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Anno zero dell’era “dopo-Virus”?

di Lamberto Pignotti 

 

Peccato non aver potuto registrare una telefonata che ci siamo fatti, Bruno Montanari e io, dai rispettivi coatti domicili, a proposito di coronavirus, oggi e domani, se tutto dopo rimarrà come prima, insomma del futuro che ci aspetta. 

Sul finire del secolo scorso c’era una rivista,”Futuribili”, che ci dava con sicurezza le proiezioni e previsioni del tempo che avrebbe fatto. Tutte o quasi sballate. “Il corriere della sera” in quei tempi dava titoli a caratteri di scatola, tipo “Il 2000 sarà della petrolchimica”, cosa smentita di lì a poco dai fatti, alla stregua di Verne che si immaginava di arrivare sulla Luna sparando un proiettile da un gigantesco cannone. 

Io non credo che tutto sarà come prima, ma non credo neanche che tutto non sarà come prima. Gli ecologi auspicano peraltro che dopo, per acquisita consapevolezza, ci sarà meno inquinamento; io per ora mi limito a godere dell’aria buona che nel centro di Roma respiro come quella che respiravo un tempo a Vallombrosa. 

Gli anti-consumisti auspicano quel tanto di decrescita intelligente che la quarantena imposta dal virus ha suggerito: sfoltire guardaroba caotici, ridurre viaggi intasati e crociere affollate, rarefare prenotazioni di pasti dieteticamente pantagruelici… E quindi: quattro salti in padella casalinghi, e casalinghi quattro salti in casa anziché in palestra, e casalinghe acconciature anziché griffati coiffeurs… Beh, staremo – si spera – a vedere.

Da vedere ci sarà assai presumibilmente il passaggio, in qualche settore, dal planetario al locale, dal globalismo al glocalismo, insomma. La grande editoria internazionale che ci comunica ogni giorno la stessa notizia ben confezionata – Mc Luhan lo aveva detto per i giornali, Propp per le favole più o meno romanzate – verrà non soppiantata ma più verosimilmente affiancata dalla gazzetta di quartiere che sappia dire ai lettori cosa succede all’angolo di casa, e dall’opera di autori che sappiano interagire con i lettori, tramite linguaggi non omogeneizzati ma innovativi e sollecitanti. 

Ancora oggi, e da troppo tempo ormai, le fabbriche editoriali e la grande stampa –  i media pensionabili trainati da una decrepita politica – non fanno altro che affastellare storytelling e best-sellers e top-ten che sono venuti a noia financo a coloro che sono obbligati a commentarli per malcelato vassallaggio o per feriale compenso della pagnotta. La noia, l’insofferenza, l’Indigestione del già sentito dire e del già visto, darà modo di sentirne e di vederne delle belle… Occorre un linguaggio diverso, una grammatica da ri-creare, e intanto si sta affacciando un “Lessico resistente” come delinea con efficacia fin dal titolo, Antonio Cecere in  un libro (Edizioni Kappabit, 2019) in cui mi ha generosamente coinvolto.

Intanto il contesto è quello tratteggiato in questa sede da Bruno Montanari nel suo scritto a proposito di “Virus: una riflessione sconsolata”.

Sconsolato è il quadro che ne viene fuori, un “panorama preoccupante” che è divulgato dai media e da una classe politica all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di riduttivo gioco delle parti “per la gente” in cui l’informazione e la comunicazione risultano confezionate come dozzinali prodotti da supermercato.

Anche il coronavirus va fatto entrare in questo collaudato gioco. Gradatamente, per successivi maieutici spostamenti contestuali: c’era la crisi petrolifera? Noi si doveva parcheggiare l’auto la domenica. C’è l’inquinamento? Noi si deve andare a piedi per un giorno. C’è il coronavirus? E noi si sta a casa! “Insomma”, scrive Montanari, “ancora abitudine mentale alla superficialità e semplice immediatezza delle soluzioni. 

Siamo alla Replica Differente. Autoreferenziale, omologante e intenzionato a perpetuarsi gattopardescamente è il modello di sviluppo tratteggiato nel “panorama preoccupante” da Montanari. 

Che dunque tutto appaia nuovo, ma che di fatto tutto resti come prima? “Nihil sub sole novum”, titola qui il suo intervento Paolo Quintili. Il coronavirus entra prepotentemente in scena a turbare lo squilibrato stato in luogo di quel “modello di sviluppo capitalista iperliberista dell’ultimo trentennio” che ha prodotto proprio quello squilibrio nel rapporto fra le articolazioni che muovono cause naturali e strutture sociali.

