L’VIII uscita di Pagine Heideggeriane ospita un contributo su Heidegger e Fichte per la penna di Luigi Daniele. Il saggio si dipana attraverso due direttrici fondamentali che sono, da un lato, la domanda riguardante lo statuto della filosofia ed il suo punto d’inizio assoluto; dall’altro, l’interpretazione fenomenologica del Non-Io proposta da Heidegger fa nel corso del ’29.
Francesca Brencio
Urwissenschaft, preteoretico e mondo: Heidegger legge Fichte
di
Luigi Daniele
Introduzione
Non è certo comune trovare i nomi di Heidegger e Fichte l’uno accanto all’altro: quando si pensa ai vari confronti intrapresi da Heidegger con gli autori che hanno segnato la storia della filosofia, quello con Fichte occupa certamente una posizione di secondo piano. Sarebbe però lecito chiedersi se la minore attenzione attribuita alla lettura heideggeriana del filosofo di Rammenau sia da imputare ad una effettiva scarsa importanza del pensiero fichtiano nello sviluppo di quello di Heidegger, o se invece non ci si trovi a tutti gli effetti di fronte ad una sottovalutazione che andrebbe quantomeno ridimensionata, al fin di far emergere il rapporto tra i due in tutto il suo plesso problematico.
Il non ampio numero di studi critici disponibili sul tema, soprattutto in lingua italiana, non aiuta di certo a dipanare la matassa. La circostanza è, tra l’altro, singolare se si pensa che la tradizione accademica italiana non è certo estranea tanto agli studi heideggeriani (che anzi in Italia hanno formato molta filosofia cosiddetta militante) quanto soprattutto agli studi sull’idealismo tedesco, e difatti i seminari heideggeriani su Schelling o Hegel hanno avuto ben maggiore fortuna.
Cercare di sviluppare interamente il tema in questa sede sarebbe presuntuoso. In questo saggio, però, c’è forse la possibilità di far emergere l’importanza del pensiero fichtiano per Heidegger in riferimento ad alcune tematiche.
Ciò avverrà attraverso l’esposizione di due temi molto presenti nelle prima fase del pensiero heideggeriano: il primo, è quello riguardante lo statuto della filosofia ed il suo punto d’inizio assoluto; il secondo ha invece ad oggetto l’interpretazione fenomenologica del Non-Io che a tal proposito Heidegger fa in un corso del ’29. La prima tematica verrà illustrata attraverso la lettura di un corso intitolato “Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem” risalente al primo periodo friburghese di Heidegger, quand’egli si trovava lì nelle vesti di giovane assistente di Husserl e nel corso del quale ha l’occasione di confrontarsi con Fichte in merito alla determinazione della filosofia come scienza originaria e fondamentale (Urwissenschaft) rispetto alle varie scienze. La seconda invece sarà rintracciabile in un corso del 1929, quindi dell’Heidegger ormai maturo con alle spalle la fresca pubblicazione di Essere e Tempo. Il corso, almeno secondo il titolo sotto cui venne tenuto, ha ad oggetto l’idealismo tedesco nel suo intero, ma è in realtà focalizzato prevalentemente sul pensiero di Fichte. Proprio l’assoluta predominanza, in questa Vorlesung oggi pubblicata nel Band 28 della Gesamtausgabe, della parte su Fichte rispetto a quelle su Schelling ed Hegel fa di questo testo la sede principale del confronto col pensiero fichtiano. La pluralità di tematiche affrontate rende impossibile, come detto in precedenza, sviluppare in questo breve saggio un’analisi approfondita del corso. Si tenterà, però, di mettere in relazione questo corso con quello del ’19, mettendo in luce di conseguenza come la Vorlesung sull’idealismo tedesco e la scelta di soffermarsi particolarmente sul pensiero fichtiano affondino le proprie radici in riflessioni precedenti; in particolare, si cercherà di evidenziare come la lettura fenomenologica del Non-Io possa considerarsi in linea con la ricerca, già presente nel corso del ’19, di un ambito originario da cui sorge l’oggetto delle scienze.
- La Filosofia come Urwissenschaft e la ricerca di una dimensione pre-teoretica
Se è vero che Fichte, come detto in apertura, non ha mai ricoperto per Heidegger il ruolo che ricopriranno, ad esempio, Kant o Nietzsche, ciò non autorizza a trascurare la sua presenza nella formazione giovanile di Heidegger, quantomeno nei termini di una presenza costante all’interno degli ambienti in cui questa formazione ha avuto luogo: in quanto allievo di Rickert nonché frequentatore di esponenti del neokantismo tedesco, ricco di suggestioni fichtiane, Heidegger è stato fin dagli anni della sua formazione in contatto col pensiero di Fichte.
Il primo tentativo di un confronto non esclusivamente privato col pensiero di quest’autore viene da Heidegger nell’ambito di un corso tenuto nel Kriegsnotsemester del 1919. Il corso fu tenuto sotto il titolo “Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem” e fornisce ad Heidegger l’occasione di riflettere sullo statuto della filosofia, sulla fondatezza delle sue pretese di scientificità e sulle aporie che questa pretesa solleva.
Ed è a tal proposito che l’incontro con Fichte è inevitabile. L’idea heideggeriana dello statuto della filosofia manifesta infatti importanti affinità con la fichtiana Wissenschaftslehre[1]. Punto di partenza per entrambi è la volontà di individuare una differenza tra la filosofia e le semplici Weltanschauungen: se è vero che la Filosofia è sempre anche Weltanschauung e che ha uno sviluppo storico apparentemente caotico e contraddittorio, come può la Filosofia essere un sapere assoluto, certo, e quindi scientifico? È possibile risalire dalle singole scienze, che si occupano di un ente specifico, come le scienze esatte, ad una scienza dell’essere in generale? Queste le domande che Heidegger pone in apertura del corso del ’19.[2] Per caratterizzare la Filosofia in maniera radicalmente diversa dalla semplice Weltanschauung, facendola scienza dell’essere e quindi dandole un ruolo diverso (e più originario) rispetto alle scienze, sarà necessario coniugarla nei termini di una Ur-wissenschaft, una scienza cioè, che, fichtianamente, possa essere non solo il fondamento delle scienze singole, ma di ogni rapportarsi della coscienza ad un qualcosa, in tutte le sue possibili forme. Scienza originaria (la particella Ur rimanda infatti a ursprünglich, originario), sia nel senso di una scienza che stia a fondamento delle altre scienze, sia come scienza dell’origine, in quanto indagante l’ambito da cui si origina il materiale delle scienze.
