Le regioni del sottosuolo
Il tema del sottosuolo può essere declinato in senso lato o in senso stretto, se si considera, nel secondo caso, questa espressione di paternità dostoevskiana. Un’indagine del sottosuolo, come qualcosa che eccede la razionalità, o la precede nel vasto mondo del prerazionale, è sicuramente stata un’esigenza primaria dell’essere umano.
Nell’Apologia di Socrate, una delle accuse mossa per imbastire il processo è proprio quella che riguarda l’insegnamento del maestro: egli parla di «ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra». A cosa alludeva in questo passo il discepolo Platone? Probabilmente a un territorio che i filosofi dell’antichità hanno dissodato ma non scoperchiato per giungere alle radici. Un mondo che comprende la contraddizione, l’irrazionale, quelle eccedenze che secondo Emil Cioran caratterizzano l’essenza dell’uomo del sottosuolo: «Un uomo che si distrugge non per una carenza ma per una sorta di pienezza pericolosa». Un territorio che è abitato dalle creature forse più estreme che uno scrittore abbia mai potuto creare: gli uomini del sottosuolo dostoevskiano sono le più vivide rappresentazioni del nichilismo della perversione e della malvagità. Una propensione che valse a Dostoevskij, da parte del critico Ivanov, l’etichetta di “talento crudele”, più di ogni altro predecessore russo o europeo.
Partiamo dal big bang dell’uomo moderno: Dostoevskij scrisse le Memorie dal sottosuolo nel 1864. È un romanzo in cui un uomo inizia a narrare di sé, delle sue idee, del perché è comparso e doveva comparire in seno alla nostra società. Tutto inizia con un richiamo alla malattia fisica, un male al fegato che è già preludio di un morbo esistenziale:
«Io sono un uomo malato… astioso. Sono un uomo malvagio. Credo di essere malato di fegato. Del resto, non ne so un accidenti della mia malattia e non so neppure esattamente cosa mi faccia male».
Dostoevskij ritrae in questo romanzo il prototipo dell’uomo irrazionale, cioè l’uomo che rinuncia alla ragione per affondare nelle profondità più abiette e deteriori dell’animo umano. Il personaggio è un impiegato della complessa e schiacciante burocrazia russa, un automa del sistema che spesso rimaneva frustrato e chiuso nel proprio ambiente, privo di qualsiasi speranza di mobilità. Si trattava di un sistema molto gerarchico, ogni uomo era inserito in una precisa casella, al di sopra della quale stava una casella superiore e così a salire fino ad arrivare ai massimi vertici; l’uomo che ha vissuto una vita dentro questo meccanismo, all’improvviso attua una sorta di ruminazione interiore che lo porta a snocciolare – nella prima parte del romanzo – una confessione interiore, una ìcherzalung (un racconto in prima persona) della sua crisi interiore: egli si presenta come essere abietto, immorale, astioso, malvagio. Si diverte a scapricciare su fantasie sadiche di rivalsa nei confronti dei colleghi e al contempo si abbassa a idee masochistiche di autoflagellazione. È un uomo malmostoso, livoroso, pieno di tic, di paranoie – oggi diremmo – che si perde nei meandri della sua stessa abiezione.
In una delle prime pagine, dice: «Quanto più avevo coscienza del bene o di tutto questo bello e sublime, tanto più a fondo m’immergevo nel mio brago e tanto ero bravissimo a immischiarmici fino alla testa». Seguono i veri e propri ricordi, relativi ad avvenimenti della sua vita. Dalla confessione in prima persona si passa, nella seconda parte, una narrazione a ritroso di memorie vissute. L’elucubrazione, esacerbata dai consueti eccessi verbali e dalle tipiche manifestazioni nervose dei personaggi iperrazionali di Dostoevskij, viene trasferita sul piano dell’azione in un movimento parossistico di perversioni volte a dimostrare che il male è anche materiale, vivo, agito.
Dopo una notte trascorsa a stordirsi tra la neve fradicia e sudicia di Pietroburgo, si trova a fianco di Liza, una giovane prostituta, e contro di lei inizia un gioco perverso in cui sadicamente si diverte a “rovesciarle l’anima”. Alterna analisi impietose del suo status di perduta a sogni di fantasticherie e rivalsa, in cui lui si erge a giudice, aguzzino, mentre le scava la fossa dell’umiliazione e della vergogna. Liza si attacca a questo sogno scorgendo una pietà, un’autenticità verbosa ma che nel suo cuore già ferito fa velocemente breccia.