Preso atto dell’emergenza virale, Quintili invita a “riattivare un’azione – non una semplice riflessione – critica nei riguardi del modello non più rinviabile. 

Tale invito prende slancio dal saggio di Alain Badiou incentrato “Sulla situazione epidemica”. Dove lo scarto di partenza appare subito fatto col piede sbagliato”. Ho sempre ritenuto che l’attuale situazione, segnata da un’epidemia virale, non aveva certo nulla di eccezionale”, esordisce l’autore; e più avanti, quando il soggetto evocato dal saggio è indubbiamente il “coronavirus”, conosciuto anche come COVID 19, o più esplicitamente denominato SARS 2: “Il vero nome dell’epidemia in corso dovrebbe indicare che esso dipende, in un certo senso, dal ‘niente di nuovo sotto il sole’ contemporaneo. Questo vero nome è SARS 2, ossia ‘Severe Acute Respiratory  Syndrom 2’, nome assegnato appunto all’attuale epidemia perché succeduta a quella del 2003, allora etichettata come 

SARS 1”. Tranquilli, insomma, anzi siccome proverbialmente sappiamo che non c’è due senza tre, chissà che sbadigli di noia faremo all’apparire del prossimo incomodo…

Nihil sub sole novum!, ma sì, per riprendere con piglio emblematico l’avvertito titolo dell’articolo di Quintili: vogliamo dimenticarci delle letterarie pesti di Boccaccio e Manzoni, non vogliamo dare uno sguardo retrodatato alla “spagnola”,  alla “asiatica”, al morbillo, alla tubercolosi, alla poliomielite, all’HIV, alla SARS 1?

Ma qualcosa di nuovo invece sta succedendo, quando si passa dalla astrazione numerica alla situazione individuale. Gli elenchi e i bollettini sorvolano, danno i numeri, anzi mentono, come per antifrasi mentiva il titolo del romanzo di Erich Maria Remarque  “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Elenchi e bollettini bellici o sanitari che siano sorvolano a proposito del caduto sul campo di battaglia o del defunto in corsia di ospedale.

Non lo dico per sentito dire, ma perché lo sento proprio io, hic et nunc, che le pestilenze di cui sopra si andava evocando ed enumerando –  da quelle mitiche e storiche e letterarie alla SARS 1 – o erano lontane nel tempo o erano distanti nello spazio. Però si dà proprio il caso che la SARS 2, o coronavirus, o Covid 19, lo sento io, qui e ora. Altro che pandemia abbastanza confortevole per il mondo occidentale,”fatto in se stesso privo di significato innovativo”. Qui, come altri, sto vivendo un’avventura da diluvio universale, da day after, mai vissuta prima dall’umanità.

Non mi era successo finora di fare un “Viaggio intorno alla mia camera” come De Mestre, né guardare sotto casa una piazza metafisica di De Chirico, né di scrutare dala finestra il “Deserto dei tartari” di Buzzati. Dove i tartari sono sì invisibili, ma anche tangibili, e tutto il mio corpo è indifeso e penetrabile a loro piacimento.

L’eccezionalità della situazione virale mi da modo, forse per antitesi, di trovare nelle espressioni di Badiou, quella carica spigolosamente sollecitante che spinge a raffigurarmi nella scena di uno che si appresta a correre un rischio con quella rete di protezione che è la fatalità.

Mi succedeva quando davo un esame: “male male sarò bocciato”, pensavo; mi succede quando prendo un aereo: “male male muoio” … Tutti modi per esorcizzare un’evenienza negativa. Badiou è lì a dirci che la fine del mondo, l’aborrita pandemia, tutto sommato è cosa di ordinaria follia comportamentale. 

Magari ci sarà da fare qualche adattamento, un ritocco: ci sarà da passare dal corporeo al virtuale e dal tangibile al digitale, ci sarà da ripensare, magari per diradarli, a quei vecchi sudaticci prosastici baci e abbracci, per  ripristinare, olograficamente, per streaming, in double life, via skype…, le più antiche poetiche evocazioni stilnoviste. Noli me tangere e vade retro… Del resto le amatissime Beatrice, Laura e Fiammetta non risulta che siano state sfiorate dai rispettivi spasimanti. Quando nel 2016 ho pubblicato da “Empiria”  la mia “New vita nova”, non ho fatto che evidenziare a dismisura la virtualità della “Vita nova” di Dante.

