Se il capitalismo è la malattia, qual è la cura?
Richard Levins, biologo ed ecologo marxista, prevedeva nel 2013, che ci sarebbe stata una ripresa delle malattie infettive, perché non si teneva conto dei fattori che stavano facendo crescere i virus: «Ogni volta che sfidiamo un patogeno con una medicina, questo impone una selezione naturale che produce nuove varietà del patogeno. Ogni volta che creiamo condizioni nuove, i patogeni evolvono». E riguardo alle grandi aziende agricole industriali, poneva la differenza tra riduzione e riduzionismo: «La riduzione è il riconoscimento, che è bene sapere, della composizione di qualcosa ed è una tattica di ricerca. Il riduzionismo è la pretesa che, dopo averlo fatto, capiamo tutto». L’irruzione del nuovo coronavirus e il confinamento su scala planetaria, pone in discussione, tra molte altre questioni, anche il modello di scienza, come saggiamente diceva Levins. In un articolo del 2000, Levins rimarcò che la malattia era il capitalismo. Sembrerebbe che siamo davanti a qualcosa di totalmente nuovo, inedito, benché ci siano stati segnali molto prima. Siamo d’accordo con la diagnosi e la critica di Levins, ma aggiungiamo, in questa tappa del capitolocene, quando il capitale è diventato sempre più virulento, una domanda: qual è la cura? In questo testo non ripeteremo i tentativi di spiegazione degli intellettuali del Nord sbalorditivamente insufficienti, ma porremo altre domande e abbozzeremo qualche tentativo di risposta.
Siamo sospesi, in pausa, posti in stand-by, sia chi ha le condizioni per il confinamento e sia chi non le ha, ma tutti siamo irritati per la nostra quotidianità, la nostra routine e le nostre abitudini stravolte. E oggi più che mai il futuro si pone ancora più incerto, per alcuni è la fine di un’era; per altri, l’inizio di una peggiore. In questa sospensione delle attività e della mobilità possono intuirsi cambi nel metabolismo planetario. Il rallentamento nelle grandi città ha portato conseguenze benefiche, è sorprendente vedere la fauna e la vegetazione riprendersi il loro territorio. Cosa accadrà nello spazio-tempo post-coronavirus? Usciremo tutti a strappargli il loro spazio? Come possiamo coesistere senza deteriorare o distruggere?
La storia del capitalismo ci mostra una serie di cicli economici con alcuni periodi di relativa stabilità e punti di crisi; un anno dopo la crisi economica del 2008, la filosofa della scienza, Isabelle Stengers, scrisse un libro per esaminare e tentare di immaginare sperimentazioni collettive e cooperative per un altro avvenire. Dal titolo del libro strizza l’occhiolino alla Luxemburg di “Socialismo e barbarie”, sostenendo che non abbiamo ancora scelto il primo: In tempi di catastrofe. Come resistere alla barbarie che viene. Così affronta ciò che ha chiamato “l’intrusione di Gaia”: «Ella è dotata non solo di una storia, ma anche di propria attività, che sorge nel modo in cui i processi, che la costituiscono, sono accoppiati gli uni agli altri in modi molteplici e intrecciati (…) Interrogare Gaia è interrogare qualcosa che costituisce un tutto e le questioni dirette a un processo particolare possono richiedere una risposta, a volte inattesa, del complesso». Ciò che Stengers ci rivela è ciò che altri autori hanno segnalato, la stessa Terra imporrà i limiti di questa crescita espansiva, vorace, del capitalismo, benchè pensassimo che sarebbe stato mediante il collasso climatico – con il quale stiamo ancora impegnati, ma che adesso si è solo sospeso o siamo troppo storditi –; tuttavia, un microscopico agente non-umano, che si manifestò come risultato delle interazioni con un ambiente naturale sempre più minacciato e violentato, è emerso con una potenza d’azione deleteria in un brodo di cultura poco preparato per esso, per molteplici fattori, ma importante fu l’avere lasciato i sistemi di salute alle forze del mercato, che è inumano e crudele. Le enclosures, la privatizzazione del pubblico e del comune, hanno assaltato anche la salute e la covid-19 lo mostra crudamente e pone il personale medico e di infermeria di fronte ad “alternative infernali” biopolitiche: chi si lascia morire e chi si salva.
Scene da “Parasite”, pandemia e pharmakon
A partire da questi elementi che ci offrono gli scienziati, che riconoscono in Marx un’eredità ineludibile, e che guardano alla complessità del mondo socio-ambientale, voglio fare una lettura della pandemia coniugandola con scene del film Parasite, poiché alcuni elementi si intersecano in maniera paradossale e suggestiva.