Tuttavia, l’uomo del sottosuolo, disabituato alla ‘vita viva’, può soltanto realizzarsi nell’annientamento del sogno di rivalsa e di resurrezione di una poverina gettata al mondo per soffrire:
«Anche nelle mie fantasie del sottosuolo non mi figuravo l’amore se non come una lotta che cominciasse sempre dall’odio e finisse col totale assoggettamento morale e poi però non sapevo che farmene di un oggetto assoggettato. E cosa c’è di inverosimile allora se io ero già arrivato a una simile perversione morale, se m’ero già così disabituato alla vita viva che avevo pensato bene di deplorare e svergognare Liza».
A tagliare, come un rasoio, le due dimensioni – la confessione demoniaca e l’azione abietta – è la teoria del crollo dell’impianto razionale che è sintetizzata nella contro-formula matematica due per due fa cinque. Ecco, questo impianto razionale che Dostoevskij chiama il muro, l’uomo del sottosuolo lo vuole infrangere con tutta la sua potenza distruttiva ed eversiva. Chiaramente dentro questa formula è compresa la rappresentazione utopistica della società socialista. Secondo Dostoevskij, tale configurazione imbriglierebbe l’uomo all’interno di formule precostituite come quelle della felicità a prezzo della libertà, l’uniformità dell’ essere umano rinchiuso nel falansterio – tipica costruzione di stampo socialista, precursore del casermone sovietico.
Stipare l’uomo dentro questi edifici, siano essi fisici siano essi morali, è una violenza contro la sua libertà e contro il suo diritto di vivere secondo l’impulso vitale, irriducibile, la vera vita:
«Che gusto c’è di volere sulla base di una tabella aritmetica? Ma c’è di più: si trasformerebbe subito da uomo in uno spinotto d’organo o in qualcosa del genere. Perché l’uomo senza desideri, senza volontà, e senza possibilità di scelta cos’è se non appunto il tasto di una tastiera?».
Per l’uomo del sottosuolo le tenebre, l’irrazionale, il caos e la maledizione sono spazi da preservare e se si pretende di soffocarli con la razionalità, il castello crollerà e l’uomo diventerà pazzo per affermare sé stesso. Per questo motivo egli è il prototipo degli uomini in rivolta, di quei demonî della ragione che saranno anche Ivan Karamazov e Kirillov dei Demonî.
Le “ragioni” del sottosuolo
La genesi di questo romanzo ha un richiamo al vissuto dell’autore russo; in quel periodo Dostoevskij sta al capezzale della moglie moribonda e nonostante tutto è interamente assorbito dal compito di terminare questa pur lacerante scrittura. Legge il testo di Černyševskij Che fare? (Schto delath?), un pamphlet che veicolava le idee socialiste in Russia e che sarebbe diventato ben preso una sorta di Bibbia per i nuovi credenti del cambiamento politico e della rivoluzione. In questo preciso momento, Dostoevskij partorisce l’idea dell’uomo del sottosuolo, un uomo malato, vissuto per 40 anni come un topo nel suo sotterraneo, che ha covato rabbia frustrazione odio, e che ora è pronto a confessarsi di fronte a tutti: rifiuta la legge naturale, i dati delle scienze, la matematica.
Un uomo che è nato sotto il rigoglio del razionalismo occidentale ma che si scaglia ardentemente contro le costruzioni ottimistiche, utilitaristiche che questo mondo prospetta. Rifiuta il progetto socialista della costruzione di una società felice a prezzo della vita vera, rifiuta il falansterio, il palazzo di cristallo, pur di non abdicare all’essenza del sottosuolo: la contraddizione.
Un particolare tipo di contraddizione, condita dal veleno di desideri insoddisfatti: noia, inerzia, desiderio di umiliare ed essere umiliati. L’uomo del sottosuolo è insomma un coacervo di sentimenti irragionevoli, di visioni di vendetta miste a pentimenti, capace di pensarsi come un insetto, un topo, un essere abietto e subito dopo un illuminato al di sopra dei suoi simili che considera filistei e meschini.
Egli è differente dagli altri perché differito (in sé stesso) nei sentimenti, per eccedenza di coscienza: «Sentivo continuamente in me una quantità di elementi i più contrari a questo, li sentivo ribollire in me, questi elementi contrari».