Il progressivo passaggio dal corporeo al virtuale, dal tangibile al digitale, dal globale al locale, non potrà non incrinare, per le contraddizioni che presenta, quel modello di sviluppo capitalista di cui parlano Montanari e Quintili. E qui entra in gioco con violenza il coronavirus e tornano anche particolarmente incisive le rilevazioni di Badiou a proposito degli “Stati nazionali che tentano di far fronte alla situazione epidemica, rispettando, per quanto è possibile, i meccanismi del capitale, benché la natura del rischio li obblighi a modificare lo stile e gli atti del potere”. Quegli Stati dovranno  “imporre, non soltanto, certo alle masse popolari, ma ai borghesi stessi, delle costrizioni considerevoli, e questo per salvare il capitalismo locale”.

Questa appare implicitamente come una sorta di chiamata alle armi di intellettuali e artisti con la quale Badiou incita a non rispondere ai vari SOS lanciati dal modello capitalista, globale o locale che sia. Una incitazione parallela si proietta anche  nel finale dello scritto di Montanari: “Occorre tornare a ‘ragionare’ emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo dei rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato”.

Ne risultano nel complesso parole non più genericamente astratte, ma  fattualmente partecipi di una modalità critica in corso, di una articolazione agevole di pensiero, di una filosofia movimentata e protesa a  porre una rinnovata scorrevole segnaletica nel labirinto di quella “Comunicazione nella società ipercomplessa” (questo è il titolo del bel libro di Piero Dominici, pubblicato da Franco Angeli nel 2011, al quale  rimando) in cui dall’era “avanti-Virus” siamo condizionati, intrappolati e oppressi.

I lavori in corso avvisano che sono chiusi al traffico l’antico vicolo del Dernier Cri, la sconquassata scorciatoia del Revival e la dissestata bretella del Neo-post-modernismo. Evitando la rotatoria dell’ennesima Replica Differente, se riusciamo a scavalcare il prossimo dosso, aguzzando lo sguardo forse si potrà cominciare a scorgere in questo anno Zero, la nuova era, quella del “dopo-Virus”.

Autorità –  Tecnica – Virus: una riflessione sconsolata

di Bruno Montanari

Questa che stiamo vivendo è una condizione che ha un suo radicamento profondo, al quale la società italiana non ha fatto attenzione, per la ragione che non aveva motivo di farne dato un qualche benessere e la sostanziale libertà in cui è vissuta dagli anni del dopoguerra in poi. Con gli anni ’90, per ogni cosa che si doveva fare o non si poteva fare si è detto che “c’era l’Europa”, la BCE; poi sono venuti i sovranismi, i populismi e via discorrendo. Tutte cose che, in maniera più o meno visibile, creavano la pratica, individuale e collettiva, e l’audience dei media nelle loro forme, cartacee, digitali, eteree, … . La “gente” si è conformata al modello tecnologico-comunicativo e non ha mai prestato attenzione più di tanto alle sue conseguenze; anzi, non si è accorta che le conseguenze nel frattempo si producevano nelle abitudini relazionali di ciascuno di noi. Di recente un certo allarme in Italia è stato sollecitato dai migranti; allarme contenuto dentro i vaneggiamenti più o meno rumorosi di una perenne campagna elettorale. Non è senza significato come la malattia del sondaggismo elettorale, che, se non altro, dovrebbe essere indizio di una grande attenzione alla partecipazione politica quotidiana del cittadino, si accompagni invece all’alta percentuale di astensionismo che incide sul significato rappresentativo delle percentuali che vengono rilevate. Una sorta di strabismo di cui nessuno parla. Come nessuno sottolinea la pochezza culturale della classe dirigente nel suo complesso, che non conosce le regole giuridiche di cui è innervata la politica in uno Stato di diritto; non le conosce o, anche quando potrebbe, le ignora, tanto ormai per il cittadino comune le Istituzioni non contano più. Anzi, non si sa bene neppure quali siano e quale sia loro competenza.

