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Sistemi elettorali e rappresentanza politica. Considerazioni a margine dell’ “Italicum”

di
Gabriele Molinari

 

Premessa.

I sistemi elettorali servono a trasformare le opinioni politiche esistenti all’interno di una comunità (anch’essa quindi, appunto, politica) in rappresentanze elettive.
Nel perseguire questo scopo i predetti sistemi devono garantire – almeno in linea teorica – che gli eligendi organi complessi (ovvero quelli collegiali; il problema naturalmente non si pone per le cariche monocratiche) possano correttamente assolvere all’esercizio della propria funzione deliberativa.
Tanto meglio riescano a provvedervi – quindi nella conseguente determinazione di definite e stabili maggioranze assembleari – tanto più sarà perseguito e raggiunto l’obiettivo primo di ogni comunità politica, ovvero il governo della stessa.

Il presente lavoro, tuttavia, non si propone solo di indagare la relazione esistente tra i predetti sistemi (nelle loro diverse tipologie) e i livelli possibili di governabilità, quanto pure di stabilire quale sia e come si configuri, a seconda dei modelli adottati, il rapporto tra le rappresentanze elettive – ed in specie quelle parlamentari – e gli interessi portati dal corpo elettorale.
L’interesse a questa riflessione muove dalla considerazione del fatto che il sistema maggioritario e quello proporzionale, per loro intrinseca natura, generano una diversa rappresentazione elettiva di quegli interessi, ed un ancor più diverso bilanciamento dei medesimi.
Soprattutto, l’interesse muove dai recenti sviluppi dell’attività parlamentare, dal momento che si sta discutendo un disegno di legge di revisione costituzionale e che è stato approvata una nuova legge elettorale, entrambi destinati a modificare radicalmente l’ordinamento della Repubblica.
La variazione del sistema elettorale induce a verificare l’eventuale, corrispondente, sussistenza di una variazione nel meccanismo di rappresentanza istituzionale.

 

Introduzione. I sistemi elettorali.

Prima di ogni considerazione, è utile ricapitolare le caratteristiche dei sistemi elettorali vigenti nelle principali democrazie del mondo.

La tipologia più semplice è la legge proporzionale: ciascun partito ottiene una quantità di seggi in Parlamento in base al numero di voti ottenuti. Si afferma generalmente che il sistema proporzionale garantisca appieno la rappresentanza dell’elettorato, ma è il meno idoneo ad assicurare la governabilità. In effetti, in una democrazia parlamentare – in cui il Governo ha bisogno della fiducia del Parlamento – l’azione di governo può avere un indirizzo univoco solo qualora un insieme di partiti, compatibili fra loro sul piano ideologico e programmatico, ottenga la maggioranza assoluta dei voti. In caso contrario, il Governo dovrebbe contare su una maggioranza parlamentare eterogenea, con il rischio che i veti incrociati rendano impossibile l’assunzione delle necessarie scelte.
Per attenuare gli effetti negativi in termini di governabilità, è possibile adottare alcuni correttivi, generalmente mirati alla diminuzione quantitativa dei partiti rappresentati in Parlamento, con conseguente aumento dei seggi attribuiti ai partiti maggiori.
Il principale rimedio è lo sbarramento: solo i partiti che superano una soglia numerica di voti possono ottenere seggi in Parlamento. Così dispone, ad esempio, la legge elettorale vigente in Germania: i partiti che, a livello nazionale, ottengono più del 5 per cento si spartiscono i seggi della Dieta federale. Analogo sistema è adottato in Russia, ove è necessario ottenere il 7 per cento per accedere alla Duma; sono comunque riservati seggi in numero fisso per i partiti compresi fra il 5 e il 7 per cento dei voti.
Un’alternativa consiste nell’assegnare i seggi non su base nazionale, ma all’interno delle circoscrizioni elettorali. Poiché in ciascuna di esse è assegnato un numero limitato di seggi, il numero di partiti che accederanno alla distribuzione dei seggi risulta inferiore. Così prevede la legge elettorale in Spagna.
In Italia, dal 1948 al 1993, la legge elettorale era di tipo proporzionale, senza sbarramento. Più esattamente, i senatori erano eletti in collegi uninominali: la legge prevedeva l’elezione diretta del candidato vincente in ciascun collegio, a patto che questi raggiungesse il 65 per cento dei consensi; in mancanza, i seggi erano ripartiti secondo il metodo proporzionale. In seguito al referendum abrogativo del 1993, il Parlamento, con due successivi interventi legislativi, ha introdotto il metodo maggioritario. Nel 2014, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla legge elettorale, dichiarando l’illegittimità di alcune disposizioni; il risultato è una legge proporzionale, con sbarramento del 4 per cento alla Camera e dell’8 per cento al Senato; è previsto uno sbarramento inferiore per le liste coalizzate, ma l’assenza di un premio di maggioranza non incentiva la formazione di coalizioni. Come vedremo, a partire dal 1 luglio 2016, questa legge non sarà più in vigore per l’elezione della Camera dei deputati.

Se i sistemi proporzionali, più o meno corretti, assicurano piena tutela alla rappresentanza elettorale a scapito dell’univocità dell’azione di governo, avviene l’inverso nel caso dei sistemi maggioritari.
Il più diffuso fra essi è il maggioritario di collegio. Il territorio nazionale è suddiviso in circoscrizioni elettorali, in numero pari ai parlamentari da eleggere (i cc. dd. “collegi uninominali”), di modo che ogni partito presenti, per ogni circoscrizione, uno e un solo candidato. Poiché il seggio in palio in ogni collegio è uno solo, e uno solo sarà il candidato eletto: questo sistema avvantaggia – in linea di principio – i partiti che sono in grado di raccogliere una quantità di voti sufficienti a garantire loro la maggioranza.
Sono possibili diversi metodi per determinare la maggioranza necessaria all’elezione. Laddove vige il c.d. first past the post voting, è eletto, in ciascun collegio, il candidato che ottiene la maggioranza relativa.
Questo tipo di sistema maggioritario è tradizionalmente adottato negli Stati di tradizione anglo-americana: Regno Unito e Stati Uniti d’America; Canada, India, Sudafrica. Inoltre, è stato introdotto anche in Italia, fra il 1993 e il 2005[ref]Leggi nn. 276 e 277 del 1993 (cc.dd. leggi Mattarella o “Mattarellum”), poi radicalmente modificate dalla legge n. 270/2005.[/ref], con una variante: la legge italiana assegnava il 75% dei seggi in collegi uninominali, distribuendo i restanti – secondo un criterio proporzionale – tra i partiti che superavano il 4 per cento dei voti.
È evidente come un siffatto sistema elettorale sacrifichi la rappresentanza. Innanzitutto, il maggioritario first past the post consente di attribuire la maggioranza assoluta a un partito, a condizione che questo disponga di una maggioranza relativa di voti, omogeneamente distribuita sul territorio; in astratto ciò è possibile anche qualora il partito in questione sia molto distante dalla maggioranza assoluta[ref]Nel 2005, alle elezioni per il rinnovo della Camera dei comuni nel Regno Unito, il Partito Laburista ottenne 355 seggi su 646, con il 35,2% dei voti.[/ref]. Addirittura, in alcuni casi-limite, questo sistema può agevolare la formazione di un governo guidato da un partito privo della maggioranza relativa[ref]Nel 1948, alle elezioni parlamentari in Sudafrica, il Partito Nazionale Riunificato ottenne il 45.5% dei seggi con il 37.7% dei voti; lo United Party, il 42.5% dei seggi con il 49.2% dei voti. La maggioranza parlamentare eletta nel 1948 – formata dal partito vincitore e da un partito minore, l’Afrikaaner Party – diede l’avvio alla politica di segregazione nota come apartheid.[/ref]. Del resto, il maggioritario nasce nei contesti politici britannico e statunitense, laddove – in origine – la competizione era limitata a due partiti, uno dei quali necessariamente destinato a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti e, di norma, anche la maggioranza assoluta dei seggi.
A ciò si aggiunga che il maggioritario di collegio rafforza la rappresentanza di partiti il cui consenso è scarso a livello nazionale ma particolarmente concentrato in un’area geografica determinata.
A fronte di ciò, paradossalmente, questo maggioritario “secco” non assicura neanche la governabilità. Dal momento in cui ogni voto è potenzialmente decisivo per conquistare la maggioranza relativa – e, di conseguenza, l’elezione nel collegio – i partiti maggiori saranno incentivati alla ricerca di un accordo con i partiti minori. Il sistema maggioritario, dunque, favorisce la formazione di coalizioni.
In alternativa, si ricorre alla c.d. “desistenza”: in un certo numero di collegi, uno o più partiti minori ritirano le proprie candidature, dando indicazione di voto per un partito più forte, il quale a sua volta farà altrettanto in altri collegi. Ne consegue che, con il maggioritario tradizionale, le probabilità che i partiti piccoli e medi siano rappresentati in Parlamento – condizionando le scelte degli altri partiti – restano ferme, e anzi, potenzialmente, aumentano rispetto a quanto accadrebbe adottando un sistema proporzionale corretto[ref]Il caso italiano è eloquente. Le elezioni del 2001 furono le ultime svoltesi con il sistema misto previsto dalla legge Mattarella. Il 25% dei seggi attribuito con la quota proporzionale fu distribuito fra 5 partiti. I partiti presenti alla Camera dei deputati, all’inizio della legislatura, erano 13: infatti, i partiti minori avevano eletto i loro rappresentanti nei collegi uninominali, sotto le insegne delle due principali coalizioni.[/ref]; un partito con il 2 per cento dei voti non potrà mai essere rappresentato in un sistema proporzionale in cui lo sbarramento sia fissato al 5 per cento, mentre potrà esserlo in un sistema maggioritario, laddove raggiunga un’intesa con altri partiti.
Per di più, gli accordi sono conclusi “al buio”: nel quadro di una coalizione, o di un patto di desistenza, i seggi spettanti ai partiti piccoli e medi sono assegnati senza conoscere il loro reale peso politico. Il risultato è che, in taluni casi, questi partiti possono ottenere seggi in misura ben superiore ai loro voti, dando origine ad una ulteriore distorsione della rappresentanza, che si affianca a quella che avvantaggia i partiti maggiori, ma che non è giustificabile con le esigenze della governabilità, e anzi è dannosa anche sotto questo profilo[ref]In Italia, all’inizio della XII legislatura, il gruppo più numeroso presso la Camera dei deputati era quello della Lega Nord, la quale, con l’8,3% dei voti, aveva eletto 117 deputati su 630 (18.6%).
La Lega Nord uscì dalla coalizione di governo pochi mesi dopo le elezioni, determinando la formazione di una diversa maggioranza a sostegno di un governo tecnico.
Nel 2001, il gruppo del CCD e dei CDU contava su 40 deputati (il 6.3% dei seggi) a fronte del 3.2% dei voti; il gruppo di Alleanza Nazionale, su 99 deputati (15.7% del totale) con il 12.0% dei voti.[/ref].
Un rimedio parziale agli inconvenienti del maggioritario first past the post è rappresentato dal maggioritario di collegio a doppio turno, come quello previsto per l’elezione dell’Assemblea Nazionale in Francia. In ogni collegio, è immediatamente eletto il candidato che raggiunge la maggioranza assoluta dei voti: 50 per cento, più uno. Qualora ciò non avvenisse, gli elettori di quel collegio saranno chiamati ad un secondo turno elettorale (ballottaggio) al quale accederanno solo i candidati che ottengono una determinata quantità di voti[ref]In Francia, il ballottaggio è riservato ai candidati che, in ciascun collegio, raggiungono una quantità di voti pari al 12,5% degli iscritti nelle liste elettorali.[/ref]: il candidato che avrà il maggior numero di voti sarà eletto.
In termini di rappresentanza, va segnalato che il doppio turno impone ai partiti maggiori di ottenere voti in una misura pari alla maggioranza assoluta al primo turno, e – quantomeno – vicina alla maggioranza assoluta nel ballottaggio: non è più sufficiente la maggioranza relativa in sé. Nondimeno, proprio per questa ragione, questo tipo di sistema maggioritario accresce il potenziale dei partiti più forti, i quali, al ballottaggio, potranno disporre di quei voti che, al primo turno, erano stati tributati ai partiti piccoli e medi. Pertanto, al prezzo di un ulteriore detrimento per la rappresentatività, il maggioritario di collegio a doppio turno apporta visibili benefici alla governabilità, assunto che essa dipende – in ogni caso – dallo stato di salute del sistema politico[ref]Nel 1993, alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale francese, la coalizione RPR-UDF (neogollisti e liberali) vinse con una maggioranza di 472 seggi su 577, pari all’81.8% dei seggi: al primo turno, la coalizione vincente disponeva del 43.3% dei voti; al secondo, del 58.0%. La legislatura non giunse alla sua scadenza naturale: il Presidente Chirac sciolse l’Assemblea nazionale nel 1997, con un anno di anticipo.[/ref]. Resta fermo che i partiti maggiori necessitano, anche in questo caso, di concludere accordi con i partiti piccoli e medi, il che favorisce il ricorso alle desistenze e la formazione di coalizioni[ref]Alle elezioni francesi del 2012, l’Alliance centriste, partito della coalizione di centro-destra, ha eletto 2 deputati, con lo 0.6% dei voti al primo turno. Il Front national, che non ha stretto alcun accordo con altri partiti, ne ha eletti altrettanti, con il 13.6% dei voti al primo turno.[/ref].