Dare alla filosofia un fondamento certo attraverso il carattere della scientificità è una preoccupazione comune a tutta la filosofia moderna, fin da Cartesio. Tuttavia, fa notare Heidegger, con la filosofia critica l’intento di fondare scientificamente la filosofia viene a declinarsi in maniera radicalmente nuova, perché si passa ad indagare le condizioni trascendentali di possibilità di conoscenza da parte della coscienza. Questo avviene non attraverso l’analisi psicologica della coscienza e la ricerca degli assiomi generali che rendono possibile l’operare psichico di essa, bensì attraverso, appunto, l’individuazione della logica trascendentale che sottostà alla coscienza. Ciò vale in particolar modo per quello che Heidegger definisce il metodo critico-teleologico, il cui sviluppo trova proprio nel pensiero di Fichte una fase fondamentale:
Fichte, sviluppando il pensiero critico di Kant, è stato il primo a riconoscere nel metodo teleologico il metodo della dottrina della scienza, cioè della filosofia. Le forme dell’intuizione e del pensiero, gli assiomi e i principi dell’intelletto, le idee della ragione, che Kant aveva cercato di dimostrare come le condizioni di possibilità della coscienza conoscente (in una deduzione metafisica e trascendentale), Fichte, per la prima volta, ha cercato di dedurli sistematicamente da un principio unitario e con una metodologia unitaria, rigorosa, e cioè come il sistema degli atti necessari della ragione richiesti per il fine della ragione stessa. La ragione può e deve essere compresa solamente a partire da se stessa; le sue leggi e le sue norme non possono essere dedotte da un contesto che le sia estraneo.[3]
Tuttavia, ponendo l’assolutezza dell’Io come compito mai realizzabile e demandando al piano pratico lo scioglimento del contrasto tra Io e Non-Io, Fichte ricadrebbe in un costruttivismo dialettico che fa del suo sistema un circolo inesauribile, mettendone a repentaglio la fondatezza:
È vero che Fichte ha elaborato con tutta la radicalità possibile il pensiero teleologico e ha cercato il fine della ragione in essa stessa che se lo fissa da sola nell’assoluta conoscenza e considerazione di sé, ma egli era allo stesso tempo convinto di poter derivare la molteplicità e pluralità delle funzioni razionali, che sono qualitativamente disparate, da questo puro e semplice atto originario, e di poterlo fare con una pura deduzione, cioè superando di continuo i limiti posti. Il suo metodo teleologico si capovolse in una dialettica costruttiva.[4]
Quest’accusa, però, non coinvolge solo Fichte, di cui anzi, come visto, si sottolinea un merito storico, ma investe ogni costruttivismo che si sviluppi sulla base di un principio “nascosto e non chiarito”. Fichte commetterebbe pertanto un errore tipico di ogni dialettica. È chiaro che questa prospettiva spinge Heidegger a criticare la tendenza alla base di questa dinamica, invece di criticare il singolo sistema fichtiano:
La dialettica, nel senso dello scioglimento di contraddizioni da porre sempre di nuovo, è oggettivamente inesauribile, e la posizione delle contraddizioni è possibile dal canto suo solo grazie a un principio nascosto e non dialettico, il quale, in quanto nascosto e non chiarito, non è in grado di fondare in un senso genuino i tipi e validità delle forme e delle norme dedotte. La dialettica antitetico-sintetica non si può mettere in moto da se stessa, essa resta condannata a una quiete infruttuosa oppure si sviluppa sulla base, non voluta espressamente e dunque metodologicamente casuale, di una datità fattuale.[5]
Come rilevato da Ardovino, questo tipo di critica, benché sia già all’interno di una prospettiva fenomenologica, si inscrive ancora nell’orizzonte teoretico del neokantismo, come dimostra il fatto che, nel corso della Vorlesung, Heidegger presenti il trascendentalismo a lui coevo sotto una luce tutto sommato positiva, diversamente a quanto avverrà alcuni anni più tardi, quando il neokantismo sarà coinvolto nella più ampia critica al soggettivismo moderno.[6]
Ciò che qui conta sottolineare, però, è che la critica al costruttivismo dialettico porta Heidegger a rifiutare non solo il primato fichtiano della sfera pratica, ma anche il primato tradizionalmente attribuito alla sfera teoretica. La Urwissenschaft non può essere una scienza teoretica accanto alle altre, con un proprio oggetto definito e delimitato rispetto alle altre scienze singole. Se così fosse, infatti, non potrebbe essere scienza dell’origine: ciò che viene ad essere oggetto del teoretico, infatti, è per Heidegger l’ente già entificato dalle scienze, l’oggetto già in qualche modo “incastrato” negli schemi delle scienze e che ha pertanto perduto il suo carattere d’originarietà. L’oggetto della teoresi ha perso la sua provenienza da un ambito più originario per assumere le vesti richieste dalla scienza che lo indaga, per rispondere ad un determinato modo di interpretare il rapporto soggetto-oggetto. Il teoretico, per Heidegger, è sempre nicht-prinzipiell, non principiale; ciò che è afferrato teoreticamente è sempre das Ent-sprungene, ciò che è originatosi da qualcosa di più originario.[7]
La ragione di ciò è che, secondo Heidegger, è il teoretico stesso rinviare a qualcosa di più originario, che egli chiama das Vortheoretische, che potremmo tradurre con “Pre-teoretico”.[8] Questo è appunto l’ambito del presentarsi dell’oggetto alla coscienza, non nel senso di uno star di fronte dell’oggetto al soggetto, come nell’atteggiamento teoretico, bensì nel senso di un Erleben, un vivere ciò che si dà alla coscienza nei termini di un Erlebnis (la scelta del termine, tra l’altro, non può non richiamare subito Husserl, testimoniando la sua ancora forte influenza sul giovane Heidegger). Il preteoretico è la dimensione dell’es gibt, ovvero del venire ad essere, nei termini di un apparire alla coscienza, di qualcosa che viene assunto in tutto il suo carattere non-teorico[9] e quindi vissuto nei termini di un Er-eignis,[10] di un evento.
La dimensione preteoretica si configurerà dunque, potremmo dire, come la condizione ontologica di possibilità per l’incontro ontico con l’ente, cioè come l’ambito ontologico in cui si disvela il fenomeno che verrà poi oggettivizzato dalle scienze, entificato ed incasellato in un determinato modo di intendere il rapporto soggetto-oggetto. Il preteoretico è il luogo del faktisches Leben, intesa come la dimensione concreta in cui la coscienza intrattiene il rapporto con l’essere.