Quanto poi al livello geo-politico ci troviamo di fronte ad una Europa non politica, dominata dallo spread; dominata cioè da chi presta i soldi, distinguendo, per premiare o punire, i virtuosi dagli spendaccioni; un’Europa stretta e strapazzata tra gli Stati Uniti, la Russia, la agognata egemonia mediterranea della Turchia e la costante e gravissima crisi che attraversa i paesi arabi. Un’Europa drammaticamente incapace di una qualsiasi politica internazionale. E poi la Cina: una dittatura all’interno e uno spregiudicato capitalismo all’esterno, per mezzo di una politica dei prezzi favorita dal bassissimo costo del lavoro.

E poi c’è tutta la questione epocale legata all’ “antropocene”, che alla “gente” arriva sotto la forma della questione climatica, sulla quale peraltro c’è chi fa delle speculazioni negative interessate, e l’inquinamento. Il tutto, nella pratica ordinaria, si risolve nelle “domeniche a piedi”, che ovviamente non risolvono un bel niente. Insomma, ancora abitudine mentale alla superficialità, estemporaneità e semplice immediatezza delle soluzioni; senza parlare del tasso di incompetenza che le sostiene.

Un panorama estremamente preoccupante, ma che viene divulgato dai media all’interno di un pensiero costruito attraverso una sorta di “gioco delle parti”, il cui fine è raccontare, anche litigare apparentemente (il gioco delle parti, appunto), per attrarre e soddisfare un  uditorio senza invece educarlo ad una comprensione critica della realtà, proprio perché attraverso un racconto ed una polemica pilotati si fornisce a priori al fruitore medio il quadro delle affermazioni possibili, tra le quali egli deve limitarsi a scegliere. Insomma, i processi informativi e comunicativi propongono idee, anche diverse ma già confezionate secondo standard facilmente fruibili, che il destinatario deve scegliere come un prodotto al supermercato. Conseguenza: disabitudine a pensare con la propria testa e disattenzione alle cose serie, poiché tanto la vita di ogni giorno prosegue senza scosse e ognuno può continuare a vivere anche il giorno dopo, nell’agio o anche nel disagio, la vita che ha vissuto fino a quel momento, dove tutto si tiene in un generico e “liquido” equilibrio dove è facile ignorare, se si vuole, i dolori, i disagi, i drammi privati e pubblici che attraversano la società ed il genere umano in ogni parte del mondo.  

Insomma abbiamo vissuto (mi limito all’Italia) in una condizione di assoluta superficialità mentale, solleticando il proprio IO con l’ausilio di tutti gli strumenti che il progresso tecnologico ha messo a disposizione di tutti, indipendentemente dalle capacità di comprensione critica delle quali ciascun cittadino fosse dotato, per età e per condizione socio-economico-culturale. Si è venuto a creare quella che ho più volte definito una situazione di individualismo egoistico di massa.

Il Coronavirus ha cambiato la scena, con una progressione impressionante. L’Europa ha mostrato tutti i suoi limiti e la sua soggezione ai poteri finanziari: dalla affermazione della Lagarde alla divisione su quali misure adottare per far fronte alla crisi produttiva dei paesi colpiti. Crisi produttiva che significa crisi del lavoro, delle fabbriche, dei sistemi professionali collaterali, delle attività artigianali poste in essere da persone singole o con i familiari, degli apparati amministrativi incapaci, per cattiva abitudine e formazione, a fronteggiare situazioni emergenziali, e così via. D’altra parte, la non ricostruzione dopo i terremoti l’aveva fatto ben vedere, ma i più potevano ignorarlo, perché lì il male non era contagioso. Il Coronavirus, invece, è contagioso e non riusciamo ad ignorarlo. C’è poi la non qualità né autorevolezza pubblica della classe politica, che abituata alla campagna elettorale permanente, costruita solo per andare al governo, non ha sviluppato alcuna capacità di governo, a cominciare dal reclutamento delle persone, e abituando il cittadino destinatario a confondere la politica con il diventare semplice “seguace” dell’uno o dell’altro personaggio, mediaticamente più esposto e attraente. Classe politica che ora si trova a fronteggiare a livello interno (ma, ovviamente, non solo) una situazione che non si può far passare sotto silenzio. Allora, la risposta che appare più semplice, anche perché è l’unica che sembra potersi dare, sia per l’obiettiva e inedita difficoltà delle situazioni alle quali questa generazione di decisori non è formata, sia per la ingovernabilità dei comportamenti delle persone, in quanto collettività “liquida”, consiste nel pomparne la pericolosità al massimo grado, in modo da terrorizzare i governati. Ciò consente, infatti, di adottare, secondo il modello della semplificazione, provvedimenti puramente interdittivi e restrittivi, che colpiscono la libertà delle persone senza tentare, invece, di indurle a ragionare, e che mettono a terra l’economia di un paese. Il tutto, senza mostrare di avere la dovuta attenzione a come il protrarsi del “tempo”, oltre l’immediato, inciderà sulla tenuta psicologica dell’ambiente umano cui quei provvedimenti si dirigono. 