È importante rilevare che il maggioritario di collegio non è l’unica tipologia di legge elettorale maggioritaria[ref]Allo stesso modo, peraltro, esistono sistemi proporzionali che prevedono l’esistenza di collegi uninominali.
In Germania – come si è già scritto sopra – l’attribuzione dei seggi del Bundestag a ciascun partito avviene integralmente secondo il metodo proporzionale, tenuto conto di una soglia di sbarramento. Tuttavia, anche la legge elettorale tedesca prevede l’esistenza di collegi uninominali – pari alla metà dei parlamentari da eleggere – con la finalità di determinare i candidati che saranno eletti. L’altra metà dei candidati si presenta in liste circoscrizionali, senza che ci sia possibilità di esprimere una preferenza per qualcuno di essi: i candidati sono eletti secondo la loro posizione all’interno della lista, posizione prestabilita nel momento in cui la lista viene presentata (cc. dd. “liste bloccate”). L’elettore ha a disposizione due voti: uno per i candidati nei collegi, un altro per i candidati nelle liste circoscrizionali.
Innanzitutto, sono ammessi al riparto dei seggi anche i partiti che, pur non raggiungendo la soglia di sbarramento, riescono ad eleggere candidati in tre collegi uninominali.
Inoltre, tutti i candidati che ottengono la maggioranza relativa nei rispettivi collegi ottengono un seggio al Bundestag. A quel punto, occorre confrontare la quantità dei seggi spettanti a ciascun partito – i quali sono sempre calcolati in base al sistema proporzionale – con il numero dei candidati di quel partito che vincono la competizione nei collegi.
Se i primi sono inferiori ai secondi, i rimanenti seggi sono assegnati ai candidati delle liste circoscrizionali bloccate, ovviamente in base alla loro posizione nella lista: se restano da assegnare X seggi, saranno eletti coloro che sono candidati nelle prime X posizioni.
Nel caso inverso, i candidati eletti nei collegi saranno comunque eletti. Questo è possibile, in quanto il numero dei deputati del Bundestag non è stabilito in misura fissa, bensì in misura minima (598). A titolo di esempio, qualora un partito dovesse ottenere 200 seggi in base al riparto proporzionale, ma riuscisse a ottenere la maggioranza in 250 collegi uninominali, quel partito eleggerà al Bundestag 50 deputati in più; essi saranno qualificati come “mandati in sovrannumero” (Überhangmandaten) e saranno aggiunti al numero complessivo dei deputati da eleggere, che non saranno più 598, ma 648 (598+50).[/ref].
Si può adottare il criterio maggioritario anche laddove la legge elettorale preveda l’esistenza di liste plurinominali di candidati e il riparto dei seggi sia proporzionale ai voti di ciascuna lista, a condizione che una quota di seggi sia sottratta al riparto, e venga attribuita alla lista che ottiene il maggior numero di voti (c.d. “premio di maggioranza”).
È su questo metodo che si fonda la legge elettorale italiana, recentemente approvata dal Parlamento e promulgata dal Presidente Mattarella[ref]Legge n. 52 del 2015 (Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.105 del 8-5-2015).[/ref]: l’“Italicum” (e, prima ancora, il “Porcellum”).

Nel caso del c.d. “Italicum” – come nel caso della legge n. 270/2005, il c.d. “Porcellum” – i seggi del premio di maggioranza non sono determinati in numero fisso; sono pari alla differenza fra il 55% dei seggi totali della Camera – i quali sono sempre assicurati alla lista vincente – e i seggi che spetterebbero alla lista di maggioranza relativa se si adottasse il criterio proporzionale.
Dal momento che, con la sentenza n. 1/2014, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del “Porcellum”, vale la pena illustrare le differenze fra la legge del 2005 e l’attuale.
Il “Porcellum” – come anticipato – si fondava sul principio del premio di maggioranza, assegnando il 55% dei seggi alla lista, o alla coalizione di liste, che otteneva la maggioranza relativa. Al Senato il premio di maggioranza era assegnato alla coalizione vincente su base non nazionale, bensì regionale; questa disposizione rendeva difficoltoso individuare un vincitore a livello nazionale: in due occasioni – XV e XVII legislatura – impediva la formazione di una maggioranza univoca al Senato. La legge incoraggiava la formazione di coalizioni, prevedendo una soglia di sbarramento inferiore per le liste coalizzate. Gli eletti erano individuati sulla base di liste bloccate in 27 circoscrizioni – nel caso della Camera – e in 20 circoscrizioni coincidenti con le Regioni, nel caso del Senato.
Come anticipato, la Corte Costituzionale ha giudicato illegittimo un simile premio di maggioranza. Il principio della sovranità popolare ex art. 1 Cost. – nonché il disposto dell’art. 67 Cost.: i membri del Parlamento hanno la funzione di rappresentare la Nazione – vieta un’eccessiva alterazione della rappresentanza, nonostante il legislatore possa legittimamente perseguire l’obiettivo di agevolare la formazione di una maggioranza stabile e coesa. Ne deriva che la legge elettorale non può attribuire la maggioranza assoluta a una forza politica il cui consenso corrisponda ad un’esigua maggioranza relativa nel voto popolare, e tanto meno può farlo senza richiedere alla lista o alle liste di maggioranza il conseguimento di una soglia minima di voti[ref]“In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della ‘rappresentanza politica nazionale’ (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
Inoltre, la Corte ravvisa un ulteriore profilo di illegittimità nel premio di maggioranza “regionale” assegnato al Senato. Vero che – ex art. 57, comma 1, Cost. – il Senato “è eletto su base regionale”. Nondimeno, poiché il sistema istituzionale delineato dalla Costituzione del 1948 è fondato sul principio del bicameralismo paritario – in relazione alla funzione legislativa e al rapporto fiduciario con il Governo – non è ammissibile che il legislatore consenta il rischio della formazione di maggioranze diverse fra i due rami del Parlamento[ref]“Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.”. Corte Costituzionale, sentenza 13-I-2014, n. 1.[/ref].
L’ “Italicum” adotta, a sua volta, il sistema del premio: la lista di maggioranza ha diritto al 55% dei seggi della Camera dei deputati; nella proposta, però, non è più prevista la possibilità che le liste si coalizzino. Non è più disciplinata l’elezione del Senato della Repubblica, dal momento che il Parlamento sta discutendo una proposta di revisione costituzionale volta a trasformarlo in Camera non elettiva. La legge entrerà in vigore alla data dell’1 luglio 2016[ref]Art. 1, comma 1, lettera i), legge n. 52/2015.[/ref]. Il legislatore presume che, in quel momento, il processo di revisione costituzionale si sarà già concluso.

Resta da verificare se la scelta del legislatore di ricorrere nuovamente al premio di maggioranza sia o meno coerente con le affermazioni della Corte Costituzionale.
In effetti, l’ “Italicum” condiziona il premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti, fissata inizialmente al 37 per cento e, in seguito, al 40.
A taluni critici ciò non sembra sufficiente a superare le perplessità che la Consulta aveva espresso sul “Porcellum”.
Si ricorda che la legge Acerbo – approvata dal Parlamento nel 1924, su proposta del Governo Mussolini – assegnava un abnorme premio, pari al 66 per cento dei seggi, alla lista di maggioranza assoluta, ma solo qualora questa non ottenesse meno del 25 per cento dei voti. Un’eventuale riedizione della legge Acerbo sarebbe da considerarsi legittima, sapendo che essa consente “ad una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea”? Cosa si intende per “molto ridotta”? Esiste un parametro oggettivo di tipo matematico per stabilire se il premio rispetta o meno il principio di proporzionalità, o questa valutazione è affidata al solo buon senso del giudice costituzionale?
Stante l’impossibilità di una risposta univoca a questa domanda, l’introduzione della soglia minima non aiuta a dissipare i dubbi sul premio di maggioranza. Sotto questo profilo, però, il reale elemento di novità risiede in un’altra disposizione dell’ “Italicum”, laddove si stabilisce che – qualora nessuna lista raggiunga la soglia – il premio venga assegnato in un secondo turno elettorale, al quale hanno diritto a partecipare la prima e la seconda lista per numero di voti. Così, si impone che la lista di maggioranza abbia il 50 per cento più uno dei votanti al ballottaggio: una maggioranza assoluta dei voti, per la maggioranza assoluta dei seggi. Il ballottaggio, insomma, introduce una rilevante differenza qualitativa rispetto al “Porcellum”. Infatti, cambia la natura della maggioranza richiesta per accedere al premio: da relativa ad assoluta.
Inoltre, diversamente dal maggioritario di collegio, l’ “Italicum” assicura la rappresentanza parlamentare anche per i partiti che non avrebbero, in alcuna area geografica, un numero di voti sufficiente per conquistare un seggio. Ne consegue un rafforzamento del pluralismo parlamentare: e, altresì, una riduzione dei seggi per i partiti che, pur godendo di scarso consenso su scala nazionale, sono fortemente insediati a livello locale, partiti generalmente avvantaggiati dal maggioritario di collegio a turno unico[ref]In tal senso, è eloquente – per citare il caso più recente – il risultato dello Scottish National Party alle elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni britannica, tenutesi il 7 maggio 2015.[/ref]. Si tratta di un elemento positivo, se si considera che la sovranità appartiene al popolo, e non ai singoli territori.
Infine, l’ “Italicum” – come anche il “Porcellum” – non conferisce una maggioranza di seggi superiore al 55%. Dunque, non consente la formazione di quelle maggioranze schiaccianti che talora hanno contraddistinto le legislature francesi e britanniche.
Tutto ciò considerato, si può concludere che la legge appena approvata dal Parlamento italiano è connotata da un maggior tasso di rappresentatività sia se confrontata alla legge a suo tempo proposta dall’ex ministro Calderoli, sia – per certi aspetti – rispetto al sistema maggioritario tradizionalmente adottato in altri Paesi dell’Occidente.