Esso quindi non va tanto inteso come un campo più sostanziale e, potremmo dire, sottostante all’ambito delle scienze teoretiche: definire il suo oggetto nei termini della scienza è, oltre che impossibile, fuorviante; si tratta, piuttosto, proprio di sottolineare il presentarsi alla coscienza delle Erlebnisse, dei vissuti, all’interno della vita stessa della coscienza. Se nell’atteggiamento teoretico (tanto in quello psicologistico quanto in quella trascendentale) vi è una coscienza di fronte a cui si presenta un fenomeno, nella dimensione preteoretica la coscienza ed il fenomeno si coappartengono nell’Erleben, nel vissuto del loro presentarsi reciprocamente, che è un Er-eignis, un accadere non riducibile al rapporto soggetto-oggetto. Proprio l’uso sistematico del termine Erlebnis aiuta, con il significato che esso ha nella tradizione fenomenologica, a capire meglio con cosa abbiamo a che fare nel Vortheoretisches: non tanto di un oggetto diverso, primigenio rispetto a quello delle scienze, ma di un oggetto visto con un atteggiamento diverso, quel fragendes Verhalten, atteggiamento domandante, di cui parla Heidegger e che esprime la necessità, se ci si vuole occupare della Urwissenschaft, di mantenere aperta questa dimensione originaria, pur con tutta l’enigmaticità che il suo concetto si porta dietro, testimoniata dall’andamento della Vorlesung che procede, con un ritmo tipicamente heideggeriano (ma più in generale fenomenologico), più attraverso l’esclusione di risposte affrettate che per definizioni nette.
L’Ereignis pre-teoretico si costituisce come un evento di coappartenenza e appropriazione reciproca tra soggetto e fatto, che proprio in questa corrispondenza si fa mondo:
[…] Io ci sono con il mio io completo, esso vi risuona, come abbiamo detto, è una esperienza propria a me, ed è così che io la vedo; ma non si tratta di un processo, bensì di un evento [Ereignis] (un non-processo, nell’esperienza dell’indagare un resto dell’evento). L’esperienza vissuta non mi sta davanti come una cosa che io addito, come un oggetto, ma io stesso me ne approprio ed essa è l’evento che, secondo la sua essenza, si fa appropriare. […] Le esperienze vissute sono eventi in quanto esse vivono di ciò che è proprio ed è solo così che vive la vita. [11]
Il pre-teoretico, dunque, è il luogo della pura fatticità, esso non può e non deve venir fondato, perché è il luogo del puro farsi-mondo da cui anzi si origina tutto ciò che in seguito necessita d’esser fondato teoreticamente. Non si può a questo proposito tacere la forte provenienza fichtiana del tema della fatticità (Faktizität), su cui Heidegger si concentra in questo periodo. Se è vero che il termine è in un primo momento assente dal pensiero di Fichte (si pensi alla WL del 1794), è innegabile che a partire dal 1799 il termine guadagna sempre più spazio nella riflessione dell’autore, come evidente anche dalla Dottrina della scienza del 1801. Che Heidegger utilizzi un termine fichtiano e lo investa di una centralità assoluta all’interno del suo percorso teorico durante gli anni friburghesi è sicuramente sintomatico del passaggio, per il tramite del neokantismo, di concetti fichtiani all’interno della fenomenologia. Se quindi il preteoretico è condizione di possibilità dell’incontro con il fenomeno, ciò avviene perché, nel Verhalten che lo indaga, non si perde la provenienza con la vita stessa da cui scaturisce: ogni atteggiamento teoretico rimanda (zurückweist) ad uno strato fondamentale della vita in sé e per sé (in eine Grundschicht des Lebens an und für sich).[12] Ogni atteggiamento teoretico riposa dunque su un «autoafferantesi esser-vissuto dei vissuti» che è l’«intuizione comprendente, ermeneutica».[13]
Ma se la filosofia, come Urwissenschaft, dovrà volgersi al suo oggetto con questo sguardo; se l’oggetto della Urwissenschaft sarà la sfera preteoretica, come luogo del presentarsi delle cose da sé stesse, essa non potrà non coincidere col metodo fenomenologico: la filosofia intesa come Urwissenschaft sarà necessariamente fenomenologia, volta ad indagare le modalità di questo disvelamento. La fenomenologia si caratterizzerà, dunque, come vortheoretische Urwissenschaft, come recita il titolo della seconda parte del corso,[14] e sarà in tal modo fedele al principio husserliano di analizzare le cose così come si danno sé stesse, analizzando le modalità di disvelamento dell’essere, con un’ermeneutica che non riduca l’ente ad oggetto ma lo descriva nella sua fatticità vitale.[15]
- Filosofia, Tathandlung ed Erleben fenomenologico
Come si accennava in precedenza, individuare una sorta di punto primo del sorgere della coscienza, da cui si origina ogni materiale possibile per essa, ed in tal modo fornire una fondazione ad ogni teoresi, non è una prerogativa solo di Heidegger e Fichte, e se l’analogia tra i due si esaurisse qui, sarebbe poca cosa. Non vi sarebbe motivo di associare questi due autori, se in essi la funzione fondativa affidata alla Filosofia non si esplicasse soprattutto nel rintracciare questa fondazione in un qualcosa che è già da sempre in atto; è proprio su questo punto, infatti, che sembra lecito rinvenire un’importantissima comunanza tra i due: sia per Fichte che per Heidegger il carattere peculiare dell’origine sta nel suo esser data di fatto, in maniera originaria, e solo in seguito afferrata teoreticamente. Questa tendenza è strumentale all’intento, comune ad entrambi, di superare la polarizzazione del rapporto soggetto-oggetto per individuare un piano più originario che metta in luce la loro coappartenenza e co-originarietà. Siamo ben lontani non solo dal cogito cartesiano, che si chiude nel dubbio iperbolico per scoprire la sua autocoscienza, ma anche dall’Epoché husserliana, che mette il mondo tra parentesi per poter analizzare le Erlebnisse al sicuro nella sfera dell’autocoscienza:[16] tanto il primo principio fichtiano quanto l’Ursprung heideggeriano sono da assumersi nella loro concretezza tutta interna al movimento di autoafferamento della coscienza, sono da assumersi nella loro fatticità.
L’Io fichtiano può porre se stesso solo in virtù del suo esser già in atto: il concetto di Tathandlug traduce appunto quest’azione già da sempre in atto che scaturisce dalla libertà dell’Io. Esso, per spiegare l’oggetto non egoico, non abbisogna d’altro che di ciò che trova in sé stesso, come abbiamo visto parlando del principio d’identità. In maniera analoga, il Vortheoretisches heideggeriano può essere alla base di ogni atteggiamento teoretico solo in virtù del suo scaturire dalla vita stessa: l’Ereignis che coinvolge tanto l’oggetto quanto la coscienza e in cui si realizza la loro coappartenenza non è un qualcosa di afferrato (ed afferrabile) teoreticamente, ma un evento riconosciuto nel suo semplice accadere, nel suo essere vissuto.