E’ una operazione che tocca due profili. Quello interno della tenuta dello Stato costituzionale di diritto, poiché per l’urgenza si opera con provvedimenti di discutibile configurazione giuridica; inoltre si registra, almeno in Italia, una foga decisoria che porta a trascurare le competenze costituzionali delle varie istituzioni: Sindaci, Governatori, Governo ognuno va per conto suo su oggetti che colpiscono beni della persona costituzionalmente garantiti. Faccio un esempio: può un Sindaco emanare una ordinanza con la quale si ricorre ai droni per controllare lo spostamento delle persone; qui non in questione la privacy, ma il diritto costituzionale di libertà, sul quale solo un atto con i crismi della costituzionalità può incidere. Ma non sembra che i media sottolineino questa stortura del sistema; anzi la declassano ad una violazione della privacy, che in una simile drammatica situazione si può tollerare e che, in fondo, non è dissimile dalla “normale” interferenza nella vita privata cui ci hanno abituati i dispositivi di localizzazione dei cellulari.

Insomma, la drammaticità del contagio sta mettendo a nudo la debolezza e la incompetenza più o meno consapevole delle istituzioni, l’arroganza di potere propria degli occupanti e, infine, l’assoluta ingovernabilità delle persone che non conoscono più il vivere insieme. Soprattutto ciò che è emerge è la disabitudine ad un qualcosa che dovrebbe essere assolutamente evidente: e cioè che ognuno di noi è un IO e allo stesso tempo un TU. Infatti ogni IO è un TU per l’IO dell’altro. Quindi occuparsi del TU da parte di ciascuno di noi in quanto IO, dovrebbe essere una questione di “vantaggio interessato” prima ancora che di solidarietà etica. I soli che stanno dando prova di vera dedizione sociale sono colo che sono più esposti al  pericolo: i sanitari; a questi occorre aggiungere quelle istituzioni sociali, del cosiddetto “terzo settore”, che hanno sempre colmato i vuoti della amministrazione pubblica.

La situazione che ho rapidamente descritto, dove la dimensione sociale, fatte le eccezioni che ho sopra ricordato, mostra la superficialità in cui siamo vissuti negli anni che abbiamo alle spalle e la governabilità si traduce in un potere esercitato in modo contraddittorio con quello che dovrebbe essere il costume sociale di un paese democratico-liberale, determina un evaporare della politica e della sua capacità progettuale, unitamente ad una subordinazione degli Stati alla finanza. C’è, allora, da chiedersi: cui prodest

Se guardiamo alla globalizzazione tecnologico-finanziaria, il cui prodest riguarda quest’ultima. La finanza è strutturalmente contro-interessata alla politica, nel concetto che le è proprio; il fine assoluto della finanza è, infatti, il guadagno speculativo, che per natura è privo di scrupoli sociali e la cui realizzazione si materializza nella immediatezza (la scommessa). Il potere tecnologico-finanziario ha bisogno, per affermarsi, di strutture di governo politico nazionali o sovranazionale deboli e sufficientemente autoritarie (basti vedere la deriva autoritaria in importanti paesi), compatibili soprattutto con la funzione di guida delle tecnocrazie.

Questo mi sembra lo scenario, la cui drammaticità è fuori discussione. La via di uscita, se la si può immaginare, consiste nella acquisizione della “lezione “ che la storia ha impartito alla cosiddetta “società liquida”, affinché ciascuno di noi raggiunga una maturità comportamentale che si attui attraverso la consapevolezza che solo il saper “stare insieme”, la capacità del dialogare e del guardarsi negli occhi può raggiungere, contro ogni apparenza immediata di gratificazione individualistica. Occorre tornare a “ragionare”, emancipandosi dalla abitudine a seguire in modo acritico quel mondo di rumori verbali che il mondo dei media, nel loro insieme, diffonde ad un ritmo frenetico e incontrollato.