Generalmente si può dire che entrambi sono venuti dall’oriente, ma che hanno avuto un’espansione planetaria. Segnalo ironicamente l’origine geografica: date le condizioni di un’economia mondiale immorale, il virus sarebbe potuto germogliare in qualsiasi parte; una storia riduzionista segnala come punto d’inizio un mercato di “cibi esotici”, senza menzionare che il denominato “esotico” è sempre relativo e si stabilisce rispetto a qualcosa che si considera “normale”. In questo stesso senso, il film si è diffuso per il mondo e ha vinto non solo la Palma d’Oro a Cannes nel 2019, ma anche vari premi Oscar a inizio di febbraio di questo anno, quali “miglior film” e “miglior regia”, e benché fosse girata e prodotta in Corea del Sud, ci mostra un dramma che accade su scala globale. È importante individuare che, per entrambi i fenomeni, la loro origine è l’eccessiva e mostruosa mercificazione della vita umana e degli altri esseri del pianeta.
L’odore, i sensi e il cambio di percezione
Possiamo vedere in Parasite un annuncio di ciò che verrà? Non a caso l’odore del sig. Kim provoca nausee ai ricconi, perché il borghese che lo ha contrattato come autista doveva aprire il finestrino per non sentirlo sul sedile posteriore? Non è lo stesso odore e la sensazione di emanazione condivisa con l’uomo del seminterrato, che permette al sig. Kim di darsi conto della sua appartenenza di classe e di scegliere di agire non a favore dei ricchi, come aveva detto, ma dei propri? Possiamo pensare adesso che uno dei tratti caratteristici della Covid-19 è proprio la perdita dell’olfatto e del gusto? Dovremmo risvegliare gli altri sensi, soprattutto un ascolto profondo, non rivolgerci reiteratamente alla velocità e alla precipitazione; questa situazione ci invita a darci conto dell’“inabilità della vita frettolosa” segnalata dalla co-autrice di Stengers, Donna Haraway, zoologa e filosofa della scienza. Le condizioni attuali ci portano a chiederci: come possiamo avere un’esperienza profonda dei sensi per articolare e sapere stringere alleanze, darci tempo di conoscere e configurare un mondo con un’altra prospettiva, altre forme di interazione, apprendendo dalle ontologie relazionali, come le chiama Arturo Escobar?
Organizzazione contro pianificazione
Un altro punto del film è la frase che il padre pronuncia al figlio, come segno di un’eredità intergenerazionale, sommamente vigente: «Ki-woo, sai che tipo di piano manca sempre? Nessun piano. Sai perché? La vita non funziona mai così. Guardati attorno (…) Per questo la gente non deve fare piani. Senza un piano, nulla può andare male. E se qualcosa sfugge al controllo, non importa». Lo dice quando stanno in una palestra trasformata in ospizio pubblico, dopo un’inondazione di grandi zone della città, soprattutto quartieri emarginati e affollati. Le conseguenze dei mal cosiddetti disastri naturali non sono omogenee, come già si è dimostrato con l’uragano Katrina nel 2005 e il suo impatto “razzista”, questi fenomeni arrivano a un piano sociale molto asimmetrico, causando danni differenti, penetrando di più tra i più sacrificati. E tuttavia, non facendo caso a quanto detto dal suo genitore, il figlio – e questa è la chiusura del film – pianifica di diventare ricco ad ogni costo, per comprare la casa dove, presuppone, suo padre sta chiuso nel seminterrato. Se realmente gli manda segnali o la lampadina ha picchi di tensione è ambiguo, egli ha un piano e pensa di seguirlo, ha incorporato l’ordine capitalista, benché abbia un fine giustificato.
Come abbiamo detto l’irruzione del Sars-Cov2 ha posto in discussione i piani di tutti, a tutti i livelli, tuttavia ci sono coloro che tentano di forzarci a seguire il piano economico globale precedentemente stabilito, mantenere la struttura del capitale e, come esempio, abbiamo gli organismi finanziari internazionali che offrono prestiti, per tornare a darci la stessa formula: indebitamento, salvezza di alcuni e imposizione e ripartizione sociale del debito. Perché costa tanto al capitale fermarsi? O almeno rallentare il suo ritmo di profitto? La pandemia gli ha tolto la maschera che portava, ha spogliato il suo anti-viso, perché di umano non ha nulla, mostra la sua faccia parassita: «Quando Marx caratterizzò il capitalismo, la grande domanda era “chi produce le ricchezze?”, da lì la preponderanza della figura dello Sfruttatore, di quella sanguisuga che è parassita della forza viva del lavoro umano. Quella questione evidentemente non ha perso nulla della sua attualità, ma l’esortazione a non prestare attenzione, incluso anche quando la barbarie minaccia, può corrispondere a un’altra figura che viene ad aggiungersi, senza rivalità, alla prima. Questa figura è l’Imprenditore, quello per cui tutto è occasione – o piuttosto che esige la libertà di potere trasformare tutto in occasione – per un nuovo profitto, anche quello che mette in questione il futuro comune» (Stengers).