Riassumendo, la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale non subordina il premio alla maggioranza assoluta dei voti; non vieta che esso sia attribuito ad una lista di maggioranza relativa.
Ciò che davvero vincola il legislatore è il rispetto del principio di proporzionalità, evitando che la rappresentanza sia eccessivamente sacrificata con l’attribuzione di una quantità di seggi fuori misura rispetto al risultato elettorale. Non è agevole determinare con certezza se il premio assegnato ad una lista di maggioranza relativa sia o meno adeguato sotto questo profilo. Tuttavia, qualora la “maggioranza relativa” sia inferiore al 40 per cento, l’ “Italicum” costringe le due liste più votate a un ballottaggio, il che equivale a subordinare il premio del 55 per cento dei seggi alla maggioranza assoluta dei voti. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, la legge elettorale consente la formazione di una maggioranza parlamentare assoluta, senza che sia sufficiente il mero raggiungimento di una maggioranza relativa di voti.

È doverosa un’ultima considerazione riguardo al Senato. Poiché nella sentenza n. 1/2014 si afferma che la legge elettorale deve consentire la formazione di una maggioranza omogenea fra le due Camere, è ragionevole affermare che, nel momento in cui il legislatore opta per il metodo del premio di maggioranza nazionale, questi ha non solo la facoltà, bensì l’onere di prevedere un premio su base nazionale per l’elezione di entrambi i rami del Parlamento, Senato compreso.
Nel momento in cui tace riguardo al Senato, il legislatore evita la complessa incombenza di conciliare l’esigenza di un premio nazionale, dettata dal bicameralismo paritario, e la disposizione ex art. 57 Cost., a proposito del Senato “eletto su base regionale”. Resta però fermo che il presupposto di questa scelta del legislatore – la revisione costituzionale – non è, per il momento, una norma giuridica, né tanto meno un atto giuridicamente dovuto; è una mera ipotesi, in attesa che si concluda l’iter di revisione; il quale – in astratto – potrebbe concludersi con la bocciatura della proposta da parte del corpo elettorale in sede di referendum. Piaccia o no, la Costituzione vigente continua a fondarsi sul bicameralismo paritario, e il Senato continua a essere elettivo; nell’attuale situazione, la legge elettorale non può che disporre di conseguenza.
Viceversa, qualora – alla data dell’entrata in vigore dell’ “Italicum” – il Senato fosse ancora elettivo, esso sarebbe eletto secondo la legge modificata dall’intervento della Consulta nel 2014 e non alterata dal legislatore del 2015: una legge proporzionale. Le due Camere avrebbero quasi certamente due maggioranze differenti, così contrastando con il dettato della Corte Costituzionale.

 

La relazione fra sistemi elettorali e forme di governo.

Per valutare l’effetto dell’ “Italicum” sull’ordinamento istituzionale, è necessaria un’operazione di comparazione, allo scopo di verificare l’esistenza di una correlazione fra sistemi elettorali e forme di governo.
Preliminarmente, è ragionevole inserire l’ “Italicum” – così come il “Porcellum” – nel novero dei sistemi elettorali maggioritari. Nonostante i candidati eletti non siano individuati nei collegi uninominali, la caratteristica che accomuna la nuova legge eletorale italiana, le leggi di tradizione anglo-americana e il doppio turno francese è l’idoneità a trasformare la maggioranza relativa dei voti in maggioranza assoluta dei seggi.
Con l’approvazione dell’ “Italicum” l’Italia è una Repubblica parlamentare dotata di una legge maggioritaria per l’elezione del Parlamento.
Le forme di governo vigenti nelle principali nazioni che adottano il maggioritario non potrebbero essere più differenti: gli Stati Uniti d’America sono una Repubblica presidenziale; la Francia è una Repubblica semi-presidenziale; il Regno Unito è una monarchia parlamentare.
In tutti questi casi, la legge favorisce la formazione di una chiara ed omogenea maggioranza in Parlamento, ma in ciascuno di questi ordinamenti il Parlamento ha un diverso rapporto con l’esecutivo. Nel Regno Unito, la maggioranza parlamentare determina integralmente le scelte dell’esecutivo e la sua sopravvivenza, dal momento che la Camera dei Comuni può sfiduciare il Governo. Negli Stati Uniti, viceversa, l’esecutivo è guidato dal Presidente, eletto dai cittadini; il Congresso non ha il potere di sfiduciarlo. L’Assemblea Nazionale francese può sfiduciare il Governo, ma non il Presidente della Repubblica, il quale detiene ampi poteri: presiede il Consiglio dei Ministri (art. 9 Cost.)[ref]Va precisato che anche il Presidente della Repubblica portoghese presiede il Consiglio dei Ministri, ma solo se sollecitato dal Primo ministro (art. 133 Cost.).[/ref]; può sottoporre a referendum popolare le leggi riguardanti determinate materie (art. 11 Cost.) e rifiutare di firmare le ordinanze e i decreti deliberati nel Consiglio dei ministri (art. 13 comma 1 Cost.); può assumere poteri eccezionali in caso di grave minaccia alla Nazione e interruzione del funzionamento dei poteri costituzionali (art. 16 Cost.)[ref]Questo potere è stato esercitato una volta sola (dal 23 aprile al 29 settembre 1961, sotto la presidenza di C. De Gaulle).[/ref].

Ogni diversa forma di governo determina un diverso ruolo del Parlamento, ma anche del Capo dello Stato: questi è capo dell’esecutivo negli Stati Uniti, figura di garanzia nel Regno Unito, figura ibrida in Francia[ref]Ove il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei Ministri, ma non dirige la politica del Governo (questo potere è attribuito al Primo Ministro dall’art. 50 Cost.) ed è pressoché irresponsabile di fronte al Parlamento. Questa è la caratteristica peculiare che distingue il semi-presidenzialismo dal presidenzialismo. “La difficoltà di fondo sta soprattutto nel rischio, che l’adozione del modello presidenziale comporterebbe, di pregiudicare la doppia natura del Presidente della Repubblica ed in particolare di desacralizzarne il ruolo di Capo dello Stato, trasformandolo in via definitiva ed esclusiva in un una personalità politica di parte. A ben vedere, anche alla salvaguardia di questa doppia natura è volta la presenza di un Primo ministro che svolge di regola la funzione di schermo e di filtro delle critiche alla politica presidenziale, offrendosi come agnello sacrificale sull’altare della irresponsabilità del Capo dello Stato”. M. Volpi, Relazione introduttiva al seminario La riforma della Costituzione in Francia, Roma – Fondazione Astrid, 19 novembre 2008.[/ref].
Il diverso ruolo del Capo dello Stato comporta, fra l’altro, una profonda differenza in termini di rappresentanza. Mentre nella monarchia costituzionale britannica il monarca – tale per diritto divino e designato in via ereditaria – è necessariamente super partes, le Repubbliche presidenziali, come gli Stati Uniti, si caratterizzano perché il Capo dello Stato è, allo stesso tempo, il capo del potere esecutivo[ref]In tutte le Repubbliche che prevedono l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, questi è anche Capo dello Stato. L’unica eccezione ha riguardato lo Stato di Israele, dal 1996 al 2003: in quel caso, il popolo eleggeva direttamente il Capo del Governo, lasciando al Parlamento (Knesset) il potere di eleggere il Presidente (Capo dello Stato). Dal 2003, Israele è una Repubblica parlamentare, come lo era dalla sua fondazione fino al 1996.[/ref]. Il Presidente degli Stati Uniti giura di “preservare, proteggere e difendere la Costituzione” (art. 2 sez. 1 Cost.), ma il capo dell’esecutivo ha il diritto e il dovere di assumere scelte di natura politica: scelte, inevitabilmente, di “parte”.
Ne consegue che, nelle Repubbliche presidenziali in cui la legge elettorale è maggioritaria, è difficile rintracciare una figura in grado di rappresentare pienamente tutti gli interessi e le sensibilità della Nazione: la distribuzione dei seggi in Parlamento è alterata a vantaggio della lista più forte; il Capo dello Stato assume scelte politiche non neutrali. Inoltre, il maggioritario di collegio rischia di conferire alla rappresentanza parlamentare una natura “localistica”[ref]”Torno ora al punto che le elezioni maggioritarie portano, o possono portare, a una politica centrata sul localismo e sul ‘servire’ il collegio. (…) Ma se tutta la politica è locale, come si ottiene una gestione decente della politica nazionale, della politica per tutti? Siccome un sistema presidenziale può neutralizzare le spinte centrifughe e localistiche meglio di un sistema parlamentare, gli americani non percepiscono ancora le difficoltà che si profilano per il loro sistema di governo qualora la politica del Congresso degeneri in una ‘politica al dettaglio’ ispirata da interessi collegio-serventi (…) Una politica collegio-servente è incompatibile con una politica imperniata su due grandi partiti nazionali: se il localismo si afferma, la condizione stessa del bipartitismo si dissolve“. G. Sartori, Ingegneria Costituzionale Comparata, Il Mulino, 2004.[/ref].

