cerca di far riflettere a quali visioni è stato concesso di avere spazio e a quali no, a parità di evidenze e reperti archeologici e paleontologici. L’invito è quello a una ricerca consapevole, che è ancora aperta, anzi, apertissima (p. 178). Una disciplina come l’archeologia preistorica deve fornire parecchi dati per definire bene teorie paleoantropologiche. Per ora, gli autori e le autrici hanno dato spazio a ipotesi diverse rispetto a quelle narrate da più di cento anni di studi preistorici. Sta al lettore valutare, ponderare e farsi un’idea non solo sulla scelta di una narrazione “convincente” sulla vita della donna preistorica, ma soprattutto su ciò a cui invitava anche Patou-Mathis, e cioè sulla preistoria come disciplina.

Elogio della terra- di Byung-Chul Han

Un vettore collega la lettura offerta da Bacone del libro della Genesi, in cui Dio offre all’uomo la natura perché ne sia padrone e custode, la sentenza galileiana per cui la natura è un libro scritto nel linguaggio della matematica, e la moderna e contemporanea razionalità strumentale, che predispone mezzi per fini eletti eteronomamente riducendo, come ha ben visto Husserl, tutto a quantità misurabili e raffrontabili. Si tratta di un vettore che ci ha illusi di renderci sovrani della realtà, ora prevedibile e governabile, ma che, a ben vedere, ci ha in gran parte spossessati dell’esperienza piena che della realtà si può fare, a causa di una simulazione, una sostituzione della realtà nella sua complessità e nella sua pienezza con una messe di informazioni, rigorose o meno: unico antidoto, le parole provocatorie di Nietzsche, secondo il quale il non conoscere è la precondizione perché ciò che vive si conservi e prosperi.

Nel libro di Byung-Chul Han, Elogio della terra, pubblicato da nottetempo (192 pagine, € 17), il filosofo coreano ci consegna la sua esperienza di giardiniere, di cultore di piante e fiori nel proprio giardino, invitandoci a riprendere contatto con la natura e, così, a percorrere il tragitto opposto a quello ora appena accennato. Un libro che arriva dopo i numerosi altri in cui Han si è esercitato in una variegata e puntuta critica del digitale e del capitalismo cognitivo attuale: un libro che, quindi, si propone come una specie di pars construens, e che si nutre dell’amore di Han per la filosofia zen e per gli elementi che la animano, per la sua capacità di conservare un’aderenza con il qui e ora, lasciato essere, senza tuttavia intrappolare nella finitezza che limita la deriva moderna del pensiero occidentale. Han, nel contatto con la terra, con la natura nella metafora del giardino planetario, suggerisce una riscoperta intensiva di un altrove più profondo.

La forte spinta a riconquistare il contatto con la terra è la reazione alla digitalizzazione della nostra vita, a un processo, cioè, che ci fa smarrire ogni ordine terreno, ogni ordine naturale, ogni armonia. Sette anni fa, Han ha allestito un giardino, che chiama Bi-Won, giardino segreto, capace di comunicare una propria storia in ogni stagione: il libro si apre proprio con il racconto delle piante invernali, della loro sorprendente tenacia. Un’esperienza, quella del giardino, che Han descrive nella sua dimensione particolare e personale, che, tuttavia, apre già strutturalmente a un’universalità o, meglio, avvoca a un impegno collettivo. La chiama “coscienza planetaria” e la definisce come l’avvertenza che abitiamo un piccolo e rigoglioso pianeta, unico fra quelli noti a non essere buio e sterile; un equilibrio fragile, che trascuriamo, dal quale succhiamo ogni risorsa, interpretando come unico significato del lavoro quello di estrarre e trasformare la natura. Il lavoro sul suo giardino insegna a Han il senso del sacrificio, la fatica dello scoprire la realtà disvelarsi: una fatica benefica e conciliante, ben altra cosa rispetto a quella patologica del neoliberismo, che in altri libri Han ha così diffusamente trattato mettendola in connessione con la depressione. Anzi, il giardino, riallacciandoci alla realtà delle cose, alla natura e i suoi tempi, è un farmaco che dona la gioia più vera.

Per descrivere il suo percorso di sottrazione a un mondo ridotto al mero quantificabile, per restituire questo itinerario di reincantamento del mondo, Han parla di una “romanticizzazione”, in primo luogo nel senso di Novalis: «Nel momento in cui do a ciò che è comune un senso elevato, a ciò che è consueto un aspetto pieno di mistero, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita io lo rendo romantico». Non una fuga verso un altrove, ma la riscoperta di un nuovo significato, di una irriducibile e ricchissima alterità in ciò che già c’è, così come è. È nella dimensione qualitativa, più che in quella quantitativa, che Han orienta le proprie parole, parlando di musica e musicalità, colori, poesia, come lacerti di una sacralità i cui riti abbiamo smarrito, di una vita che è sempre altra, che si rivela e ci sorprende.