Così come per l’Heidegger di Sein und Zeit il Dasein è sempre inserito in un mondo e non può essere pensato come avulso da esso,[17] così per Fichte la coscienza è sempre Tathandlung, ovvero è sempre fondata in un’attività che non ha bisogno di fondazione, perché è assoluta, sempre in atto e sempre in fieri.
La Filosofia, tanto come Dottrina della Scienza quanto come Urwissenschaft fenomenologica, non avrà il compito di fondare il sapere trovandone gli assiomi generali o individuando un metodo per ricavare una conoscenza scevra da errori, bensì dovrà rintracciare il come di ogni possibile sapere, individuare l’ambito da cui si origina la possibilità dell’incontro tra coscienza ed oggetto. L’intento di Fichte è fondare ogni sapere su un’attività assoluta della coscienza. Ma per poter spiegare l’oggetto, senza porlo al di fuori dell’Io e così venir meno all’assolutezza, è costretto, tramite il secondo principio della Dottrina della Scienza, a porre il Non-io nell’Io, introducendo quindi una delimitazione reciproca di tipo quantitativo e sfociando nel terzo principio, che ha la funzione si spiegare la limitatezza di fatto della coscienza empirica ed il suo contrapporsi ad un oggetto. Per non consegnare l’Io a questa limitatezza, però, Fichte afferma la necessità di andare oltre il piano teoretico per realizzare l’assolutezza dell’Io sul piano pratico. Ma abbiamo visto come, tale soluzione sia per Heidegger insoddisfacente: nel porre il Sollen come Grund dell’Essere, Fichte ricadrebbe in quello che è il circolo vizioso di ogni metafisica che si basi su un processo dialettico, ovvero l’inesauribilità di tale processo.
Se però per Fichte la Tathandlung ha anche il compito di dimostrare l’esser posto dell’oggetto nel soggetto e spiegare sul piano trascendentale il sorgere del mondo, nel preteoretico heideggeriano si può scorgere il tentativo di tenere insieme i due termini. In entrambi gli autori è quindi rintracciabile una forte attenzione verso il piano ‘concreto’ in cui ogni filosofia si realizza e dai cui ogni indagine filosofica parte; tuttavia, in Heidegger quest’attenzione verso la fatticità della vita e dell’origine di ogni domandare filosofico si concretizza nel rifiuto di ogni costruttivismo dialettico, e nel tentativo di individuare un piano primigenio in cui sorga il materiale di ogni rapportarsi del soggetto (termine non a caso estraneo ad Heidegger) ad un oggetto.
In Fichte quindi il nesso tra vita e filosofia si esprime nelle forme della Tathandlung del soggetto assoluto e dello Streben dell’Io divisibile che vuol divenire assoluto, nesso che in Heidegger è espresso dal metodo fenomenologico, che fa dell’Erleben, dell’essere vissuto del mondo e di ciò che si presenta alla coscienza, il suo oggetto. Proprio il nesso tra filosofia e vita rende chiaro l’attenzione che Heidegger rivolge al piano concreto o, fichtianamente, pratico. La fatticità heideggeriana, che in Sein und Zeit porterà ad affermare la necessità di partire da un’analitica esistenziale, dalla quotidianeità dell’esistenza, dall’inautenticità in cui il Dasein è sempre prima di tutto situato nasce proprio dal riconoscimento che la filosofia non può non prendere le mosse dalla situazione già da sempre presente per il soggetto, quel sentirsi situato (Befindlichkeit) in un ambiente (Umwelt), quell’essere-nel-mondo (in-der-Welt-sein) da cui parte ogni interrogazione verso l’essere. La filosofia come metodo fenomenologico, dunque, prende le mosse dal piano ontico, ma per volgersi verso l’indagine ontologica.
E tuttavia, la fenomenologia heideggeriana è ben conscia dell’impossibilità, in ultima analisi, di afferrare in maniera definitiva quest’origine, il cui carattere primigenio, pertanto, riposerà proprio in questo sfuggire ad ogni comprensione teoretica definitiva (di qui l’accenno all’ermeneutica nel corso del ’19). Tale difficoltà, che raggiunge la sua testimonianza più forte nell’incompletezza di Sein und Zeit, trova forse speculare analogia nelle numerose stesure della Wissenschaftslehre, che mostrano come lo stesso Fichte cercasse sempre nuove elaborazioni per la Dottrina della Scienza e la fondazione della coscienza assoluta.
Lo sforzo di ricercare l’assoluto punto d’inizio del sapere filosofico è per entrambi destinato a tradursi nella ricerca di un’origine mai completamente fondabile, ma da riconoscere di fatto, in un’indagine che riparte sempre di nuovo da se stessa: in tal senso sembrano potersi interpretare tanto l’attenzione heideggeriana verso un’ermeneutica del preteoretico quanto il sempre rinnovantesi Streben fichtiano.
