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Amore o proiezioni?

di Susi Ferrarello

(California State University – East Bay)

traduzione di Miriam Borgia

 

Quando l’amore è dare ciò che non possiedi a qualcuno che non lo vuole

“Ti amo”, diciamo, e “mi sento amato da te”. Anche se commoventi, queste frasi risultano anche piuttosto enigmatiche. La loro elusività diventa ancora più evidente quando si sente questa stessa parola sognante – amore – usata in contesti molto più umili: “mmm…amo quel gelato!”; “amo fare esercizio ogni giorno.” Oppure, in scenari più frustranti e paradossali: “mi ha detto che mi amava, eppure mi ha lasciata”; “la amo, ma non sono innamorato di lei”.

Ma allora come dovremmo prendere l’amore? Cosa significa quando qualcuno esprime amore per noi o per qualsiasi altra cosa nella vita? Come dovremmo risolvere la “x” in questa equazione? Indica una funzione, un limite, un significato?

L’amore è un limite

Lacan userebbe la nozione di limite per descrivere l’amore. “L’amore è dare ciò che non possiedi”, dice. Ci innamoriamo delle persone che completano i nostri difetti. La vita del nostro partner rappresenta per noi un esempio per lavorare sulle nostre parti incompiute, per superare i nostri difetti, e alla fine completarci. Dichiarare il nostro amore per qualcuno ci rende vulnerabili perché nel dire “ti amo” io dico ciò che non sono ancora e ciò che ancora mi manca per diventarlo: io cerco di dare ai miei partner proprio quello che non ho. Nel percepire i miei limiti, l’amore diventa una finzione in cui cerco di impressionare la persona da cui voglio imparare impersonando qualcuno che non sono. Per questo, credo, è molto tipico dei testi delle canzoni e delle poesie attribuire una certa qualità salvifica all’amore. Nel cercare di soddisfare le aspettative che penso che i miei partner abbiano su di me, mi salveranno. Diventerò una persona migliore. L’amore è mosso da questo forte desiderio per il miglioramento, per la trasformazione, per il raggiungimento di quel senso di salubrità che spesso sembra sfuggirci. Nell’amore, io regalo ciò che non possiedo perché mi illudo che nel fare ciò alla fine io possa superare i miei limiti e diventare completo. È qui che risiede la grande contraddizione dell’amore:

  1. Nel tentativo di diventarlo ci frantumiamo in tanti pezzi (tanti quante sono le persone per cui proviamo dei sentimenti)
  2. Nel cercare di avvicinarci ai nostri cari non cogliamo la loro vera natura

Quando amare significa perdere la persona che amiamo

Nella finzione dell’amore, infatti, spesso ignoriamo noi stessi e la responsabilità che abbiamo per il nostro stesso benessere, e chiudiamo un occhio sulla vera natura del nostro/i nostro/i partner e sui loro reali bisogni. Semmai, ci allontaniamo di più da noi stessi e dai nostri partner. In una complessa dinamica di sacrificio, ci allontaniamo dai nostri veri desideri per compiacere i nostri partner, i quali infine diventano il segno delle nostre proiezioni. Per questo motivo, continua così la celebre frase di Lacan: “amare è dare qualcosa che non si ha a chi non lo vuole”. Nel mio lavoro di consulente filosofico sento spesso che i clienti si sentono rifiutati dai loro partner. Quello che mi colpisce è che spesso non si rendono conto che sono loro che stanno rifiutando i loro partner. Quando mi trovo davanti a questi casi e percepisco il loro livello di frustrazione crescere rapidamente, chiedo loro: “Potete, per favore, dirmi chi è il vostro partner? Puoi, per favore, descrivermi che tipo di essere umano è il tuo partner nel mondo?” Spesso coloro che soffrono di più sono anche i più a corto di una risposta: non possono vedere i loro partner perché sono troppo dediti nel dare loro qualcosa che non hanno mai chiesto, ovvero una versione convincente di se stessi che li farebbe sentire meno incompleti e vulnerabili.

In questa contraddizione, l’amore diventa una gabbia in cui i partner si sentono invisibili l’uno all’altro e incapaci di essere se stessi. A questo punto non può aver luogo alcun apprezzamento reciproco genuino. In questa gabbia di dolore, come direbbe il platonico Socrate, il prigioniero è «il principale complice della sua schiavitù». Questa è la gabbia della nostra psiche. In ogni sua parte, ci scontriamo con la vergogna dei nostri stessi limiti e bisogni. Qui incontriamo il tipo di amore paradossale che ho riassunto sopra nella frase: “La amo, ma non sono innamorato di lei”.

Come possiamo rompere la gabbia dell’invisibilità?

Come lasciare questa gabbia? Invece di rigirarti nella stessa gabbia e sentirti incapace di essere te stesso e di connetterti veramente con i tuoi cari, il passo successivo sarebbe capire quale parte incompiuta di te sta parlando e cosa sta cercando. Dal momento che io stesso sono quello con cui trascorrerò la maggior parte della mia vita, vale la pena iniziare a creare un legame compassionevole con me stesso e assumermi la responsabilità dello spazio che posso creare dentro di me per il mio miglioramento. Io chiamo questo primissimo legame philia, una parola greca che indica un legame compassionevole primordiale e intimo instaurato, in primo luogo, con noi stessi. Quella è la porta per accedere alla realtà e dissipare i fumi di quelle proiezioni così intricate.

La frustrazione in amore è insopportabile perché ci parla dei nostri limiti. Qualunque cosa ci irriti nei nostri partner, non dice nulla riguardo loro ma parla piuttosto di noi stessi. Per tornare ai miei clienti, quando le domande che pongo fanno suonare la campana dei loro limiti, allora la domanda essenziale diventa: perché ho deciso di sposarla? Perché non sono capace di amare questa persona o, ancora di più, me stesso? Alcuni traguardi importanti in una relazione – avere figli, costruire una casa insieme, condividere il tempo insieme – potrebbero trasformarsi in un inferno in terra se non abbiamo trovato un modo per far fronte al nostro senso di limite e di vulnerabilità e al fascio di proiezioni che ne scaturisce. Anche espressioni apparentemente innocue come “amo quel gelato” possono diventare una fonte infinita di miseria se usiamo quel gelato come un modo per riempire il vuoto in noi.

L’amore, quello sano, parte da una connessione intima che possiamo stabilire con la nostra realtà e, attraverso di essa, con la realtà delle persone che amiamo.