«Allora signori, non è il caso, una buona volta, di prendere a calci tutta questa ragionevolezza, di mandarla in frantumi, unicamente con lo scopo di mandare al diavolo i logaritmi e di tornare a vivere secondo la nostra stupida volontà? […] Voi m’accusate signori, d’aver filosofeggiato: per forza, quarant’anni di sottosuolo! Permettetemi di fantasticare un po’. Vedete: la razionalità , signori, è una bella cosa, non si discute, ma la razionalità è solo la razionalità e soddisfa solo la facoltà ragionativa dell’uomo e il “volere” è l’espressione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana che comprende la ragione, ma anche tutti i veri capricci. E sebbene la nostra vita in questa manifestazione risulti il più delle volte una porcheria, è comunque vita e non solo l’estrazione di una radice quadrata. È del tutto naturale, per esempio, che io voglia vivere per soddisfare le mie capacità di vivere e non per soddisfare solo la mia capacità ragionativa, cioè qualcosa come un ventesimo della mia intera capacità di vivere […] io ribatto per l’ennesima volta che c’è un solo caso, solo uno in cui l’uomo può intenzionalmente, consapevolmente desiderare per sé qualcosa di dannoso, o di stupido, o addirittura di assolutamente insensato e proprio per avere il diritto di desiderare per sé anche la cosa più insensata e non essere vincolato dall’obbligo di desiderare solo ciò che è intelligente. […] Alcuni sostengono che si tratta del bene più prezioso per l’uomo: la libera scelta».
Qui ritorna chiaramente la grande lezione di Berdjajev, profondissimo e acuto analista del rapporto tra libertà e male in Dostoevskij: il male è inesplicabile senza la libertà. Questa idea pone al centro un’antinomia: senza la libertà, il responsabile del male sarebbe Dio. Ma la libertà è irrazionale e perciò può creare sia il bene che il male; gli uomini del sottosuolo sembrano lottare strenuamente contro questo peso, per scrollarselo di dosso; in prima istanza attraverso la negazione di Dio: impossibile non citare le due celebri formulazioni dell’ateismo dostoevskiano, quella di Ivan Karamazov, di cui però egli pronuncia solo la seconda parte, lasciando completare la prima parte a noi ascoltatori, a noi lettori. lvan la pronuncia nel suo dialogo con il diavolo: «(se dio non c’è)… tutto è permesso», riproposto nell’altra celebre formula, questa volta pronunciata da Kirillov nel romanzo I demonî: «O io o Dio».
Ancora, nella Leggenda del grande Inquisitore, straordinaria vetta di letteratura contenuta nel romanzo I fratelli Karamazov, è lo stesso popolo, incapace della libertà originaria, a mandare al rogo Cristo, uccidendolo per la seconda volta.
In seconda istanza aggiunge Berdjajev: «La via della libertà trapassa in arbitrio, arbitrio porta al male, il male al delitto».
L’omicidio è figlio della libertà e Dostoevskij ne è stato un potentissimo fisiologo descrivendone i prodromi, le intenzioni, le macchinazioni interiori, quelle esteriori, le dinamiche, le conseguenze. Ma oltre alla psicologia del delitto così sminuzzata nel particolare, Dostoevskij ha analizzato le implicazioni metafisiche di questa azione, ravvisando in essa l’oltrepassamento di un limite morale che degenera in omicidio ontologico, distruzione di un’unità inalienabile che è la persona, l’altro.
«E se un mistero c’è, allora anche noi abbiamo il diritto di predicare il mistero e d’insegnare agli uomini che la non libera decisione dei loro cuori è ciò che importa, e non l’amore, ma il mistero, al quale essi hanno l’obbligo di assoggettarsi ciecamente, e addirittura indipendentemente dalla loro coscienza. E appunto così abbiamo fatto noi. Noi abbiamo emendato le Tue gesta abbiamo dato loro per fondamento il miracolo il mistero e l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati che di nuovo li conducessero come un gregge e che dai loro cuori fosse stato tolto finalmente, un dono tanto tremendo, che aveva arrecato loro tanto danno. […] a che dunque sei venuto qui a darci impaccio? E che vuoi tu, che in silenzio e intensamente sei venuto ora qui a darci impaccio? Ascoltalo dunque: noi non siamo con te, siamo con lui: ecco il nostro segreto».
Un passaggio che indica inequivocabilmente la sua appartenenza alle regioni del sottosuolo: il brano infatti riprende, quasi identiche, le parole dell’uomo del sottosuolo quando questi rifiuta il palazzo di cristallo. Qui, il grande inquisitore se ne fa portavoce ma per ribadire la tesi contraria, che all’uomo basta la felicità terrena, materiale, tentazione che Cristo rifiutò nel deserto: «Perché tu rifiutasti questo terzo dono? Tu avresti realizzato in pieno tutto ciò che l’uomo cerca su questa terra e cioè: dinanzi a chi genuflettersi, a chi affidare la propria coscienza, e in che modo, infine riunirsi in un indiscusso, comune e concorde formicaio, giacché l’esigenza di un’ unione universale è il terzo e ultimo assillo degli uomini».
Forme del Male
Il male del sottosuolo, insomma si staglia su due piani: quello meramente di idea (gli uomini del sottosuolo agiscono nel male partendo come Raskol’nikov da un’idea da un rovello filosofico che loro percepiscono come intera essenza della loro vita), e poi quello di azione, del male agito e performato.