- L’interpretazione fenomenologica del Non-Io: finitezza e mondo
Le considerazioni appena svolte ci permettono, ora, di mettere in luce un aspetto cruciale della lettura heideggeriana di Fichte: l’emergere della finitezza. Se infatti per entrambi gli autori la fatticità della coscienza è il punto di partenza di ogni riflessione, non può non notarsi che in Heidegger è assente lo sforzo fichtiano verso la fondazione di una coscienza assoluta, anche solo a livello trascendentale. Ciò è alla base della lettura di Fichte che Heidegger fornisce nel 1929, quando si accinge ad analizzare passo passo la Wissenschaftslehre del 1794. Questa Vorlesung, a dispetto del titolo («Der deutsche Idealismus und die philosophische Problemlage der Gegenwart. Fichte, Schelling, Hegel»)[18] è in realtà incentrata prevalentemente su Fichte. La sua vastità tematica meriterebbe analisi e considerazioni non espletabili in questa sede. Ci si limiterà, pertanto, a mostrare i punti di connessione ed i necessari collegamenti tra questo corso e le riflessioni precedenti. Questo nuovo confronto con Fichte fornisce ad Heidegger l’opportunità di leggere il pensiero fichtiano in connessione con l’analitica del Dasein, nel solco quindi della direzione di ricerca ormai stabilita in Sein und Zeit. La lettura heideggeriana, quindi, è una lettura che potremmo definire strumentale alla distruzione della storia della metafisica annunciata nell’opera del ’27. Volgersi all’idealismo tedesco, che Heidegger vede come la fase compiuta del soggettivismo assoluto,[19] è pertanto una tappa di questo progetto, che intende far emergere ciò che nel pensiero fichtiano e nell’idealismo è rimasto taciuto. Nello stesso periodo del corso sull’idealismo, infatti, Heidegger proponeva nel Kantbuch una rilettura del sistema kantiano, individuando nella tematizzazione della finitezza del soggetto e dell’intelletto la grande conquista di quel sistema; nelle battute iniziali del corso del 1929 sugli idealisti, però, si fa subito strada l’accusa di aver dimenticato questo risultato, nello sforzo di fondare l’assolutezza del sapere e del soggetto.[20]
Per rileggere Fichte in una nuova prospettiva sarà quindi centrale dimostrare la presenza nel suo pensiero di elementi utili a far riemergere temi rimasti in sordina. A tal proposito Heidegger non manca di notare come nel sistema fichtiano un ruolo assolutamente nevralgico sia ricoperto dal terzo principio della Dottrina della Scienza, che ha la funzione di risolvere l’apparente inconciliabilità del contrasto tra Io e Non-Io, facendo sorgere la coscienza empirica, limitata dal Non-Io. Questa reciproca limitazione è da accettarsi come un decreto (Machtsprucht) della ragione stessa. Ma proprio in questo Machtsprucht Heidegger scorge l’emergere nel pensiero fichtiano della fatticità e della finitezza:[21] l’esser consegnato dell’Io alla limitatezza del Non-Io, l’essere cooriginari dei due termini della contrapposizione ed il loro costituire, di fatto, il mondo in cui la coscienza è sempre inserita, rappresentano appunto la situazione ontica dell’Io, che riposa sulla condizione ontologica dell’essere-del-mondo del Dasein.[22] Il terzo principio è caposaldo dell’intero sistema perché svela la finitezza del Dasein, inserito in un rapporto fattuale col mondo che in nessun modo può essere trasceso. Proprio la struttura dei tre principi, tra l’altro, ovvero il superamento di due principi antitetici in un terzo che li pone quantitativamente limitati, spinge Heidegger a denunciare la presenza di una dialettica costruttiva così come aveva fatto nel 1919, in un’importante comunanza con le riflessioni di dieci anni prima. Vi è inoltre per lui in questa dinamica una traccia di Hegel: la dinamica del superamento di una dicotomia in una sintesi dei due poli contrapposti viene in questo modo rinvenuta già in Fichte e resa paradigmatica dell’idealismo tedesco.
Qui è evidente il carattere del metodo fichtiano, essenziale anche per Hegel. Lo sviluppo dall’antitesi alla sintesi e così di nuovo antitesi non è tale che l’una venga dedotta dall’altra in maniera puramente formale, bensì questa deduzione è in riferimento permanente e antecedente (ständiges und vorgängiges Hinblicken) alla sintesi fondamentale (Grundsynthesis), a ciò che in essa giace.[23]
Significativo del resto è che la riscoperta della finitezza dell’Io apre la strada al tema della libertà umana. Nella fichtiana Aufgabe, assegnata all’Io e mai completamente assolvibile, di annichilire il Non-Io, Heidegger sembra scorgere infatti una definizione della costituzione fondamentale dell’essere dell’Io nei termini di un’affinità con il Dasein che, trovandosi gettato nel mondo, si trova a dover passare, pro-gettandosi, dall’esistenza inautentica nel modo della Vorhandenheit a quella più autentica della realizzazione delle possibilità insite nel suo essere aperto al mondo.[24] Che per Fichte la libertà non sia un predicato dell’Io bensì un modo d’essere che questi è chiamato a realizzare rivela ulteriormente, secondo Heidegger, la struttura dell’Io finito; la libertà è possibile solo grazie all’Erschlossenheit dell’esistenza, che riposa sulla finitezza:
L’essere-io è aperto, ovvero il senso dell’essere dell’«io sono» vuol dire: io sono nella possibilità di agire in questo modo o in un altro (ich je so oder so verwalten kann); l’essere nella possibilità è la necessità della scelta (so oder so Wahl). Apertura dell’Io significa innanzitutto: esistenza è poter essere (Seinkönnen).[25]
È chiaro però che una tale lettura del terzo principio deve necessariamente poggiare su una rilettura del secondo: come abbiamo visto, in Fichte l’oggetto è fondato nel soggetto assoluto; ma leggere, con Heidegger, il terzo principio come espressione della finitezza del Dasein ha come correlato l’abbandono della fondazione assoluta della coscienza ed anzi l’individuazione della finitezza come suo tratto ontologico (coerentemente alla lettura del sistema kantiano intrapresa da Heidegger, su cui torna anche in apertura del corso del 1929). Conseguenza di ciò è che il mondo non sarà più visto come posto da un soggetto assoluto, ma anzi il Dasein sarà sempre già nel mondo, in linea con l’esser-gettato di cui parla già Sein und Zeit.