Tenendo conto di tutte queste peculiarità, è possibile individuare un elemento comune a tutti gli ordinamenti in cui il legislatore ha optato per il sistema elettorale maggioritario: il Parlamento ha una maggioranza definita, ma il Capo dello Stato non è espressione della maggioranza parlamentare, e può dunque costituire un contrappeso rispetto ad essa. O il Capo dello Stato è eletto direttamente dai cittadini, oppure – all’inverso – è del tutto svincolato da ogni istituzione, come nel caso della Corona del Regno Unito[ref]Sebbene i poteri della Corona si siano ridotti con il passare dei secoli – è fin troppo nota la formula di Bagehot, per cui il sovrano ha tre poteri: “quello di essere consultato, quello di incoraggiare, quello di mettere in guardia” – essa non è del tutto impotente di fronte all’esecutivo: v. R. Brazier, Constitutional Practice, Oxford University Press, 1988. Ma v. anche G. Grasso, La teoria delle forme di governo nella Costituzione inglese di Walter Bagehot. Una rilettura critica, Università dell’Insubria, 2000, working paper n. 13.[/ref].
Viceversa, nella maggioranza degli ordinamenti in cui il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento, il sistema elettorale è proporzionale[ref]Nell’Unione Europea, si vedano i casi di Germania, Estonia, Lettonia, Malta; ma anche la legge elettorale italiana fino al 1993.[/ref]. Nell’Unione europea, fanno eccezione la Grecia[ref]La legge elettorale vigente in Grecia attribuisce un premio di maggioranza di 50 seggi alla lista più votata; in sostanza, esiste una soglia implicita per il conseguimento del premio, premio che – comunque – non garantisce la maggioranza assoluta.[/ref] e l’Ungheria[ref]Nel sistema elettorale ungherese, i 199 seggi dell’Assemblea nazionale sono assegnati con un sistema misto: 106 deputati sono eletti con il maggioritario di collegio a turno unico, i restanti 93 sulla base di un riparto proporzionale fra liste bloccate nazionali.[/ref]; quest’ultima – peraltro – è l’unica Nazione, fra quelle precedentemente appartenenti al Patto di Varsavia, in cui la Costituzione non contempla l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Fuori dall’Unione, la Costituzione dell’India – ove il sistema elettorale è il maggioritario di collegio a turno unico – non prevede l’elezione diretta del Presidente federale; questi, però, è eletto da un collegio che non comprende solo i membri del Parlamento, allargato ai membri delle Assemblee legislative di tutti gli Stati della Federazione[ref]Art. 55 Costituzione indiana.[/ref].
In quasi tutti i casi in cui l’elezione del Capo dello Stato è affidata al Parlamento, si ha cura che non sia affidata alla sola maggioranza del Parlamento.

 

“Italicum” e ordinamento costituzionale italiano.

Il confronto con gli ordinamenti degli altri Stati dell’Unione europea – e con alcuni fra i principali Stati extraeuropei – consente di trarre alcune conclusioni.
Il sistema maggioritario, di per sé, è adottato in Stati con diverse forme di governo. Fra questi, figura la Gran Bretagna, Stato democratico di notoria e antica tradizione parlamentare.
In linea di principio, questa circostanza autorizza a ritenere che l’adozione di un sistema maggioritario in Italia non contrasta con l’ordinamento delineato dalla Costituzione del 1948, la quale istituisce una forma di governo di tipo parlamentare.
Nondimeno, l’ordinamento britannico – e, nel quadro di una forma di Stato repubblicana, anche quello indiano – presenta alcune peculiarità, essenziali per garantire la coesistenza fra parlamentarismo e legge maggioritaria.
Il principale effetto collaterale delle leggi maggioritarie è – per definizione – l’alterazione del rapporto fra seggi e voti e, quindi, della rappresentatività del Parlamento. L’introduzione del maggioritario in Italia, in un momento in cui – per effetto della decisione della Consulta – vige una legge elettorale proporzionale, comporta una riduzione della rappresentatività, nonostante l’impianto dell’Italicum – in comparazione con gli effetti di una legge maggioritaria di collegio – contribuisca ad una sua parziale salvaguardia.
Di fronte a un Parlamento che assicura solo in parte la rappresentanza di tutte le opinioni e di tutti gli interessi organizzati del Paese, è necessario individuare un organo che possa adempiere a questa funzione.
Non può trattarsi che del Capo dello Stato, il quale rappresenta l’unità nazionale a norma dell’art. 87 della Costituzione. Egli, tuttavia, è eletto – a norma dell’art. 83 Cost. – da un’assemblea in cui i membri del Parlamento sono largamente preponderanti sul piano numerico; soprattutto, a partire dal quarto scrutinio, il Presidente può essere eletto dalla maggioranza assoluta.
È evidente che il combinato disposto fra l’ “Italicum” e la Costituzione vigente consente che tanto il Parlamento, quanto il Presidente della Repubblica siano espressione della stessa entità, e cioè della maggioranza elettorale.
I possibili rimedi per un simile rischio sono due. Entrambi richiedono una revisione costituzionale.
Si può introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, mantenendone le funzioni di garanzia che gli sono attribuite dall’attuale Costituzione, sul modello di quanto avviene in alcuni Paesi europei[ref]Tra cui Austria e Finlandia, ove – però – la legge elettorale è proporzionale: ad un Capo dello Stato necessariamente di parte, corrisponde un Parlamento che rappresenta tutte le diverse sfumature dell’elettorato nazionale.[/ref]; analoga proposta era contenuta nella proposta di revisione costituzionale che la c.d. Commissione D’Alema aveva avanzato nel 1997. Tuttavia, anche in questo caso, il Capo dello Stato non rappresenterebbe che una maggioranza elettorale, sebbene essa – in astratto – possa differire rispetto a quella che risulta dalle elezioni parlamentari.
Altra soluzione può essere rappresentata da un mero allargamento della base elettorale per l’elezione del Presidente della Repubblica: senza giungere al suffragio universale e diretto, si potrebbero includere nell’Assemblea i membri di tutti i Consigli regionali, eventualmente integrati da delegati dei Comuni.
In ulteriore alternativa, si può innalzare il quorum, in modo che non siano sufficienti i voti dei parlamentari di maggioranza e dei delegati regionali del medesimo colore politico. A tale proposito, va sottolineato che l’attuale disegno di legge di revisione costituzionale modifica l’art. 83, richiedendo il quorum dei tre quinti dell’Assemblea; ciononostante, la novità non riguarderebbe che il quarto, il quinto e il sesto scrutinio, cosicché, a partire dal settimo, la situazione sarebbe invariata, restando sufficiente la maggioranza assoluta.
In questo quadro, non va dimenticato che il Parlamento, oltre ad eleggere il Capo dello Stato, ha il potere di eleggere alcuni membri della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura. Anche in questi casi, sarebbe opportuno un innalzamento del quorum.

In definitiva, ogni valutazione sull’ “Italicum” deve innanzitutto tenere conto della sua natura di legge maggioritaria.
Tutte le leggi maggioritarie, per definizione, riducono la rappresentatività del Parlamento, avvantaggiando i partiti di maggioranza a scapito delle minoranze.
Di conseguenza, una simile scelta del legislatore deve necessariamente contestualizzarsi in una forma di governo che accentui la funzione di garanzia di taluni organi – a cominciare dal Capo dello Stato – in modo che essi rappresentino un efficace contrappeso rispetto alla maggioranza parlamentare.
Resta che nessuna legge elettorale di questo tipo ha mai condotto ad una “svolta autoritaria” nei Paesi in cui è stata adottata: l’evidenza storica dimostra in pieno la democraticità del sistema.
Addirittura, l’ “Italicum” limita il premio di maggioranza al 55% dei seggi, ponendo un limite alla distorsione della rappresentanza che è tipica del maggioritario. Inoltre, distribuisce i seggi di minoranza in proporzione ai consensi ottenuti da ciascuna lista su tutto il territorio nazionale, evitando che le forze politiche siano penalizzate dalla distribuzione geografica dei loro voti, come avviene generalmente nel maggioritario di collegio. Infine l’ “Italicum” supera il principale limite del “Porcellum”, imponendo un ballottaggio fra le due liste più votate nel caso nessuno raggiunga il 40% dei voti al primo turno, e quindi – tendenzialmente – subordinando l’attribuzione del premio alla conquista della maggioranza assoluta dei voti.
L’ “Italicum” non è incompatibile con la democrazia parlamentare, né tantomeno con la democrazia tout court. Esso è finalizzato alla realizzazione di una democrazia governante: ben sapendo che al consolidamento del potere del Governo e della sua maggioranza deve corrispondere un consolidamento di quegli organi che controllano – e limitano – la sua azione. In caso contrario, lo Stato costituzionale cessa ipso facto di esistere per avvicinarsi allo Stato assoluto: con o senza elezioni.

DOCUMENTO PROGRAMMATICO

di
Bruno Montanari

Premessa

Particolarmente diffusa è l’opinione circa l’inutilità dei cosiddetti studi umanistici, degli interessi ad essi associati, dei progetti da essi ispirati. Ma, a fronte di questa asserita inutilità, qualcuno dovrebbe spiegarci come mai, nonostante il primato della tecnica, dello scientismo e della prospettiva economicistica, si assista ad un evidente disorientamento generalizzato, ad una crisi che non è soltanto economica ma anche sociale, visto il degrado del tessuto e delle relazioni umane. Inoltre, l’impressione è che la progressiva affermazione del capitalismo finanziario, sostituitosi al classico capitalismo industriale e produttivo, coincida con una speculazione sulla crisi e sulla decrescita. In altre parole, più si sta male più margini di profitto sembrano esserci per coloro che, in nome del puro economicismo, giocano guadagnando sulla crisi. Crisi, che di giorno in giorno mostra sulla scena del mondo i suoi possibili profili catastrofici, dalla fame alle guerre, in atto o in potenza.

A ciò si aggiunga che il diffondersi, e l’affermarsi come esclusivi, dei modelli di pensiero “scientifico”, per la struttura delle categorie di ragionamento che necessariamente comporta, impedisce l’affermarsi di un pensiero “critico”.

Se le cose stanno così, occorre ribaltare l’intera prospettiva, poiché la complessità della società attuale, irriducibile a modelli di comprensione esclusivamente tecnico-economici, chiama in causa l’approccio umanistico quale chiave di lettura imprescindibile. Certo, è bene essere consapevoli di come ragionare in questo senso equivalga ad una dichiarazione di resistenza culturale. Il primato tecnologico, infatti, ha condotto a misurare l’impiego del nostro tempo e della nostra fatica esclusivamente su criteri materiali di natura esclusivamente quantitativa (poiché la “quantità” è l’unica dimensione “misurabile”), quali l’immediatezza, la rapidità, l’utilità, l’efficienza. In realtà, seguendo tali criteri di misura si rischia di guardare ad un agire pratico tipicamente funzionale alla performatività del sistema, senza spazi critici. Il pericolo di questa distorsione consiste nel costruire retoriche dell’azione, del calcolo e della prassi letteralmente insignificanti: un’azione funziona forse oggi per l’obiettivo presente ma, visto che non ci assumiamo l’onere di comprenderne il significato, non ci aiuta né a leggere né a governare la realtà a medio e lungo termine.

Se per garantire il funzionamento, oggi e soltanto per oggi, di un’azione, può bastare raccogliere dati e collezionare informazioni, per leggere, governare e orientare la realtà, secondo autentici fini generali, bisogna conoscere la realtà stessa e non solo esserne informati. Bisogna affrontare il quotidiano con metodo, consapevolezza storica e sensibilità culturale, insomma con l’approccio tipico degli studi umanistici. Ciò che è in questione, quindi, è il modello di conoscenza: non solo non ne esiste uno solo, ma ogni modello assolve a finalità diverse. Quello scientifico ha funzioni prevalentemente applicative, il modello di tipo umanistico serve a sollecitare la capacità sociale di critica, ed entrambi hanno uguale cittadinanza nella formazione del sapere.