Allora ci chiediamo: come possiamo uscire dallo scoraggiamento di una pianificazione rigida dettata dal capitale verso forme di organizzazione tentacolari come le chiama Haraway – di tentare, sentire e provare –, che agitino a livello della Terra, che co-generino un humus sociale, tendendo vincoli cooperativi, con permute e scambi solidali, senza cadere nella disperazione, nella speranza senza attesa? E andando ancora più oltre: come prestare attenzione all’implicazione radicale della simpoiesis? Se la simpoiesis è «la parola appropriata per i sistemi storici, complessi, dinamici, ricettivi, posti. È una parola per configurare mondi in maniera congiunta, in compagnia» (Haraway). Simpoiesis che in Messico, in America latina, nel Sud globale, si manifesta sistematicamente nelle comunità, nelle reti di reciprocità nel rurale e nell’urbano, in memorie ancestrali che sempre si raggiungono.
Vincoli contro guerra
Ricordiamo la sequenza in Parasite nella quale si affrontano spietatamente nel seminterrato le due famiglie che provvedono ai servizi nella casa lussuosa, spaziosa e originale costruita da un famoso architetto e decorata con eleganza, ma anche funzionalità. Chi abitava nascosto per debiti impagabili, che lo porterebbero in carcere, viene scoperto, si stabilisce una disputa e una rivalità mortale. Benché entrambe le famiglie cercano lo stesso, avere lavoro e un posto, non si pensano neppure di riorganizzarsi per condividerlo. Si stabilisce una dinamica di annichilamento; non si è affatto lontani dal pensare l’intrusione di Gaia come un attacco, una vendetta, di concepire l’altro, a partire da un modello di guerra. Logica che ha permeato le nostre metafore in molti campi: l’economia, la politica, la scienza.
È la stessa scienza, inclusa la medicina, che storicamente ha inalberato una retorica e alcune pratiche di guerra, di lotta, di ostilità (tutto ciò che nel poliziesco-militare è associato alla virilità): la guerra contro il cancro, contro la de- o malnutrizione, contro l’AIDS, contro la povertà e adesso contro il coronavirus. Come se fossero fenomeni isolati da un contesto e non fossero generati ed esacerbati da un sistema sociale ed economico sempre più brutale, che sta trasformando questo tipo di eufemismi in una vera guerra contro coloro che non possono pagare cure e trattamenti, cambiare la loro forma e stile di vita, procurarsi almeno una buona morte. Haraway ci dice: «Per tentare di immaginare il sistema immunitario mediante qualcosa di diverso dalla retorica della Guerra Fredda, che si riferisce al sistema immunitario come se fosse un campo di battaglia, perché non concepirlo, non come un discorso di invasori, bensì come particolarità condivise in un Io semipermeabile che è capace di rapportarsi con gli altri (umani e non umani, interni o esterni)».
L’ideologia capitalista moderna coloniale ha instaurato una concezione del corpo come un oggetto non permeabile che chiudeva l’Io, il soggetto pensante, oggetto, razionale. Perché il virus affetta di più gli uomini? Più che assistere unicamente a dimorfismi fisico-anatomici, che l’unica cosa che fanno è reificare le funzioni associate a uomini e donne, rinforzando il patriarcato, avventuriamoci qui in un’ipotesi immaginativa (anche con ispirazione a Haraway e Stengers, cioè incoraggiandoci alla finzione), perché sono loro quelli che sono più vicini a questa idea dell’Io, univoco, identitario, chiuso, accentrato su se stesso, che inalbera l’egoismo e l’impenetrabilità. Come rovesciamo la retorica di guerra verso una che includa e accetti la diversità e la convivenza tra molte specie? Come passiamo da una prospettiva del luogo astratto, presumibilmente indeterminato a quella della conoscenza collaborativa posta? Che tipo di intersoggettività dovrebbe emergere per cambiare queste dicotomie catastrofiche e taglianti – soggetto/oggetto, uomo/donna, natura/cultura – in interdipendenze creative, in sinergie inedite del multi-riconoscimento?