Ma se ognuno dei principi fichtiani mostra un carattere dell’Io,[26] e se nella lettura heideggeriana il terzo principio esprime la finitezza e la fatticità, cosa viene ad essere nel secondo principio? Il Non-Io del secondo principio, dice Heidegger, esprime il venire ad essere del mondo, inteso come l’orizzonte il cui il Dasein è sempre inserito, l’orizzonte in cui l’egoità può incontrare la non egoità; non nel senso di un’opposizione ontica tra un soggetto ed un oggetto esterno, bensì nei termini di una condizione di possibilità ontologica per l’incontro tra Dasein e mondo.[27] L’atto del porre il Non-Io, infatti, crea un’opposizione assoluta all’Io secondo la forma del secondo principio, ma al tempo stesso rinvia nel suo contenuto all’Io posto nel primo principio, e così facendo finisce con l’esprimere la co-originarietà del rapporto tra egoità e non-egoità.[28] L’Io pertanto non è mai semplice autoposizione, ma necessita sempre di una contestuale posizione d’alterità, non nel termine di un oggetto reale non-egoico (che non sorge se non nel terzo principio) ma come spazio di possibilità dell’alterità, come possibilità trascendentale (in termini fichtiani) o come componente ontologica dell’egoicità (come interpreta Heidegger).[29] Significativo in questo senso è che Heidegger tenda talvolta a leggere l’ambiguità tra Non-Io come apertura trascendentale e Non-Io come totalità ontica dell’ente non egoico come il tentativo fichtiano di tematizzare la differenza ontologica heideggeriana tra essere.[30]
Non-Io non è in nessun modo questo o quell’ente-che-viene-incontro, ma lo spazio di gioco […] di ciò-che-viene-incontro.[31]
Prima di ogni opposizione ontica, dunque, vi è l’apertura di un orizzonte di opposizione ontologica, che Heidegger identifica con il concetto di mondo, intendendo tale concetto non semplicemente come totalità dell’ente ma più profondamente (e fedelmente a Essere e Tempo) come l’apertura di possibilità del sorgere di questa totalità. Il Non-Io pertanto non solo porrà in questo modo le condizioni per la finitezza strutturale dell’Io, ma costituirà anche il riferimento co-originario della posizione dell’Io in quanto posizione contestuale della soggettività e del suo essere sempre inserita nell’orizzonte del mondo, non come in un rapporto tra soggetto e oggetto, ma come poli coappartenentisi.[32] All’essenza trascendentale dell’Io è connaturale e coessenziale il riferimento al mondo, e la rilettura del Non-Io in questa prospettiva, vedendo i due termini come co-originari in termini ontologici, costituisce un importante supporto alla visione del terzo principio come luogo della finitezza: se infatti l’Io pone già da sempre ciò che lo limita, ne emerge il suo essere finito onticamente e ontologicamente e il suo essere consegnato al mondo.[33]
Allo stesso modo in cui il preteoretico era l’ambito del puro Erleben, ora il Non-Io è la condizione di possibilità di questo, ovvero il piano ontologico che rende possibile l’alterità dell’ente: ogni star di fronte del soggetto all’oggetto, ogni incontro tra Dasein ed ente, riposa sulla pura condizione ontologica istituita dall’alterità in quanto tale, alterità che viene ad essere come Non-Io, come mondo. È facile, ora, vedere come questa lettura fenomenologica del Non-Io richiami subito alla mente la tematizzazione del Vortheoretisches come ambito di disvelamento dell’essere.[34] Non deve però sfuggire che questa lettura del Non-io è possibile solo sulla base di un capovolgimento di prospettiva nei rapporti tra io (o Dasein) e mondo: se quest’ultimo nel pensiero fichtiano è ascrivibile al soggetto assoluto, in Heidegger è piuttosto il Dasein, come detto, ad essere gettato nel mondo.[35]
Il corso sull’idealismo tedesco, pertanto, ci restituisce una lettura del pensiero fichtiano fortemente caratterizzata dall’analitica esistenziale, ed inserita nel solco di una storicizzazione dell’idealismo tedesco che per certi versi appare molto diversa da quella di dieci anni prima. La grande attenzione dedicata al pensiero fichtiano, la lettura fenomenologica del Non-Io e l’emergere di numerosi temi testimoniano tuttavia l’estrema importanza attribuita da Heidegger a Fichte e l’importanza del confronto heideggeriano col sistema di questi.
Conclusioni
L’analisi del corso del ’19 e del corso sull’idealismo tedesco hanno messo in luce l’importanza del confronto con Fichte all’interno del percorso heideggeriano. Sembra infatti assolutamente lecito sostenere che esista, pur nella differenza di intenti, temi e prospettive, una linea comune che lega le due fasi di questo confronto, linea che è stata trovata nella fatticità dell’origine dell’indagare filosofico e nella funzione fondativa della filosofia rispetto ad ogni altro atteggiamento teoretico. Tuttavia, la mancanza nel pensiero heideggeriano di un tentativo di fondazione della coscienza assoluta, mancanza da inserirsi all’interno del metodo fenomenologico, porta questi a concentrarsi sull’individuazione di una sfera preteoretica che fornisca l’ambito d’origine d’ogni Erleben.
Coerente con questa direzione è la lettura fenomenologica del Non-Io intrapresa nel ’29, che lascia emergere il tema del mondo e della finitezza nel pensiero fichtiano a prezzo, come detto, di alcuni capovolgimenti di prospettiva: la lettura della soggettività come soggettività sempre individuale, con l’abbandono dell’intento fondativo della soggettività assoluta che mette capo all’idealismo, è proprio la differenza fondamentale tra Fichte e l’Heidegger del ’29.
L’interpretazione fenomenologica nel Non-Io e la precedente delineazione, anche in risposta al progetto della Wissenschaftslehre, di un ambito preteoretico da cui far partire l’indagine filosofica, lasciano vedere come il confronto col pensiero fichtiano sia stato cruciale nel corso del cammino di pensiero di Heidegger: è del resto significativo che nel corso ’19 questi consideri Fichte come un autore cruciale all’interno della filosofia critica, così come la circostanza che, all’indomani della pubblicazione di Essere e Tempo, egli decida di volgersi all’idealismo tedesco e dedichi al pensiero di fichtiano un’attenzione maggiore che a Schelling o Hegel.
È innegabile tuttavia la presenza di una sfasatura di piani di lettura tra i due autori: se per Fichte primario è l’intento di rinvenire una struttura logico-trascendentale dell’Io, Heidegger legge già da principio ogni affermazione sull’Io su di un piano ontologico. Certo da questa scelta teorica è legittima e da essa non derivano necessariamente forzature nei confronti del testo fichtiano, ma finisce inevitabilmente col proporre una lettura strumentale del pensiero di Fichte.[36]
Il rapporto tra Fichte ed Heidegger meriterebbe pertanto di essere approfondito ulteriormente, anche, come si diceva in apertura, in area italiana, ed andrebbe inserito nella più ampia analisi del rapporto tra la filosofia classica tedesca e pensiero heideggeriano. L’emergere dell’eredità di Heidegger nei confronti della filosofia classica tedesca potrebbe far risaltare il pensiero heideggeriano in tutta la sua problematicità, allontanandoci dalla vulgata di un Heidegger “distruttore” tout court della storia della metafisica, e riavvicinandolo, nei punti dove ciò è necessario, alla tradizione filosofica tedesca. Ciò è necessario forse soprattutto in questo periodo, in cui il dibattito filosofico sul pensiero heideggeriano sta inaridendosi ad un livello puramente giornalistico e da alcune parti si arriva persino a volerne declassare l’importanza per lo sviluppo della filosofia del novecento.
Luigi Daniele (1990) ha studiato filosofia tra l’Università di Roma “La Sapienza” e l’Università di Jena, nell’ambito del progetto binazionale “Idealismo tedesco e filosofia moderna europea”, discutendo con il Prof. S. Bancalari una tesi dal titolo “Fenomenologia e Urwissenschaft: l’interpretazione heideggeriana di Fichte”. In triennale ha studiato presso l’Università di Bari, con un semestre presso l’Università di Friburgo in Brisgovia, laureandosi con una tesi sul nichilismo e la tecnica nel pensiero di Martin Heidegger sotto la guida del Prof. C. Esposito.