Di quest’ultimo tipo di conoscenza si avverte la necessità in un Paese, come il nostro, in cui si assiste ad una crisi delle infrastrutture sociali. Una crisi, cioè, del tessuto delle relazioni tra gli uomini che tiene insieme una comunità nazionale e rende possibili le imprese dei singoli, da quelle economiche a quelle sociali, dai progetti materiali a quelli spirituali, individuali e collettivi. La democrazia non è infatti riducibile ad una forma di governo. Si tratta, piuttosto, di una concezione etica fondata sulla comunicazione consapevole. Per questo gli strumenti potenzialmente democratici, dai partiti ai media, per esser tali devono essere veri luoghi di formazione. Se questo è uno scenario condivisibile, allora occorre ripensare a ciò che può trasformare un semplice ambiente sociale anonimo, ove vige l’individualismo egoistico di massa, in una vera e propria “società”, che possa esprimersi con un’ “opinione pubblica” propriamente intesa. In questa operazione sono in gioco più di cento anni di storia: dalle istituzioni democratiche ai sistemi di protezione sociale, passando per le riforme del mercato economico, del lavoro e per una riconfigurazione del sistema partitico e sindacale. Questo percorso non può non avvalersi di forze diverse, di diversa provenienza professionale e culturale, capaci di indicare direzioni, proprio a partire da quel rilancio della ricerca e della riflessione di tipo umanistico in grado di diffondere una maggiore consapevolezza delle coordinate storiche e concettuali entro cui le nostre vite, le vite di tutti, si inquadrano. Un tale sforzo potrà fornirci nuove lenti per scrutare il nostro fumoso orizzonte.

Proposta

Del resto, quest’orizzonte andrebbe non soltanto scrutato ma anche compreso. L’obiettivo è, infatti, sapersi orientare di fronte ad uno spazio indistinto. Ma il punto è che una tale opera di orientamento e, quindi, di azione, presuppone l’esistenza di un ambiente sociale riconducibile ad una identità di “soggetto”, riconoscibile per un tessuto culturale, relazionale ed economico-produttivo, comune. Una tale ricostituita “soggettività” del sociale sarebbe nelle condizioni (così come è avvenuto nella storia moderna) di far sentire il proprio peso quando si tratta, come oggi, di ripensare il modello stesso della convivenza. A questo proposito, al di là delle diverse opzioni politiche ed ideologiche, l’esigenza posta di recente di dar vita ad un soggetto sociale non riducibile ai partiti e neppure al sindacato, in grado comunque di incidere sulla scena politica, coglie proprio il senso di una necessità storica. La necessità, cioè, di opporsi ad una frammentazione ambientale esasperata ed al pulviscolo di interessi e lobby incapaci di pensare ad un quadro condiviso di scelte sociali di fondo. Una tale frammentazione, privando la società di qualsiasi forma soggettiva di coesione, conduce all’isolamento sociale delle istituzioni e ad una loro progressiva delegittimazione, cui contribuisce anche una sorta di autorefenzialità lobbistica.

Occorre, allora, concentrarsi sull’obiettivo di fondo: la ricostituzione di un soggetto sociale, che non vuol dire “pensiero unico”, ma, al contrario, luogo entro il quale possano svilupparsi e prendere forma quelle diverse “visioni del mondo”, che alimentano una democrazia parlamentare.  “Luogo” che consente di tenere fermo un nucleo simbolico di esperienze e principi condivisi da tutti.

In definitiva si tratta di recuperare il “peso” della Politica sulle regole imposte dall’economia finanziaria, cui segue la tensione, che viviamo quotidianamente, tra democrazia parlamentare e scenari sovranazionali.

Bruno Montanari

VIDEO – La fragilità del Potere

Il potere è fragile e oneroso. È fragile, perché dipende dagli “altri”, che pur deve materialmente dominare. È oneroso, perché l’obbedienza ha un suo prezzo: la minaccia o la lusinga, la paura o il consenso. Appartiene all’uomo, alla sua ambizione e alla sua ignoranza. L’ambizione lo spinge alla conquista, l’ignoranza gli cela la causa della precarietà di ciò che ha ottenuto. Tutto dipende dall’uomo, dalla sua mente, dal suo carattere, dalla sua psiche, dalla sua immaginazione, dalla sua parola, dai suoi muscoli, dalla sua destrezza: dalla sua “testa” e dal suo “corpo”. Vi sono epoche in cui l’uomo onora l’esistenza, pur vivendo in mezzo alla miseria ed alle persecuzioni; e tempi nei quali non sperimenta altro, ad ogni livello, che la propria mediocrità. Il saggio è pensato, dunque, in una chiave, che definisco “antropologico-esistenziale”: il potere, infatti, è una dimensione esclusivamente umana, che ha la sua cifra nel non accettare la propria finitudine. Non è effettivo se non si pensa “assoluto”, ma la tensione dell “io” per realizzare quell’assolutezza incontra sul suo percorso l'”alterità”; e la incontra sempre di nuovo, nonostante ogni tentativo per eluderla, schiacciarla, renderla inoffensiva e impotente. Di qui una ineliminabile “fragilità”: il potere che l'”io” accumula, quali che siano le forme materiali in cui si manifesta, incrocia strutturalmente l'”alterità” e da essa, oggettivamente, dipende.

 

Come si Configura oggi il Potere?

di
Bruno Montanari

1. Il comune cittadino, italiano e non solo, è quotidianamente sommerso da una cascata di notizie, che, per intensità di conseguenze, talora solo potenziali, appare somigliare ad un vero e proprio bombardamento. E del bombardamento, questo affluire incessante di notizie – eventi produce i suoi effetti più scontati: macerie.

Tra le macerie c’è chi continua a vivere e chi muore; nella esperienza che investe l’attuale ambiente sociale ciò che appare esser morto è l’idea stessa di società, di opinione pubblica, di diritto, di ordinamento giuridico, di legittimità istituzionale. Appaiono essere morte, cioè, quelle figure concettuali attraverso le quali il pensiero politico della “modernità” aveva stabilizzato la relazione tra gli uomini e il potere, imprimendo all’interpretazione di quest’ultimo una direzione sempre più “funzionale”, sostituendo via via gli aspetti “padronali”. Contemporaneamente, a supporto di una tale direzione, era emerso forte il consolidarsi di una idea di società come “opinione pubblica”, con la quale chi detiene il potere deve fare i conti[ref]Basta aver presente il classico J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, tr. it. Roma – Bari 1974.[/ref].

Il Novecento, proprio nella sua “brevità”, è segnato da questo movimento di forte interazione tra potere e società, che trova la sua manifestazione, ora pacifica ora tragicamente conflittuale, nelle vicende politiche del secolo e nelle relative manifestazioni giuridico – ordinamentali.

Tutto ciò appare ora in macerie; si ergono solo le bandiere logore e stracciate, gli spezzoni di edifici… ricordi di un mondo che ha subito la distruzione di un uragano; di un uragano umano.

In questo nuovo mondo sopravvive solo l’effettività potere ed in una conformazione di nuovo “padronale”. Riferendomi ad un altro tempo storico, avrei specificato il senso dell’“effettività” del potere come controllo di un “territorio” o di un “ambiente sociale”. Non credo, invece, che oggi questa terminologia sarebbe appropriata, per la ragione che il “territorio” non è più un parametro rilevante e perché è in corso una frantumazione dell’idea di società a vantaggio di individualismi, di singoli o di gruppi.

Ciò che sopravvive, insomma, è un potere nuovamente “padronale”, la cui iconografia è del tutto inedita, ma perfettamente aderente a quella trasformazione epocale che può essere riassunta sotto l’espressione “governance della complessità”.

L’iconografia “moderna” del potere poteva essere testimoniata da tre immagini: quella classica che avvolge (è il caso di dirlo) il frontespizio dell’edizione del 1651 del Leviatano, o quella dell’uomo seduto sul trono di fronte ad una platea di uomini sotto-posti, alla Canetti, o, infine, quella della piramide, che esprime l’esistenza di un ordine costituito da un vertice e da una base.

Comunque si voglia raffigurare il potere, ci si avvede che nella modernità e fino al Novecento, nella sua accezione “breve”, il fattore costitutivo del potere è un confine, che delimita e determina la sua “effettività”. Sia questo costituito dal corpo del Leviatano, dalla sala di un trono o dalle linee di una struttura burocratica, l’effettività del potere non appare disgiunta dall’esistenza di uno spazio chiuso, dove la sua chiusura coincide con il determinarsi di un sistema, la cui origine è nell’ idea di ordine e il cui fine è nel fatto della stabilità.

In altre parole, l’idea di confine, che evoca, come riferimento immediato, il “territorio”, è ciò che nella cultura della modernità è un fattore costitutivo dell’effettività del potere, così scontato ed indiscutibile che non sfiora nessun pensatore la possibilità teorica di prenderlo in considerazione, se non come ovvia determinazione.

Nel secolo che viviamo, che è indicato dal numero romano XXI, l’iconografia del potere cambia, riflettendo la radicalità di mutamento dei fattori costituenti. Non più territorio – ordine – sistema, ma globalità – complessità – equilibrio.

Il tratto distintivo dell’immagine che ne scaturisce è il suo essere senza confine; tale immagine è la “rete”, che nella sua versione inglese – network – è largamente usata nel lessico comune, per indicare fenomeni di connessione diffusa e plurima.

In effetti la rete, come oggetto fisico, è caratterizzata dal non avere un ambito oggettivamente pre-determinabile; essa si estende fin là dove la si vuol far arrivare e si può continuamente intervenire per modificarne l’ampiezza. La rete, cioè, individua un oggetto di grandezza indeterminata, che dipende da due fattori: dalla orizzontalitàdello svolgersi della trama e dai nodi che ne sorreggono la struttura. Trama e nodi sono elementi che si implicano a vicenda: se non ci fossero i fili non potrebbero costituirsi dei nodi e senza i nodi non si formerebbe una trama. In più: ogni nodo è intersezione di diversi fili, alcuni dei quali, rimanendo gli stessi, vanno a connettersi con altri per mezzo di nuovi nodi.

Ecco, questa è l’immagine del potere così come si presenta oggi nel mondo globale: non più un trono o una piramide, che protegge e ordina, ma una rete, la cui trama include ed esclude. C’è chi appartiene alla rete, e raccoglie puntualmente i frutti della pesca, e chi ne è fuori, e nuota liberamente nel mare aperto, cibandosi di ciò che il mare nella sua naturale, ma anche intermittente, generosità offre. Per rimanere nella metafora, non vanno esclusi neppure gli allevamenti artificiali, dove la rete è il mezzo che assicura la raccolta del prodotto e l’autoriproduzione, lontano da fattori di interferenza ambientale. L’ambiente sociale risulta così diviso a metà in senso orizzontale, tra chi appartiene alla rete e chi non vi appartiene; non una separazione di censo o di cultura, né di classi sociali, ma una semplice divisione tra l’essere “dentro” la trama oppure restarne “fuori”.