Luigi Pareyson in Filosofia romanzo ed esperienza religiosa, fa un’ampia disamina dei casi di coscienza e dei personaggi del male che animano le pagine dostoevskiane suddividendole in categorie tipologiche: la ribellione, sottoforma di titanismo e amoralismo; la perversione, sottoforma di profanazione e crudeltà, l’abiezione e distruzione di sé.
Per quanto riguarda la prima categoria si potrebbe eleggere a rappresentante per eccellenza Raskol’nikov; il male come trasgressione della norma, di una hybris, questo è il caso specifico del personaggio di Delitto e castigo. Il suo ribellismo, che è incarnato nello stesso nome Raskol’ – che in russo significa scisma – si alimenta proprio della scissione, dello sdoppiamento.
Un chiaro segno del suo sdoppiamento viene trasposto in Dostoevskij nella dimensione onirica: un bellissimo passo in cui Raskol’nikov sogna una cavallina che viene uccisa a frustate e in cui chiaramente sublima il suo desiderio interno di pentimento che, va ricordato, non avverrà mai sul piano razionale.
In questa medesima categoria rientra il teorico della ribellione Ivan Karamazov che si inventa un vero e proprio trattato per spiegare al fratello Alësa le ragioni del suo ateismo: narra una serie di episodi in cui i bambini vengono sottoposti a violenze inaudite. Sono scene che fanno da sottofondo al dilemma di Ivan: la sofferenza anche di un solo innocente, le lacrime miti inoffensive di una bambina che si batte il petto con il suo minuscolo pugno, invocando il buon Dio perché l’aiuti, non valgono, secondo il fratello ateo, il prezzo dell’armonia universale e pertanto egli restituisce il biglietto, rifiutando di aderire al progetto divino.
Nessun personaggio incarna meglio la perversione come Nikolaj Stavroghin, il principe che inaugura le pagine più intense e crude del romanzo I demonî. Questo romanzo è imperniato sui giovani della generazione degli anni ‘60, i nichilisti e i nečaeviani, i rivoluzionari che assorbirono le idee socialiste e su quelle fondarono il progetto di un uomo nuovo, libero dai legacci della fede e del regime zarista. Stavroghin può essere considerato la mente, il primus inter pares di questa combriccola di facinorosi.
Pareyson considera Stavroghin l’uomo della dissoluzione e della disgregazione interiore, in cui ancora una volta lo sdoppiamento degenera in distruzione e culmina con la distruzione di sé e di tutti quelli che vengono a contatto con lui. Così Dostoevskij lo descrive nei taccuini: «Carattere cupo, appassionato, demoniaco, disordinato, senza misura. Si pone il problema: essere o non essere? Vivere o distruggersi».
Chiaramente Stavroghin sceglie la seconda: l’azione che incarna la sua dissoluzione nichilista è lo stupro di una bambina. Vale la pena di aprire una parentesi: il bambino innocente e inerme è al centro della metafisica dostoevskiana e diventa la pietra di volta dell’impianto morale. Il bambi-no sofferente, in particolare, quello incolpevole la cui uccisione non può far parte dell’ordinamento morale di un mondo che Ivan rifiuta e che non vuole accettare. I bambini, dice Dostoevskij, sono l’immagine di Cristo, violentare e ucciderne uno significa allora profanare alla radice l’immagine luminosa di libertà che è lo stesso fondamento della vita umana.
Il risultato di questo atto, che con una serie di rimandi iconografici e simbolici Dostoevskij accomuna alla profanazione delle icone, è l’autodistruzione. La confessione di Stavroghin alla cella di Tichon ne I demonî è un’autoaccusa impietosa, una condanna a morte che il principe delle tenebre firma con la sua coscienza. Le parole che scandisce sono l’epitaffio della sua esistenza, morto dentro prima che la morte effettiva faccia il resto.
Dopo, è solo annientamento, Il Principe s’impicca, sigillando con un suicidio che nulla ha a che fare con quello di Kirillov scaturito dalle aporie della ragione di fronte alla fede. Stavroghin, oltre Sisifo, è l’uomo dell’oltre soglia, il primo Übermensch. Altrimenti, il primo testimone della morte di dio.
Riferimenti bibliografici
Dostoevskij, F.M. Delitto e castigo, Einaudi, Torino 1993
Dostoevskij, F.M. I demonî, Einaudi, Torino 1994
Dostoevskij, F.M. Memorie dal sottosuolo, Rizzoli, Milano 2001
Berdjajev, N., La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Torino 1981
Pareyson, L., Dostoevskij: Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993
Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1992
Vjačeslav, I., Dostoevskij. Tragedia, mito mistica, Il Mulino, Bologna 1994