L’impresa di Han è dunque quella di restituire mistero alla natura, contro l’assolutizzazione dell’azione umana e il suo effetto distruttivo. Inazione piuttosto che azione, indugiare piuttosto che agire strumentale, contemplare piuttosto che intervenire: queste le parole d’ordine per una salvezza ancora possibile per noi e la natura che ci avvolge; perché l’angelo della Storia di Walter Benjamin non abbia più a discendere a constatare le conseguenze dell’agire umano, macerie e detriti accumulati per un malinteso senso di progresso.

Ogni capitolo del libro di Han racconta una pianta, una scoperta, un’esperienza. E ogni capitolo è accompagnato da un disegno di Isabella Gresser, capace di ritrarre piante, fiori, rami, germogli per avvicinare il lettore quanto più possibile alla concretezza delle parole di Han.

VIDEO – Intervista al Sen. Gianni Marilotti sul tema desecretazioni

Filosofia in Movimento, in collaborazione con Bridges for Media Freedom, intervista il senatore Gianni Marilotti – Presidente della Commissione per la Biblioteca e per l’Archivio storico del Senato – in merito al progetto desecretazioni. Una proposta pratica per porre rimedio ai meccanismi che ostacolano la rimozione del segreto da ulteriori 137.000 pagine ancora non a disposizione di storici e cittadini.

Dacia Maraini – La scuola ci salverà (Solferino,

A dialogare con l’Autrice ci saranno Ivana Zuccarello (docente), Bruno Montanari (filosofo) e Valeria Budassi (studentessa). Modera Antonio Coratti. Cosa è successo alla scuola? Come possiamo risollevare le sorti dell’istituzione più importante per il futuro del Paese dopo una fase difficile come quella che sta affrontando? Dovremmo partire dagli insegnanti motivati e capaci che la sorreggono nonostante i molti ostacoli e dal serbatoio di vitalità degli studenti. E poi naturalmente occorre ridare all’istruzione le risorse e la centralità che merita. La scuola può fare la differenza, soprattutto in momenti di crisi. Dacia Maraini ne è convinta e lo testimonia con il suo impegno in difesa dell’insegnamento come negli interventi scritti nel tempo e in alcuni intensi racconti raccolti in questo libro: L’esame, Il bambino vestito di scuro e Berah di Kibawa. Da sempre l’autrice si dedica al dialogo con gli studenti e con i loro docenti approfondendo modelli di apprendimento e impugnando questioni di diritti e di riforma e in queste pagine racconta una scuola come dovrebbe e potrebbe essere, filtrata dagli occhi di scrittrice, di intellettuale civilmente impegnata e anche di docente. Storie, idee, battaglie e ricordi di una vita intera, dalle lezioni al Liceo di Palermo all’insegnamento nel carcere di Rebibbia. Un viaggio tra i banchi, anche attraverso la forza dell’immaginazione, da cui emerge l’urgenza di garantire ai nostri ragazzi un’istruzione migliore per ridare all’Italia una concreta speranza nell’avvenire.

 

Il Caso Assange: dieci anni di guerra al diritto all’informazione.

Se una decisione governativa non può essere professata pubblicamente prima di essere messa in atto è ingiusta a priori e dimostra che l’operato dei rappresentanti politici è contrario ai principi che sorreggono il diritto del Patto civile.
Il fatto che Assange, nella sua qualità di giornalista, abbia pubblicato documenti che provino l’infedeltà di alcuni politici ai principi che essi stessi dovrebbero propugnare, non può in alcun modo essere visto come un atto criminale contro la sicurezza di uno stato. Al contrario è sempre necessario che la verità sia resa pubblica al fine di rendere il dibattito politico il più possibile autentico e che non vi sia scollamento tra i fatti e le opinioni dei cittadini.
ne hanno parlato Sara Chessa, Antonio Cecere e Antonio Coratti

Le religioni alla prova del dialogo. Note a Le religioni e le sfide del futuro. Per un’etica condivisa fondata sul dialogo