La conferma è negli scoop quotidiani dei mass media, che mettono in mostra un ambiente social nel quale, come si usa dire, “si conoscono tutti” tra di loro, come in una enorme comitiva ludica, dai politici agli attori, agli sportivi, ad alcuni industriali, a magistrati e professionisti, fino agli alti burocrati, ai managers, pubblici e privati, ai banchieri.

L’immagine della rete modifica, allora, il paradigma tradizionale del potere, in quantofunzione della politica, rispetto a quello rappresentato dall’immagine della piramide. Modifica anche, e radicalmente, l’ idea che del diritto hanno gli attori del nuovo spazio reticolare: non più apparato di controllo delle decisioni politiche e della loro compatibilità con l’ordinamento giuridico, ma semplice appendice tecnico – normativa delle decisioni economiche.

L’iconografia della piramide mette in chiaro come vertice e base siano tra loro posti in relazione reciproca come i due lati di una sezione triangolare. A buon diritto, può essere considerata come la rappresentazione di quel paradigma relazionale tra società e organi di governo tipico delle democrazie rappresentative, delle quali il partito costituiva il principale luogo di formazione del progetto politico e la cinghia di trasmissione del consenso, strumento insostituibile – quest’ultimo – della legittimazione delle istituzioni di governo. Vi è da aggiungere un particolare, niente affatto trascurabile: la struttura piramidale, in virtù della sua forma chiusa allusiva dell’ordine giuridico – politico, consente di racchiudere al proprio interno la dialettica tra movimento e istituzione, propria dell’agire politico, ideale e progettuale.

L’immagine della rete rende visivamente palpabile un paradigma del tutto diverso, poiché il fattore caratterizzante non è più costituito da un elemento che per la sua forma fisica possa veicolare l’idea di una relazione tra vertice e base: la rete, infatti, non halati, ma la sua trama opera una divisione tra un dentro e un fuori. E’ una immagine che annulla ab origine l’idea di una relazione tra ambiti sociali: il potere, come luogo della “raccolta”, è dentro; l’ambiente sociale, genericamente inteso, è ciò che è fuori.

Di qui una serie di conseguenze sostanziali, che risultano del tutto estranee alla semantica formale del proceduralismo politico tradizionale.

Le più evidenti sono due: la prima consiste nell’evaporare dell’idea di partito politico in favore dell’affermarsi di comitati affaristico – elettorali, centrati sulla figura di unleader, che assicura la funzionalità dell’essere in rete; la seconda, nell’emergere di un alto astensionismo elettorale, che è la testimonianza più evidente della frattura che attraversa orizzontalmente l’ambiente sociale.

Oltre a queste due principali conseguenze, la novità del paradigma consente di coglierne altre, come corollari. In particolare, la disaffezione sociale per le istituzioni si converte in un diffuso individualismo di massa, che pervade coloro che non appartengono al tessuto reticolare, cui corrisponde, al di qua della rete, il formarsi di una struttura di potere di origine burocratica e tecnocratica, evocata, ma al tempo stesso nascosta, dal termine governance, che come è ormai noto, è di incerto significato e per questo assolutamente privo di traducibilità[ref]Per un’analisi delle ambiguità concettuali del termine governance e della sua “intraducibilità” semantica cfr. soprattutto S. Maffettone, La pensabilità del mondo. Filosofia e governanza globale, Milano 2006.[/ref].

In un paradigma così strutturato, privo cioè di strutture politicamente e sociologicamente relazionali, ciò che si delinea è una frattura tra la dimensione movimentista (di tipo populista) e quella istituzionale, che politica e diritto, nella connotazione che assumono nella nuova versione reticolare (che mostrerò di qui a poco), non sono in grado di comporre, metabolizzare, in una parola, “ordinare”.

Aggiungerei un ulteriore corollario, che mostra un inedito nella storia del potere: un potere reticolare impedisce la possibilità di una sua imputazione soggettivamente determinata. In altre parole, con una frase ad effetto, a chi si potrebbe tagliare la testa? Al più, si possono fare buchi nella rete, ma, come ogni esperto pescatore sa, la rete si può sempre riparare, aspettando il giorno che sia così logora che ripararla sarà impossibile.

Lo svolgersi attuale di questo paradigma ha il suo immediato antecedente nel modello socio-epistemologico allestito negli anni ’70 da Niklas Luhmann, che è conosciuto come “sistemico – funzionalistico”. Fin da ora voglio sottolineare, tuttavia, che tra quel modello e il suo attuale svolgimento reticolare vi è una specifica differenza: quella conseguente all’affermarsi di una linea di pensiero materialistico – pragmatica, centrata sulla diffusione applicativa della categoria, di origine economicistica, “costi – benefici”.

Il richiamo a Luhmann mi sembra tuttavia indispensabile per due ragioni: la prima, perché legittima lo spostamento del ragionamento attorno al potere su quel piano epistemologico che contrappone “ordine” a “complessità”; la seconda, perché la differenza tra la versione originaria luhmanniana, detta “sistemica”, e l’attuale conversione in una governance “reticolare”, mette in luce quale mutamento culturale l’avvento della globalizzazione economica abbia determinato rispetto al paradigma tradizionale che ha legittimato le democrazie parlamentari.

2. Le immagini con le quali ho descritto metaforicamente il potere, tra modernità e globalizzazione, rimandano a mondi culturali, nei quali si avvicendano figure concettuali, quali “ordine” e “complessità”, che corrispondono, come ho sottolineato, a percorsi epistemologici radicalmente diversi, sui quali incide, e in modo determinante, qualcosa che sulle prime non appare avere alcuna relazione con il potere: mi riferisco all’idea di “verità”. Ma una qualche relazione diviene intuibile se si coniuga quell’idea con un’ altra: quella di “realtà”.

Il nesso “verità” – “realtà” è ciò che salda l’ambito epistemologico ai modelli pratico – comportamentistici inscritti nell’alternativa “ordine – complessità”; a questo punto, il modo di determinare il potere, in quanto effettività, dipende dallo svolgimento di questo nesso.

Intendo dire che registrare l’effettività del potere a partire da un modello epistemologico fondato sul concetto di “ordine”, e sulla figura della piramide (vertice e base), è il contrario che assumere come chiave epistemologica il concetto di “complessità” e vederne la sua proiezione pratica nella “rete”. Ne derivano due rappresentazioni della “realtà” sociale così diverse da condizionare il connotarsi stesso dell’effettività. Nel primo caso, essa coincide con un sistema di comando, mentre, nel secondo, consiste in un meccanismo di raccolta.

Il passaggio dall’ “ordine” alla “complessità” è l’esito, come ho detto, dell’avvicendarsi di due modelli epistemologici, che si svolgono secondo quelle “sequenze” concettuali sopra indicate. Il primo modello consiste nella sequenza “ordine – sistema – ordinamento”, il secondo in quella: “complessità – equilibrio – governance”. Si notino i contrappunti: così come all’ordine corrisponde la complessità, all’idea di sistemacorrisponde quella di equilibrio e, infine, alla nozione giuridica di ordinamento quella di governance.

E’ proprio facendo centro su tali contrappunti, che rinviano a rappresentazioni concrete del mondo umano, che si mostra la relazione tutta epistemologica tra “verità” e “realtà”, che può riassumersi nella espressione comune, che funge spesso da premessa direttivo – comportamentistica: “poiché le cose stanno così, allora…”.

La profondità del passaggio è tale che non è configurabile come un mero aggiornamento nozionistico-semantico, determinato dalla contaminazione di un lessico sociologico con uno specificamente giuridico e politico, come il prevalere del termine governance su quello di ordinamento lascerebbe intendere (esemplare è la prevalenza della nozione di “portatori di interessi” al posto di “legittimazione soggettiva). Ben altrimenti, si tratta dell’emergere di una sottesa e diversa modalità di conoscenza della realtà, che trova poi specifico svolgimento nella forma “regolativa” detta appunto governance.

Stabilendo il contrappunto tra due sequenze concettuali, intendo sottolineare quanto sia indispensabile cogliere, proprio nelle epoche segnate da forti mutamenti, il nesso tra il piano epistemologico e quello della “realtà”, consegnata ad una rappresentazioneumano – sociale.

In tali epoche, infatti, la necessità di realizzare immediati adattamenti teorici e pratici, in particolare socio – politici e giuridici, può non lasciare il tempo di soffermarsi, con l’attenzione necessaria, sulla portata effettiva del cambiamento in atto, con il rischio di perderne il controllo e di ritrovarsi in un “nuovo mondo”, senza aver capito né il “come” né il “perché”.

La differenza tra le due sequenze prospettate ha, dunque, il suo centro contrappuntistico nei termini “ordine” e “complessità”.

Il termine “ordine” fa pensare a qualcosa che si offre come un dato oggettivo, che rinvia a qualcosa di posto e, in più, come ulteriore ed immediata conseguenza logica, “posto”da qualcuno. In altre parole, l’ordine implica il “porre in ordine” e quest’ultimo apre, nella logica umana, alla domanda circa il “chi pone…”.

È questo il modello proprio del pensiero antico, che ha il suo centro epistemico nella ricerca di un “Principio” ordinatore, come origine del mondo che si presenta all’uomo. È la tematica che ruota attorno a due termini filosoficamente complessi: Logos eDemiurgo, attraverso i quali l’uomo investiga il senso umano della “realtà” nella quale è immerso. Al tempo stesso, però, traccia una distanza incolmabile tra la sua umanità empirica e la dimensione di quel “Principio”, che è il Tutto comprendente: meraviglia ed enigma ad un tempo[ref]Cfr., su questa sconfinata tematica, il bel saggio di E. Berti, In principio era la meraviglia, Bari 2007; cfr., anche, il recentissimo F.Cavalla, All’origine del diritto – al tramonto della legge, Napoli 2011.[/ref].

Al pensiero “moderno” si attaglia propriamente il termine “sistema”, che connota quel meccanismo della ragione secondo il quale conoscere la realtà, significa scoprire laverità del mondo, che si traduce nel formalizzarne le “leggi” che consentono di stabilire in modo costante il succedersi degli eventi. Tale operazione cognitiva conduce alla determinazione della realtà come fenomeno, sintesi quest’ultimo di una relazione causale, razionalmente elaborata e stabilita, tra eventi empiricamente osservati.

In definitiva, il termine “sistema”, nel suo concetto, va posto in relazione al termine che lo precede: “ordine”. Entrambi i termini esprimono una idea di “verità”: conoscerla significa capire che le cose stanno proprio come devono stare o perché sono state disposte così a partire da un’idea di principio (“ordine”), o perché il pensiero umano ne coglie i nessi causali, sotto il profilo razionale e logico (“sistema”).

Tuttavia, nella continuità tra pensiero “antico” e “moderno” un differenza non va sottaciuta.

Se il pensiero antico manteneva la distanza, sopra accennata, tra la mente umana e la “Verità” del mondo, giocando sull’intersezione di “enigma” e “disvelamento” (aletheia); nella “modernità”, invece, la “Verità” diviene l’approdo di un percorso metodico della ragione sistematica. Essa è il prodotto di quell’operazione mentale che, a partire dalla esperienza empirica, elabora concetti, trasformando la mera successione di eventi in relazioni causali che la ragione si rappresenta come “necessarie”.