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[1] La Wissenschaftslehre, pubblicata per la prima volta nel 1794, è stata più volte rielaborata da Fichte, con modi d’esposizione ed esiti talvolta anche distanti dalla prima edizione. Nel presente saggio si farà riferimento all’edizione del 1794 in quanto quella interessata dalla lettura heideggeriana, sottolineando, quando necessario, modifiche e cambiamenti intervenuti nelle edizioni successive.
[2] Cfr. M. HEIDEGGER, Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem, in M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie (GA 56/57), Klostermann, Frankfurt, 1987 (trad. it. di G. AULETTA, a cura di G. CANTILLO, Per la determinazione della Filosofia, Guida, Napoli 1999), pp. 7-28.
[3] Die Idee der Philosophie, ed. cit., p. 37 (trad. it. Cit. p. 46).
[4] Ivi (trad. it. Cit. p. 47).
[5] Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 40 (trad. it. Cit. p. 49).
[6] Cfr. A. ARDOVINO, “«Salvare l’intenzionalità»: note sull’interpretazione heideggeriana di Fichte”, in Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, Bd. XVI, 1999, pp. 508-510.
[7] «Jede Einzelwissenschaft ist der Urwissenschaft gegenüber nicht-prinzipiell, Nicht-principium, sondern Prinzipatum, das Ent-sprungene und nicht der Ur-sprung». Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p.24.
[8] «Diese Vorherrschaft des Theoretischen muß gebrochen werden, zwar nicht in der Weise, daß man einen Primat des Praktischen proklamiert, und nicht deshalb, um nun mal etwas anderes zu bringen, was die Probleme von einer neuen Seite zeigt, sondern weil das Theoretische selbst und als solches in ein Vortheoretisches zurückweist.» Die Idee der Philosophie…, ed. Cit. p. 59.
[9] Sull’impossibilità di assimilare l’oggetto dell’Erlebnis all’oggetto delle scienze teoretiche, scrive ad esempio Heidegger: «Das Er-leben geht nicht vor mir vorbei, wie eine Sache, die ich hinstelle, als Objekt, sondern ich selbst er-eigne es mir, und es er-eignet sich seinem Wesen nach.» (Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p.75). Bisogna inoltre notare che Es gibt, che esprime l’italiano “c’è”, “ci sono”, significa letteralmente “esso da”: è chiaro che il pronome impersonale e neutro accentua, nella lingua tedesca, la provenienza per così dire misteriosa ed irrintracciabile di ciò che è dato alla coscienza.
[10] È assolutamente significativo che in questo corso compaia proprio il termine Ereignis, che, benché centrale nei Contributi alla filosofia e nel pensiero heideggeriano dagli anni ’30 in poi, è del tutto assente in questa fase. La traslazione di significato che il termine subirà in seguito non deve far sottovalutare l’importanza del suo apparire già nel 1919. Cfr. Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 75.
[11] Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 75s.
[12] Cfr. Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 116.
[13] «Das bemächtigende, sich selbst mitnehmende Erleben des Erlebens ist die verstehende, die hermeneutische Intuition, originäre phänomenologische Rück- und Vorgriffs-bildung, aus der jede theoretische-objektivieren, ja transzendente Setzung herausfällt.» (Cfr. Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 117. La traduzione è libera).
[14] Cfr. Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 63 e ss.
[15] Cfr. Die Idee der Philosophie…, ed. cit., p. 109 e Cfr. A. DENKER, “Fichtes Wissenschaftslehre und die philosophischen Anfänge Heideggers”, in W. H. SCHRADER (a cura di), Fichte-Studien, Band 13, Fichte im 20. Jahrhundert, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1997, pp. 48 e ss.
[16] Del resto, l’essere-nel-mondo heideggeriano si lascia leggere come una chiara presa di distanza dall’Epoché husserliana, che aveva notevoli affinità col dubbio cartesiano. Non mancano però letture contrarie: Cfr. ad es. E. TUGENDHAT, Die Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, de Guyter, Berlin 1970, pagg. 262-263.
[17] Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1967 (1927), in part. pp. 52-62 e pp. 114-129.
[18] M. HEIDEGGER, Der deutsche Idealismus (Fichte, Schelling, Hegel) und die Philosophische Problemlage der Gegenwart (C. STRUBE a cura di), GA 28, Klostermann, Frankfurt, 1997.
[19] Proprio parlando di soggettivismo, è cruciale che l’edizione della Wissenschaftslehre analizzata da Heidegger sia sempre quella del 1794, perché nelle successive vi è il tentativo esplicito, da parte di Fichte, di non connotare il suo sistema come soggettivista. Cfr. sul tema G. RAMETTA, Fichte, Carocci, Bari 2013, pp. 211-248 o dello stesso autore “Fichte e l’idea della filosofia trascendentale come dottrina della scienza”, in Tropos, Anno VI, numero 2, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 45-65.
[20] Cfr. Der deutsche Idealismus…, ed. cit., pp. 35-47.
[21] Scrive Heidegger: «Il contenuto del terzo principio non viene dedotto o guadagnato, bensì è già costantemente presupposto (ständig schon vorausgesetzt). Ciò che è decisivo (das Entscheidende), ovvero il modo in cui bisogna concepire la posizione (Setzung) come limitazione (Einschränkung), riposa su un Machtspruch della ragione. Contro di esso noi non possiamo far nulla […]. L’essenza del porre (das Wesen des Setzens) – ovvero l’egoità – è la finitezza.» (Der deutsche Idealismus…, p. 91). Sul tema: C. STRUBE, “Heideggers Wende zum Deutschen Idealismus. Die Interpretation der »Wissenschaftslehre« von 1794”, in W. H. SCHRADER (Hrsg.), Fichte-Studien, Band 13, Fichte im 20. Jahrhundert, Rodopi, Amsterdam-Atlanta, 1997, pp. 51-64 – J. STOLZENBERG, “Martin Heidegger liest Fichte”, in Heidegger Zwiegespräch mit dem deutschen Idealismus, a cura di SEUBERT H., ed. cit., pp. 77-91 – M.J. DE CARVALHO, “Fichte, Heidegger and the concept of facticity”, in Fichte and the phenomenological tradition, a cura di ROCKMORE, BREAZEALE, WAIBEL, Rockmore 2010, pp. 223-260.
[22] Cfr. Der deutsche Idealismus…, pp. 145 e ss.
[23] Cfr. Der deutsche Idealismus…, ed. cit., p. 102. Su questo punto e sulla dialettica costruttiva si veda anche Strube, per il quale nel Machtspruch è «visibile dunque anche il momento costruttivo e dialettico della ragione, attraverso il quale questa guadagna il carattere di un’autentica conoscenza filosofica», Cfr. STRUBE C., “Heideggers Wende…”, ed. cit., p. 56s.