Per quanti operano, con ruoli diversi, all’interno della società e delle istituzioni, dunque anche all’interno dell’Università, il libro di Chiti rappresenta uno strumento di grande utilità per migliorare la comprensione di ciò che l’Autore chiama “il contributo che le religioni possono dare a un avanzamento della civiltà”. Può sembrare una frase retorica, che dice tutto e niente, ma non è così. A mio avviso, può invece diventare un monito dirompente se le religioni, a partire dai loro leader, decidono di lavorare per mettere in relazione il bene degli esseri umani con il bene del Creato.
Concordo, dunque, con Chiti sul ruolo “orientativo” delle religioni nella società globale e condivido la sua preoccupazione che la “logica della contrapposizione amico-nemico” possa prendere il sopravvento all’interno delle due sfere per antonomasia, quella della politica e quella del sacro, ma pure tra le “due sfere”, o tra i due “ordini” – per essere più affini al dettato costituzionale (art. 7, co. 1 Cost.) – quello dello Stato e delle confessioni religiose, ostacolando o finanche sbarrando la strada al dialogo, inteso (filosoficamente) come “crocevia che lascia scorrere le differenze, le fusioni di orizzonti” .
È chiaro che, per operare in un’ottica di solidarietà cooperativa verso il mondo c’è bisogno anche di “rafforzare i legami interreligiosi”, riconoscendo – come hanno scritto Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar nel Documento sulla Fratellanza umana del febbraio 2019 – che “il pluralismo è voluto da Dio”. Bene ha fatto, perciò, qualcuno a chiosare questa posizione bipartisan come “condanna alla radice di ogni visione fondamentalista” .
Chiti scrive che c’è bisogno di un “nuovo umanesimo” e individua, per esempio, nel fattore “ecologico” uno dei punti di svolta più importanti per risolvere i “problemi dell’Antropocene”, cioè “dell’epoca geologica attuale nella quale l’uomo è in grado di indirizzare e modificare tutti gli equilibri del pianeta terra” . Il Papa, dal canto suo, nella Laudato sì ha parlato chiaramente di “eccesso antropologico”, per cui l’uomo si costituisce come “dominatore assoluto”.
Un esempio di questo “antropocentrismo deviato” (Papa Francesco) è l’affermazione del presidente del Brasile Bolsonaro quando rivendica il diritto del governo brasiliano di distruggere la sua porzione di foresta amazzonica. A questa dichiarazione possiamo rispondere prendendo in prestito le parole del pontefice contenute nell’Esortazione Querida Amazonia del 12 febbraio 2020: “Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine”.
Qui è come se Papa Francesco facesse propria la “prospettiva di un garantismo costituzionale” di portata sovrastatale (planetaria) , il cui nucleo risiede nella necessità/urgenza di rifondare una legalità (Papa Francesco direbbe una “relazione”) all’altezza delle emergenze globali.

Di fronte a questa sfida – parafrasando il Francesco della Laudato sì – “il divino e l’umano” non possono restare indifferenti e sono chiamati a riconnettersi in un universale non-omologante. La fraternità di Papa Francesco è l’opposto della globalizzazione vuota, è “costruzione” all’interno della quale la tensione non è dogmatica (“tecnocratica”) bensì “relazionale”, cioè “permeabile alla comunicazione” . “Non rinunciamo [dunque] a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa” (Laudato sì, n. 113). E poi: “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. (Laudato sì, n. 113).
Si tratta perciò di un “movimento” – di una prospettiva di rifondazione della legalità globale – per nulla scontato (il sovranismo politico e quello mercatistico mal digeriscono i limiti e i vincoli costituzionali), che si nutre di scelte responsabili. il Documento di Abu Dhabi del 2019 (cit.) – che Chiti definisce di “portata storica” – si apre proprio con un chiaro impegno alla “responsabilità religiosa e morale”, senza la quale non sarà possibile “diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace”, né “intervenire (…) per fermare lo spargimento di sangue innocente”, la “fine” delle “guerre” (…), “il degrado ambientale e [il] declino culturale e morale che il mondo attualmente vive”. E si tratta di un “movimento” che incontra fattori di resistenza ampi e diversificati sia all’interno del “giardino di Cesare” (citavo prima il sovranismo politico e quello mercatistico) che all’interno del “giardino di Dio” .
Su questo dilemma Chiti imbastisce la trama del suo libro analizzando con dovizia tutta una serie di questioni ad alto tasso di complessità e di interazione tra loro: il valore della laicità, il rapporto tra scienza e fede, il ruolo delle religioni come “istituzioni” e la loro azione all’interno dello spazio pubblico, il “peso” della religione e delle religioni nelle scelte individuali, le sfide della globalizzazione, l’azione missionaria delle chiese, i processi di rinnovamento all’interno delle comunità di fede (dall’interpretazione dei testi sacri alle ortoprassi nei contesti di immigrazione), il ruolo dei giovani e delle donne, la governance dei rapporti tra istituzioni pubbliche e organizzazioni religiose, la geopolitica del fattore religioso e il protagonismo dei leader, il dialogo interreligioso.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, richiede un grande sforzo di servizio “in comune” tra soggetti religiosi (persone, leader e organizzazioni) e attori politico-istituzionali, lato sensu. Se, dal punto di vista delle religioni, “il dialogo interreligioso richiede di mettersi al servizio del dialogo di Dio con l’umanità” , dal punto di vista della politica (e del diritto) “la democrazia non può mai farsi i fatti suoi, perché i fatti sono suoi, se li consideriamo come elementi di crescita della coscienza e della consapevolezza del cittadino” . Per cui, parlare oggi di laicità, come “prefisso della libertà” , non significa limitarsi a ribadire astrattamente la “distinzione tra ordini distinti” (Corte cost. n. 334/1996) ma qualcosa di più, specie oggi che il panorama culturale e religioso si presenta molto più frastagliato e discontinuo rispetto al passato .