Si comprende, di conseguenza, come il concetto moderno di sistema svolga una funzione euristica ed epistemica: solo se si ricostruisce lo svolgersi degli eventi, o delle “cose umane” più in generale, secondo una forma sistematica, si può cogliere l’ “ordine” che al fondo regge il Tutto. La “Verità” dei moderni si realizza nel colmare, tramite la ragione, la distanza antica tra la mente umana e la “meraviglia” di fronte al “Principio”.

“Ordinamento” è il terzo termine, quello cui giunge, nell’ambito giuridico, la sequenza “moderna”.

Nella sua specificità concettuale, esso individua la compattezza e organicità razionali dell’attività normativa, posta in essere dallo Stato o da altri soggetti dotati legittimamente o legalmente di tale potere. Nella sua idea di fondo, esso si pone in continuità con due possibili direzioni speculative: da un lato, con una idea di diritto, secondo la quale il giuridico è la traduzione normativa dell’“ordine” che costituisce il mondo umano (la tradizione della scientia juris sia nella sua versione giusnaturalistica, sia in quella “storica”); dall’altro, con una definizione di ordine squisitamente “positiva”, che si realizza, tuttavia, secondo una sistematicità razionale della volontà normativa (la teoria del diritto nella sua versione principalmente novecentesca, nel suo insieme e nelle sue diverse e specifiche articolazioni).

Vi è un elemento, che contraddistingue la sequenza ordine – sistema – ordinamento, e che occorre mettere in luce al termine della sua spiegazione. Tale elemento è costituito dalla categoria “tempo”[ref]Su questa categoria, nella sua ampiezza ermeneutica, cfr. il bel testo di J. T. Fraser,Time. The Familiar Stranger, Amherst, 1987, tr. it. Milano 1992; per un assaggio assai gustoso cfr. anche il recentissimo M. Dorato, Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune, Roma 2013 .[/ref], poiché è proprio sul rilievo che assume tale categoria che può tracciarsi la differenza più evidente con la seconda sequenza: complessità – equilibrio – governance.

Anticipando qui, per mere ragioni di contrappunto espositivo, ciò su cui tornerò più avanti, dico subito che “complessità” è una nozione epistemologica di tipo meramente osservativo, per la quale il fattore temporale si fissa nella stabilità di una situazione di “equilibrio” attuale, la sola che può rendere osservabile una casuale disposizione di eventi. In altre parole, l’“equilibrio”, oltre ad essere un dato osservativi, funziona anche da categoria epistemologica che fa coincidere ciò che è “realtà” con uno stato denominato “complessità”. Se ne ricava un’idea di stabilità che, essendo fondata sulla contingenza dell’osservazione, rende insignificante l’immagine di una relazione causale tra eventi, che per definizione è meramente congetturale e non empirica.

E’ proprio la nozione di “stabilità” che mette in relazione temporalità e potere.

La stabilità infatti è il più evidente tra gli elementi costitutivi dell’effettività del potere; ciò che muta storicamente è la condizione alla quale si registra tale stabilità. In tutto l’arco della modernità essa consisteva nell’idea di “sistema”, come sintesi razionale di progetto politico e normatività legale: la figura della piramide, nella quale vertice e base si reggono reciprocamente, ne trasmette il senso.

Con il concetto di “complessità” la stabilità è, invece, l’esito dell’ “equilibrio”, che è una figura epistemologica strettamente dipendente dalla reiterazione di costanti osservative aventi ad oggetto un ambiente fisico. In altre parole, la stabilità, che individua l’esserci effettivo del potere, coincide con quell’espressione “tutto si tiene”, che indica la presenza materiale di un determinato stato di fatto, la cui permanenza si offre come tale alla possibilità di essere osservato. Lo stato di equilibrio, che fonda l’effettività del potere, tradotto nell’espressione pragmatica “tutto si tiene”, ha nella rete la sua immagine più incisiva, ma anche la sua differenza dal funzionalismo – sistemico luhmanniano.

3. Le anticipazioni svolte risulteranno maggiormente comprensibili attraverso la svolgimento della seconda sequenza: complessità – equilibrio – governance

Ciò da cui si deve prendere le mosse, per cogliere il passaggio dalla prospettiva dell’ “ordine” a quella dell’“equilibrio”, tipica delle società “complesse”, è costituito dalla svolta epistemologica novecentesca, per il fatto che essa mette gradualmente in discussione la onnicomprensività della valenza euristica del nesso di causalità e conseguentemente rende “impensabile” la categoria razionale di “sistema”.

In particolare, sul piano dell’accertamento empirico del fatto, le teorie della conoscenza contemporanee[ref]Cfr. alcuni testi da considerarsi “classici” per tale tema: H. Hahn-O. Neurath-R. Carnap, Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929, tr. it. Bari 1979; M. Bunge, La causalità. Il posto del principio causale nella scienza moderna,Boringhieri, Torino 1970; P. K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr.it., Milano 1981, in part. p. 30 e ss.; M. Baldini,Teoria e storia della scienza, Roma 1975, pp. 9-27; W. Heisenberg, Tradition in der Wissenschaft, München 1977, tr. it., Milano 1982; I. Prigogine-I. StengersLa Nouvelle Alliance. Métamorphose de la science, Paris 1979, tr.it., Torino 1981; Idd., La fin des certitudes. Temps, chaos et le lois de la nature, Paris 1996, trad. it. Torino 1997.[/ref] hanno variamente dimostrato come nell’indagine scientifica non sia possibile astrarre dalla interazione, che diviene cognitivamente “costitutiva”, tra “osservatore” e oggetto osservato. Ciò significa che l’osservatore fa parte del sistema osservato e il metodo non può essere pensato separatamente dall’oggetto indagato. Si passa, insomma, dalla costitutività della ragione alla costitutività della osservazione. Ed è su questo passaggio che entra in gioco la categoria “tempo”, alla quale ho già fatto cenno.

L’equilibrio, infatti, è una dimensione “contingente” che è rilevabile nel momento dell’ osservazione; esso contiene quell’eccesso di possibilità fattuali, che individua la struttura paradigmatica della “complessità”, in generale, e di quella sociale, in particolare. In altre parole, il fatto, così come viene determinato nell’istante dell’osservazione, non può essere come tale oggetto di una pre-visione, essendo una possibilità tra le tante; sarebbe un fatto diverso, se osservato in un istante diverso.

La categoria della “complessità” richiama proprio quel contesto epistemologico caratterizzato dalla mera possibilità di interazioni in sospensione bilanciata, che è tutto il contrario, dal punto di vista epistemologico, della categoria della relazionalità causalistica.

Sicché l’ “equilibrio” nella interazione, che costituisce la condizione per l’osservabilità della complessità, coincide con una situazione strutturalmente imprevedibile, che si può soltanto constatare nel suo darsi materiale nella contingenza.

Il fatto, strettamente legato al momento della osservazione, al tempo stesso soggettiva e “contestuale”, non può essere più isolato nella sua purezza. Di qui la perdita di significato del nesso di causalità, a tutto vantaggio di quelle categorie epistemologiche della imprevedibilità ed incertezza, che sono il tratto comune su cui si fondano le teorie della complessità sociale.

Per comprendere, allora, “il sociale”, in quanto ambiente stabile, occorre svolgere, teoricamente, un’opera di “riduzione” delle possibilità, al fine pratico di contenere e gestire la complessità stessa entro i limiti della “contingenza”, la quale rimane sempre aperta, tuttavia, all’interazione con l’ambiente. Di conseguenza, l’equilibrio che deriva dalle operazioni di riduzione della complessità, dà luogo a punti di stabilità possibile entro un apparato di interazioni dal profilo piatto e orizzontale, radicalmente diverso da quella gerarchia verticale, che caratterizza l’ordine istituzionale tipico della Stato “moderno”.

Ho già detto come si debba a Niklas Luhmann l’applicazione della epistemologia della “complessità” alla comprensione delle dinamiche sociali e alla definizione di “ambiente sociale”. Ho anche aggiunto come ritenga, io, di dover sottolineare una differenza tra l’epistemologia luhmanniana degli anni ’70 – 80 del secolo scorso e l’attuale pragmatismo della globalizzazione.

L’epistemologia luhmanniana, infatti, ha il suo punto di forza, ancora, nell’idea razionalistica e storicistica di “sistema”, con una declinazione, però, del tutto inedita, che si riflette nella variazione semantica dell’aggettivo: da “sistematico” a “sistemico”. Significativa è proprio questa relazione tra continuità concettuale e variazionesemantica.

Sul piano puramente formale, la presenza del “sistema” nell’orizzonte di pensiero di Luhmann sta a dimostrare l’eredità hegeliana propria della sua formazione francofortese; tale profilo biografico-formale conduce ad una questione epistemologicamente sostanziale.

Sta a mostrare, cioè, come rimanga ferma l’idea che la comprensione di ciò che può definirsi “realtà” resti legata alla possibilità di ricondurre il molteplice all’unità, come appunto il riferimento concettuale al “sistema” certifica.

Il nuovo significato che rende ragione della variazione semantica: “sistematico” – “sistemico” è conseguenza del radicale abbandono di un qualsiasi riferimento non empiristico. Il nuovo modello per una comprensione unitaria non si realizza in una forma di trascendimento del molteplice nell’unità del “Tutto”, ma, più empiricamente, in una “riduzione” di variabili; ciò a beneficio della possibilità di abbracciare con un unico atto osservativo, con un unico sguardo dunque, la molteplicità degli eventi-forze, còlti nel loro contingente equilibrio.

Se questa è la lettura luhmanniana, che viene normalmente classificata come “funzionalistico-sistemica”, essa allora ha un esito epistemologico che mostra la sua differenza con l’attuale pragmatismo.

Il “mondo” di Luhmann aveva come orizzonte i confini dello Stato, che contenevano la politica e l’ordinamento giuridico; quello attuale della governance si svolge nello spazio privo di confini, dominato dai potentati economici, più forti della progettualità “ideale” della politica.

La differenza tra i due “mondi” si coglie attraverso l’esempio offerto dal rapporto tra potere e ordinamento istituzionale.

In Luhmann la permanenza categoriale della “dogmatica giuridica”, sia pure riletta nella sua “funzione” di confine semantico del “sottosistema” giuridico, realizza una autosufficienza di questo rispetto a quello politico. Ciò consente di tener ferma la funzione di controllo critico propria del giuridico nei confronti di una normatività, che sia manifestazione immediata delle pretese del politico[ref]Cfr. N. Luhmann, Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Stuttgart 1974, tr. it., Bologna 1978.[/ref].