[24] Cfr. Der deutsche idealismus…, ed. cit., p. 110-108.
[25] Ivi, p. 114. Poco prima (p. 112) Heidegger afferma: «La libertà, il mio essere libero, non è una caratteristica presente in me sottomano (keine in mir vorhandene Eingenschaft), bensì il mio essere libero è solo nel mio rendermi-libero (Mich-selbst-Befreien). E dunque: la libertà, il mio essere libero, lo trovo fondamentalmente non come una proprietà, ma come ciò che determina il mio poter essere e dover essere (Seinsollen). Il mio essere libero non mi è dato (gegeben) bensì affidato (aufgegeben). Questo essere consegnato è però esattamente il mio specifico essere come Io, ovvero come Io agente (als ‘Ich handle’)».
[26] Per quanto riguarda il primo principio, Heidegger tende ad interpretarlo come una «autoassegnazione trascendentale alla propria essenza», per usare l’espressione di Ardovino (Cfr. A. ARDOVINO, Salvare l’intentionalità…, ed. cit. p. 529).
[27] Cfr. J. STOLZENBERG, Martin Heidegger liest Fichte, ed. cit., p. 82 e F.-W. VON HERRMANN, “Fichte und Heidegger. Phänomenologische Anmerkungen zu ihren Grundstellungen”, in U. GUZZONI et al. (a cura di), Der Idealismus und seine Gegenwart. Festschrift für Werner Max zum 65. Geburtstag, Meiner 1976., pp. 231-256. In particolare pp. 240 e 245.
[28] Cfr. Der deutsche Idealismus…, ed. cit., p. 76.
[29] «All’essenza dell’Io appartiene allo stesso tempo l’essere-contrapposto come tale (ein Entgegengesetztes als solches); l’Io in quanto Io si rapporta a qualcosa che gli è contro (zu einem Wogegen). Questo non è ancora l’ente non egoico, bensì l’orizzonte in cui l’Io come tale si mantiene (hineinhält)». Ivi, p. 77.
[30] Cfr. VON HERMMANN, “Fichte und Heidegger…”, ed. cit., p. 251.
[31] GA 28, p. 77.
[32] Come scrive Stolzenberg: «[Il significato dell’attività dell’opporre] consiste nel preparare la possibilità strutturale (die strukturelle Möglichkeit bereitzustellen) di aprire all’Io l’orizzonte del mondo. Il concetto di mondo, che Heidegger identifica con il concetto fichtiano di Non-Io, ha senso e significato solo in relazione alla funzione originaria del porsi dell’Io.» (“Martin Heidegger liest Fichte…”, ed. cit., p. 82).
[33] È da notare come questa «[L’opporsi del Non-Io] è possibile solo in quanto l’Io, avendo posto contro di se il Non-Io, si pone come divisibile, e pone come divisibile anche il Non-Io. L’attività trascendentale del porre come divisibile l’Io da parte dell’Io stesso (e del Non-Io dall’Io) ha il carattere del rendersi finito trascendentale (Charakter der transzendentalen Selbstverendlichung).» VON HERRMANN, “Fichte und Heidegger”, ed. cit., p. 245.
[34] Nel corso del ’29, però, Heidegger fa anche riferimento struttura intenzionale del Dasein, concetto assolutamente centrale nella fenomenologia ma assente nel corso tenuto dieci anni prima: ora Io e Non-Io, per Heidegger, non rappresentano solo il Dasein ed il suo orizzonte, bensì descrivono la situazione di possibilità tout court di ogni possibile rapporto tra essi, vale a dire appunto la condizione di possibilità del rapporto intenzionale. Cfr. M. HEIDEGGER, Der deutsche Idealismus…, ed. cit., pp. 175-182.
[35] Cfr. F.-W. VON HERRMANN, Fichte und Heidegger…, ed. cit., p. 255.
[36] Tuttavia è da segnalare come Stolzenberg sia su questo punto davvero drastico: «Da ciò segue, che l’interpretazione heideggeriana di Fichte è da rigettarsi come completamente sbagliata (als gänzlich verfehlt abgewiesen werden muss)» (STOLZENBERG J. “Martin Heidegger liest Fichte”, ed. cit., p. 87).
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Riferimenti Bibliografici
Opere di Martin Heidegger:
– Die Idee der Philosophie und das Weltanschauungsproblem (1919), in M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie (GA 56/57), Klostermann, Frankfurt, 1987 (trad. it. di G. AULETTA, a cura di G. CANTILLO, Per la determinazione della Filosofia, Guida, Napoli 1999), pp. 7-28.
– M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1967 (1927).
– Der deutsche Idealismus (Fichte, Schelling, Hegel) und die Philosophische Problemlage der Gegenwart (C. STRUBE a cura di), GA 28, Klostermann, Frankfurt, 1997 (1929).
Studi critici:
– ARDOVINO A., “«Salvare l’intenzionalità»: note sull’interpretazione heideggeriana di Fichte”, in Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, Bd. XVI, 1999.
– DENKER A., “Fichtes Wissenschaftslehre und die philosophischen Anfänge Heideggers”, in W. H. SCHRADER (a cura di), Fichte-Studien, Band 13, Fichte im 20. Jahrhundert, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1997-.
– TUGENDHAT E., Die Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, de Guyter, Berlin 1970.
– DE CARVALHO M.G., “Fichte, Heidegger and the concept of facticity”, in Fichte and the phenomenological tradition, a cura di ROCKMORE, BREAZEALE, WAIBEL, Rockmore, 2010.
– RAMETTA G., Fichte, Carocci, Bari 2013.
– STOLZENBERG J., “Martin Heidegger liest Fichte”, in Heideggers Zwiegesprach mit dem deutschen Idealismus : XI. Internationale Tagung der Martin-Heidegger-Gesellschaft 2001.11.02-04
Halle, Saale, Kollegium Hermeneuticum, SEUBERT H. (a cura di), 7, Böhlau, Köln 2003.
– STRUBE C., “Heideggers Wende zum Deutschen Idealismus. Die Interpretation der »Wissenschaftslehre« von 1794”, in W. H. SCHRADER (Hrsg.), Fichte-Studien, Band 13, Fichte im 20. Jahrhundert, Rodopi, Amsterdam-Atlanta, 1997 -.
– VON HERRMANN F.-W., “Fichte und Heidegger. Phänomenologische Anmerkungen zu ihren Grundstellungen”, in U. GUZZONI et al. (a cura di), Der Idealismus und seine Gegenwart. Festschrift für Werner Max zum 65. Geburtstag, Meiner 1976.