Si tratta, concretamente, di concepire una koinè democratica , le cui categorie di fondo (eguaglianza, libertà, pluralismo, solidarietà, laicità, etc.) devono essere sottoposte ad un lavoro di aggiornamento per essere più rispondenti alle nuove domande di cittadinanza interculturale . E questo lavoro di aggiornamento, inevitabilmente interdisciplinare, passa attraverso la conoscenza, il dialogo, l’inclusione, l’interazione, unica via (a mio avviso) per “garantire i diritti e i doveri di tutti verso tutti” . Dal modo come verrà concepito e organizzato questo sforzo capiremo quanta volontà c’è di “tenere insieme” l’umanità, come direbbe Papa Francesco .
È perciò fuori discussione che, all’interno del paradigma costituzionale – nel quale colloco la riflessione di Chiti – si imponga la necessità (se non addirittura l’urgenza) di conferire massima effettività ad una teoria integrata dei valori (perciò “interculturale”), dove tutto quanto risulta funzionale alla costruzione di una “proposta comune sui diritti” trovi massimo sostegno e diffusione, sia da parte degli apparati politici (in senso multilivello), chiamati a lavorare per accrescere il valore della cooperazione (art. 11 Cost.), sia da parte delle religioni, inquadrate innanzitutto come formazioni sociali, per essere meglio vincolate al “patto repubblicano” e, dunque, impegnate anch’esse a rimuovere gli ostacoli (nella società e nelle comunità spirituali) che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, co. 2 Cost. e l’art. 4, co. 2 Cost. dove si parla, non a caso di “progresso spirituale della società”).
Una teoria integrata (“interculturale”) dei valori costituzionali ha buone ragioni per costituire lo sfondo anche per una teoria del dialogo interreligioso, perché ciò che caratterizza la prima è la “ricerca delle comunanze, di ciò che ci rende umani”, [che] tradotto in linguaggio costituzionale [significa] l’idea[valore] del principio personalista” , declinato anche in ragione di ciò che “un individuo avvert[e] verso una realtà più grande di lui, nella quale (…) si identifica” .
Per non essere, dunque, di sola facciata, il dialogo interreligioso (come prodotto raffinato del dialogo interculturale) richiede la disponibilità (non scontata) a compiere un lavoro di ripulitura incrementale dei linguaggi specialistici (politico, giuridico, teologico, etc.). Significa avere “fiducia nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali, contro il fanatismo integralista di chi ritiene che la verità sia tutta e solo la propria dottrina” e che “rischia [sottolinea Chiti] di confinare le religioni in rappresentazioni mitologiche”.
Mi pare, allora, che la versione di Chiti sul significato del dialogo interreligioso (e non solo) sia abbastanza adesiva a quanto da me appena detto, specie quando scrive che: “la collaborazione tra le religioni deve andare oltre il reciproco rispetto e mettere al bando forme di coercizione, di arroganza, la pretesa di imporre (…) un esclusivo punto di vista”. E che per dare concreta attuazione a questo intento occorre “integrare tutti in una nuova cittadinanza, che faccia delle differenze di fede e cultura una ragione di sviluppo e progresso, non di divisione”, erigendo la laicità a “valore cardine della democrazia”.

Thomas More-Utopia

Paolo Quintili e Roberto Mordacci su Utopia di Thomas More