Nell’empirismo pragmatico contemporaneo, al contrario, la complessità non dà luogo a modalità di comprensione unitaria, ma conduce lo sguardo verso una situazione composta da una molteplicità di intersezioni, che fanno somigliare l’ambiente sociale, più che ad un sistema unitariamente comprensibile, ad un tessuto reticolare[ref]Negli ultimi anni l’applicazione della metafora, o del paradigma, della rete allo studio delle relazioni sociali e in particolare giuridiche è divenuta corrente: tra i testi fondamentali anche per un approccio filosofico-giuridico v., a titolo esemplificativo, M. Castells, The Rise of the Network Society (The Information Age: Economy, Society and Culture, vol. I), Cambridge-Oxford 1996, trad. it. La nascita della società in rete, Milano, 2002; A-L.Barabási, Linked: How Everything is Connected to Everything Else and What it Means for Business, Science, and Everyday Life, New York 2002, trad. it. Link. La scienza delle reti, Torino 2004; F. Ost-M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles 2002; P. Heritier,Urbe-Internet. La rete figurale del diritto. Materiali per un ipertesto didattico, vol. 1, Torino 2003; U. Pagallo, Teoria giuridica della complessità. Dalla ‘polis primitiva’ di Socrate ai ‘mondi piccoli’ dell’informatica: un approccio evolutivo, Torino 2006 (spec. pp. 135-171); A. Calbucci (a cura di), La complessità del diritto. Nuovi itinerari del pensiero giuridico contemporaneo, Napoli 2009. Molto in anticipo sull’emersione del fenomeno di Internet, Enrico di Robilant applicava al diritto il modello della rete già inIl diritto nella società industriale, “Rivista internazionale di Filosofia del diritto”, L, 1973, pp. 225-262.[/ref].

L’attuale, diversa comprensione della realtà conduce all’evaporazione della categoria della politica, storicamente e concettualmente legata alla forma della sovranità statuale, in favore della dominanza della categoria economica, che, in un’economia di mercato, è transnazionale e sovrastatuale.

E’ in quest’ultimo contesto che ritengo vada collocata la attuale nozione di governance, nella quale la visione di un ambiente sociale complesso in equilibrio deve essere rimodulata secondo una immagine di tipo puntistico-reticolare.

La governance implica, quindi, una considerazione, ancora diversa, sia del riferimento al funzionamento di fatto del complesso istituzionale, in generale, sia di quello, specifico, relativo ad un determinato ambito di regolazione normativa.

Il modello che si delinea, attraverso questa prospettiva “regolativa”, infatti, non solo non è verticale, ma neppure “sistemico” à la Luhmann; esso è orizzontale e aperto, come orizzontale e aperta è l’immagine di una rete composta da una molteplicità, a priori indeterminabile, di intersezioni tra eventi fattuali che realizzano un equilibrio compensativo.

La differenza tra i due modelli è tale da mettere in crisi la configurazione “classica” delle istituzioni rappresentative elaborate dalla modernità, che Luhmann (è bene sottolineare) non aveva messo in discussione, pur se rilette in chiave funzionalistico-sistemica[ref]V. Politische Planung, Opladen 1978; tr. it., Stato di diritto e sistema sociale, Napoli 1990. Peculiari sviluppi della teoria di Luhmann si trovano, come è noto, nel pensiero di Günther Teubner. A tal proposito cfr. il suo Recht als autopoietisches System, Frankfurt am Main 1989, tr. it., Milano 1996.[/ref].

4. Evaporato il nesso Stato – politica – diritto, ne segue, sul piano istituzionale, la problematica tenuta concettuale dell’idea di “Stato di diritto” e di democrazia rappresentativa e, su quello giuridico, della categoria di “ordinamento” e della gerarchia delle fonti.

In particolare, utilizzare, sul piano politico, i modelli di governance come equilibrio reticolare, dà luogo ad un esito paradossale, quale è quello costituito dalla contemporanea presenza di due fenomeni strutturalmente antitetici, che non riescono a disporsi in continuità tra loro e neppure a dialogare, sia pure secondo una modalità dialettica.

Da una parte, avanzano e chiedono spazio le prassi di democrazia immediatamente partecipativa, attraverso il diretto coinvolgimento, nei processi decisionali, di coloro che alle decisioni pubbliche dovranno attenersi. Dall’altra, emergono, con sempre maggiore capacità performativa, istanze “tecnocratiche”, espressione diretta degli “interessi” di soggetti che, per la loro struttura socio-economica, non hanno per proprio fine il perseguimento del “bene” pubblico[ref]Nel linguaggio comune si usa il termine “interesse” in modo promiscuo, in relazione, cioè, sia al “privato” che al “pubblico”. Nelle righe del testo, invece, ho volutamente utilizzato il termine “interesse” per la sfera dei soggetti “privati”, destinando il termine “bene” al fine “pubblico”. Questo perché l’ “interesse” è legato al concetto di “bisogno” e il criterio di valutazione è soggettivistico-utilitaristico, proprio della sfera “privata”; il “bene”, invece, evoca un ambito valutativo di tipo “oggettivistico” (per quanto ambigue ed epistemologicamente problematiche siano sia la categoria dell’ “oggettività” sia quella di “bene”), che mi appare più appropriato per soddisfare la sfera “pubblica”. Per questa ragione, la costituzione pubblica del soggetto-attore è una garanzia indispensabile, sia pure solamente “formale” (ma non potrebbe esserlo diversamente), rispetto alla plausibile finalità sociale degli atti performativi.[/ref].

Sul piano giuridico, la crisi della democrazia rappresentativa si traduce nella crisi della legge “democratica” come fonte privilegiata dell’ordinamento, e quindi nella crisi degli elementi strutturali della generalità, dell’astrattezza, della pubblicità. Ciò conduce all’esaltazione di modalità contrattuali e giudiziarie che, snaturate rispetto alla loro classica funzione ordinamentale, si presentano come le matrici del “nuovo” diritto. Con una formula sintetica, si può dire che al criterio giuridico-politico della soggettività legittima o, detta altrimenti, della legittimazione soggettiva, si sostituisce la presa d’atto della pressione fattuale di entità portatrici di interessi abbastanza forti da avere, nella competizione, una capacità di negoziazione.

Ciò trova riscontro, ad esempio, nel darsi di prassi di governance in cui soggetti, la cui originaria costituzione pubblica o privata diviene indifferente, entrano in una relazione contrattuale in quanto meri portatori di interessi, con il fine di produrre una “regolazione” idonea a comporre tali interessi, in una maniera che si ritiene più rapida e soddisfacente di quanto non possano fare gli strumenti ordinamentali.

La crisi della democrazia rappresentativa indotta dal modello di governance comporta la crisi della categoria del “politico”, poiché elimina la possibilità di ideare un progetto; e ciò non senza una ragione epistemologica, che riguarda quella categoria del “tempo” alla quale ho già accennato e che ora intendo approfondire.

La situazione di “equilibrio”, sulla quale si costruisce la governance, coincide, sotto il profilo temporale, con una osservazione puntuale, la cui stabilità si apprezza solo in quanto già così si offre all’osservatore. Proprio in quanto è solo osservabile, non è possibile progettarla. La temporalità è quella istantanea dell’ osservazione .

Qui risiede la differenza strutturale con la sequenza concettuale ordine-sistema, che si proietta nel concetto di ordinamento giuridico.

Tale sequenza, infatti, è attraversata razionalmente da una idea di tempo strutturata dalle categorie di “mutamento” e “durata”, da cogliersi epistemologicamente secondo la chiave della continuità. Come dire che la discontinuità dell’osservazione esperienziale viene trasformata in una continuità prodotta dalla elaborazione razionale[ref]Cfr., sul tema “continuità/discontinuità”, quale emerge in un contesto strettamente “scientifico-epistemologico”, E. Schrödinger, What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge 1944, tr. it. Milano 1995, p. 86 e ss.[/ref]. Basti pensare alla nozione, già messa in luce, di “relazione causale”, che dispone secondo continuità, a fini cognitivi, i diversi eventi del reale, per cui la conoscenza è il prodotto mentale di un percorso tra un prima e un dopo. Un tale modello di ragionamento consente mentalmente di stabile una funzione causale tra un “evento” ed un altro “evento”, che diviene un esito conseguenziale del primo; il presente diviene così lo snodo di una continuità causale tra passato e futuro.

La chiave della temporalità risulta evidente negli elementi strutturali del diritto concepito secondo una prospettiva ordinamentale. Basti pensare al concetto di “norma” che sintetizza semanticamente un nesso razional-causale, e quindi temporalmente dislocato, tra prescrizione, dovere e responsabilità.

L’esempio più facile e scontato è proprio nella struttura di quell’atto normativo denominato “legge”. Essa è un atto il cui fine è durare nel tempo: il “durare nel tempo” è il fattore razionale, che consente di emancipare l’atto dai soggetti fisici che lo pongono in essere, di considerarlo, cioè, un in sé, indipendentemente da quelli. La legge non esprime un equilibrio nell’istante, ma il suo fine strutturale è un dover essere nel tempo.

Il senso della transizione mi sembra che possa essere raccolto nella seguente sottolineatura: come l’ordinare era stato il fine pratico del diritto fondato appunto sul concetto di “ordine” come principio teoretico, filosofico e culturale; così l’equilibriorappresenta l’obiettivo pratico di una attività regolativa – la governance – conseguente al modello epistemologico della “complessità” sociale.

La governance, praticata con una disinvoltura pericolosamente ignorante della costituzione epistemologica della sua nozione, è la causa non contingente della crisi della categoria del “politico” ed è il mezzo che consegna il potere alla tecnocrazia economico-finanziaria, che per sua costituzione, è a- democratica. E’ il potere acefalo della rete.

5. L’iconografia della piramide e quella, opposta, della rete mettono in luce grafica qualcosa di sconcertante, destinato a riflettersi sulla vicenda umana in modo incalcolabilmente rischioso.

Il potere, dall’avere una testa, è divenuto acefalo. Il vertice della piramide è inscindibile dai suoi assi portanti, in salita ed in discesa, che sia un trono o un’aula parlamentare: in ogni caso quel vertice indica una precisa individuazione soggettiva. Esiste un “responsabile” del potere. Può farsi lo stesso ragionamento per i nodi e i fili che tessono e armano una rete? Ciò che è rilevante non sono i soggetti, quanto il loro annodarsi eriannodarsi: l’effettività del potere risiede proprio in questo tenersi in modo indefinitamente plurimo e diffuso.

Se la piramide ha reso spesso crudele il potere, la rete lo rende privo della umanità soggettiva del corpo. Ciò si mostra in tutta la sua inquietante portata se solo si presta attenzione alla circostanza della saldatura tra le tecnologie cibernetico-informatiche e la rete: la decisione umana visibile è sostituita dalla anonima performatività dell’algoritmo, in virtù del quale l’umano certamente non scompare – chi costruisce infatti gli algoritmi e il loro modo di operare? – ma diviene invisibile. L’uomo non vede neppure i dati che scatenano la performatività dell’algoritmo, così come i piloti americani che sganciarono la “bomba” non videro i corpi ardenti delle vittime, migliaia di metri sotto di loro.

L’algoritmo fa sentire la sua fredda, oggettiva, non-umana performatività dalle operazioni finanziarie a quelle belliche: un incrocio virtuale di dati è sufficiente a scatenare una tempesta monetaria o a far giungere un “drone” tra le montagne dell’Afghanistan.