Senso comune e fine dell’Utopia
Con la fine dell’impero sovietico il “mondo libero” ha perduto l’occasione storica per consolidare le democrazie parlamentari nate nel ‘900, uscite vittoriose dalla guerra. Leggendo quell’evento, in modo sommario e assai riduttivo, come vittoria del capitalismo sul comunismo, non ha fatto ciò che politicamente avrebbe dovuto: coniugare i valori liberali con quelli solidaristici del socialismo. Più concretamente, avrebbe dovuto proseguire nel modello della “Stato sociale”, attuando quella redistribuzione del reddito (diretta e indiretta) che era il puntello sul quale si erano erette e rette le democrazie parlamentari del secondo dopoguerra. All’interno di questa cornice ideale e politica si sarebbero potuti aggiornare culturalmente i partiti politici storici e si sarebbe potuta formare una classe politica adeguata. Non è stato così, appunto. Senza farla troppo lunga, dico solo che dagli anni ’90 in poi il “mondo libero” si è consegnato al capitalismo lobbistico e finanziario e ad una globalizzazione economico-produttiva che ha re-interpretato il “mercato liberale” in termini di “mercatismo liberista”. Conseguenza: dominio dei tassi di interesse sulle politiche sociali e precarizzazione del lavoro in termini di stabilità e di remunerazione. Con la delocalizzazione della produzione, la grande industria, anziché esportare benessere nei paesi poveri, ne ha volto a proprio vantaggio competitivo la povertà. E’ questo il contesto nel quale è “evaporata” la sovranità degli Stati nazionali e nel quale le istituzioni sovranazionali si sono affermate come carrozzoni tecnocratici. E’, così, “evaporata” anche la Politica, per come era stata costruita dal pensiero filosofico “occidentale”. Di qui, ancora, il crescere di un nuovo tipo di classe dirigente, sedicente anch’essa “politica”, ma senza la relativa cultura; capace, però, di negoziare interessi per successi immediati o comunque di breve periodo. Come contrappunto alla debolezza culturale di questa classe dirigente, sono emerse e si sono affermate quelle strutture definibili, appunto, come “centralistico-tecnocratiche”.
Le vicende di questo nostro presente ne sono la conseguenza. Su Brexit, Muri e, infine, Trump si sono spesi fiumi di inchiostro (si sarebbe detto un tempo) e di parole, certamente pregevoli. Si è parlato di populismi e di forze anti-sistema, in genere di “anti-politica”: concetti, tutti, che interpretano questi fenomeni avendo come riferimento ancora le categorie tradizionali della politica. Credo però che la questione possa trovare una spiegazione assai più “terra terra”, che va a cogliere il significato che i processi della globalizzazione capitalistica, non governati dalla Politica, hanno assunto nella mentalità corrente dell’uomo comune. Una realtà dominata dalla economia si traduce per lui nell’esperienza, semplice e di immediata percezione, che l’unica cosa che conta sono i soldi. L’altra faccia della medaglia è lo sfibrarsi del tessuto sociale, il decadere dei profili etico-solidaristici, mentre si irrobustiscono quelli legati ai diritti dell’ “individuo”, ed il perdersi dell’interpretazione simbolica dell’agire umano.
All’uomo comune non interessano i problemi del pianeta, i mutamenti climatici, i movimenti migratori di portata epocale, etc. Proprio perché tutto sta cambiando attorno a lui, il suo interesse, unico e decisivo, è badare esclusivamente ai “fatti suoi” (le dittature si sono rette così). Ciò che conta per un tale tipo umano è il suo “oggi” ed il “suo orto”. Per lui il futuro e lo spazio sono solo quelli riconducibili all’oggi e all’orto. Su questa base, è sufficiente che quei movimenti di potere, sedicenti politici, facciano dell’oggi e dell’orto di casa il loro cavallo di battaglia per vincere con facilità.
Su altro piano e da altro punto di vista, la questione può essere letta così: il nostro tempo è egemonizzato dal paradigma tecnologico che costituisce un vero e proprio sistema di pensiero, dal quale dipendono l’affermarsi di due modelli, quello ingegneristico e quello economicistico; modelli, entrambi, accomunati dall’idea di oggettività e di certezza dei risultati. Oggettività e certezza che sarebbero prodotte dall’affidare il ragionamento umano a procedure numerico-computazionali. Proceduralità e numerabilità garantirebbero l’oggettività dei risultati. Ho usato il condizionale, perché qui si cela un clamoroso errore epistemologico. Procedure e numeri sono, infatti, dipendenti da rappresentazioni del mondo prodotte dal soggetto; rappresentazioni del mondo che il soggetto chiama “realtà”. Insomma, l’oggettività numerico-procedurale ha, nella sua remota origine, una dimensione del tutto soggettiva. Comunque, è proprio questa rappresentazione del mondo che ha determinato quell’egemonia economicistica che ha fatto evaporare la politica e, prima ancora, ha operato una riduzione della cultura umanistica al modello procedurale, trasformandola in pensiero descrittivo-analitico-computazionale. E proprio questa “non-leggibilità” della cultura umanistica, in senso forte, da parte dei modelli tecnologicamente ispirati, ha determinato forme di standardizzazione del pensiero che hanno inciso negativamente sulla formazione della classe dirigente. Una classe dirigente, che è sempre più formata e allenata ad intercettare quell’ “oggi” e quell’ “orto” vincenti nel senso dell’uomo comune.
E qui emerge l’effettiva caratteristica del suo deficit culturale. Mi spiego. Le categorie spazio – temporali direttive per il senso comune non sono le medesime di quelle che costituiscono l’orizzonte culturale nel quale opera “il politico”, come categoria del pensiero. Al microcosmo dell’uomo appartengono quelle che ognuno può dominare con il proprio sguardo e con il proprio orizzonte mentale e quindi si fermano, inevitabilmente, alla comprensione della quotidianità (sia pure in senso ampio). Quelle proprie della politica, soprattutto nei tempi di mutamento, hanno ben altra qualità: in esse, il presente è solo uno snodo tra il passato, come storia acquisita, ed il futuro, come immaginazione possibile; e lo spazio non è l’orto di casa, ma il mondo. I partiti politici del ‘900 avevano assolto alla funzione di colmare, in qualche misura, lo scarto tra “microcosmo” e “macrocosmo”. Il riduzionismo operato dalla tecnologia sul sapere umanistico ha fatto perdere di vista, invece, la distinzione tra le due diverse categorie temporali, poiché esalta l’idea della percezione degli accadimenti in “tempo reale”, e, nella nuova forma mentis, scompare il peso della storia e l’immaginazione del futuro. La realtà che vale, l’unica rappresentazione del mondo da inseguire, è il “qui e ora”. Il tempo in cui l’utopia aveva alimentato la progettualità politica, non solo è un lontano ricordo, ma probabilmente quel senso della temporalità non è neppure conosciuto dall’attuale classe dirigente.
In definitiva, proprio quest’ultimo profilo, la perdita della categoria della temporalità, riassume in sé gli altri due aspetti di cui ho parlato: il “qui e ora” che innerva la naturale propensione del senso comune per “i soldi” e l’egemonia del paradigma tecnologico sul pensiero umanistico-politico.
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