Redistribuzione contro “gentilezza”
Attraverso un’altra scena del film, possiamo parlare di chi e come si sta incaricando della situazione. In un dialogo tra il padre, la madre e la figlia, il padre osserva che la signora, la padrona di casa è ingenua e gentile. E la madre risponde enfatica: «È ricca, ma anche così gentile! No! È gentile perché è ricca. Sai? Se io avessi tutto quel denaro, sarei anche gentile! Anche di più!». Il capitalismo suole mostrare una faccia gentile, altruista, caritatevole, di graziosa donazione e come sistema ci ha proposto l’idea del merito individuale. Il film pone manifestamente non l’astuzia della famiglia per ottenere lavoro, bensì smaschera l’ideologia capitalista della meritocrazia e dello sforzo. Così come mostra la stratificazione, affinché si sostenga quella casa opulenta è necessario un seminterrato, coloro che non si vedono, sono invisibili, ma ci sono e la mantengono.
A questo punto del confinamento chi possiamo, abbiamo sostenuto gli altri, tuttavia è indignante, che coloro che si sono appropriati dell’eccedente sociale e per questo hanno e ricevono di più non lo facciano, ciò ha fatto sì che lo slogan politico-economico del reddito di base universale circoli oltre gli ambiti nei quali lo faceva prima e adesso si ponga nell’agorà mondiale.
Inoltre, neanche lo sforzo durante il confinamento si ripartisce equamente. Coloro che lavorano di più, siano le donne in casa, curando e servendo tutto ciò che riguarda la vita e la sua produzione e creazione; gli operai delle maquilas che non ricevono neppure una paga conveniente per il loro lavoro estenuante; gli immigrati, che si trasferiscono cercando una vita migliore, per andare a fermarsi nei moderni campi di concentramento; i lavoratori flessibilizzati e precari presumibilmente imprenditori del capitalismo delle piattaforme, mediante le quali torniamo a renderci conto che la piattaforma non è tutto, c’è una parte tangibile, senza la quale il virtuale non ha senso. E in tutti questi casi torna ad essere presente la forza del lavoro vivo. Come riusciamo a riunire la forza sufficiente per rendere, da un lato, palpabile la brama di profitto del capitale e, dall’alto, obbligarlo a ripartire, collocare socialmente il tema urgente della redistribuzione, non per gentilezza, bensì per diritto, per giustizia sociale?
El pharmakon
Stengers ci propone l’idea del pharmakon, che essendo un vocabolo greco non solo rimanda alla cultura occidentale, bensì al rimedio che da tempi immemorabili e in varie culture può fornire una cura, una pozione il cui effetto ha molto a che vedere con la quantità, perché passando un certo limite contestuale, si tramuta in veleno.
Il pharmakon è sia sostanza, il componente, sia il dispositivo nel quale si applica, gli agenti coinvolti; essa porta la malattia ed è il curante, la relazione che si stabilisce, la pratica integra per produrre la modificazione.
Per Stengers ciò che ci compete fare è «diagnosticare il divenire in ciascun presente che passa, è ciò che Nietzsche assegnava al filosofo come medico, medico della civiltà (…) E una vera diagnosi nel senso nietzscheano deve avere la potenza del performativo, non può porsi in posizione di commento, in esteriorità, bensì deve rischiare una posizione di invenzione che faccia esistere, che renda percettibili le passioni e azioni associate al divenire che essa evoca».
Consideriamo che il fenomeno che stiamo vivendo ci fa assumere il ruolo delle contraddizioni e dei paradossi. Siamo arrivati, adesso, lontani dall’equilibrio, ma è necessario spingere la fluttuazione ancora più in là, al punto di biforcazione, dove le contraddizioni si vedranno esacerbate, e dove scegliere la nostra posizione, ri-lanciarci alla trasformazione inderogabile. È adesso che si tratta di apprendere a rispondere e “responsabilizzarci”: «Lottare contro Gaia non ha alcun senso, si deve apprendere ad essere suoi contemporanei. Essere contemporanei con il capitalismo non ha neanche senso, si deve lottare contro il suo dominio».
Adesso siamo stati gettati a stabilire una cosmo-politica, una metamorfosi onto-politica, cambiare da tutti i punti la trama strutturante del capitale, prendere il presente, fare dell’adesso, il tempo dell’azione e dell’interazione etiche, delle alleanze molteplici per guadagnare tutta la forza di cui abbiamo bisogno perché non c’è un dopo. È il momento di configurare non un’unica cura, bensì molteplici, ma in una stessa vertente: sapremo quale è la dose adeguata? Non ci sono garanzie, ma dobbiamo tentarlo.
Traduzione di Antonino Infranca