Virus e Rivoluzione: pensare globalmente e agire localmente

di Roberta Toffee Cordaro

«Non c’è nulla di sorprendente» afferma Alain Badiou[ref]A. Badiou, “Sulla situazione epidemica”, Introduzione e Traduzione di Paolo Quintili[/ref] a proposito di quella che il filosofo chiama SARS 2. E non c’è nulla di sorprendente nelle reazioni degli intellettuali e dell’opinione pubblica davanti a una simile situazione, aggiungerei. “Apocalittici” da una parte, “rivoluzionari” dall’altra: chi, temendo derive autoritarie, osserva con attenzione le misure antidemocratiche già messe in atto in alcuni Paesi e chi invece segue con fiducia i movimenti di solidarietà partiti prevalentemente dal basso e dalle periferie. Ma è pensabile una “terza via”? Io credo di sì e sostengo che, benché non sia il caso di gridare «all’evento fondatore di un’inaudita rivoluzione», qualcosa di rivoluzionario sia già in corso e non solo in senso figurato. Bisogna però assicurarsi di intendersi su quale rivoluzione abbiamo in mente e convenire sulle modalità di azione. Pertanto, vorrei cominciare con un problema riguardo all’immagine del “rivoluzionario contemporaneo”.

Il problema moderno della rivoluzione

Secondo il filosofo e pluralista ermeneutico Odo Marquard, il più grande problema antropologico della modernità viene dal fatto che, per via di una ribellione «assolutamente mancata nell’epoca nazionalsocialista […] nacque un bisogno quasi morale di ribellarsi, [dimodoché] ora, a posteriori, qualunque pensiero voglia immediatamente passare all’azione». In tal senso, nella nostra epoca moderna (che Marquard chiama della disubbidienza tardiva) non solo si segna positivamente ogni cambiamento, ma si mette sotto accusa ogni assenza di trasformazione.
In ciò consiste il problema: volendo continuamente agire nel senso di una rivoluzione assoluta, di un continuo cambiamento, l’azione è cieca e indifferenziata e i nostri contemporanei «finiscono col […] provocare un’“esplosione d’irresponsabilità”, un sottrarsi all’imputabilità». È come una ruota che continua costantemente ad accelerare, ma che senza un piano di attrito gira a vuoto provocando solo un assordante rumore. Fin qui si può quindi dire che sono d’accordo con Badiou sulla necessità di rifiutare l’«idea secondo la quale dei fenomeni come un’epidemia aprono, per se stessi, a qualsiasi cosa di politicamente innovativo» e sostengo che un atteggiamento di maggiore “riguardo”, nel senso etimologico di “guardare di nuovo, guardare indietro, di indugiare” nell’azione al cambiamento, potrebbe inibire gli atteggiamenti fatalisti, mistici, illusori e infine inefficaci.
In quanto «scettico pigro» (come lui stesso si definiva), Marquard non indica una diversa via rivoluzionaria, ma «quanto a noi che desideriamo un cambiamento reale dei dati politici», come possiamo essere certi che la COVID-19 non causi l’attrito necessario a mettere in moto una rivoluzione? O non ci rimane che disfarci dell’idea stessa di Rivoluzione?
Qui sostengo che la COVID-19 fornisca un piano di attrito alla nostra “energia rivoluzionaria” o, detto altrimenti, che la nostra esigenza di ribellione e di cambiamento indifferenziata possa trovare un criterio di discrimine e di specificazione in questo fenomeno globale.

Rivoluzione liquida in liquide società

Ci poniamo queste domande oggi perché una pandemia ha rimesso in discussione alcuni aspetti del nostro assetto sociale. Tanto che nell’immaginario pubblico si fa strada l’idea che l’attuale situazione pandemica sia paragonabile allo stato di una società in guerra: entrambe ci costringono a rintanarci nelle nostre dimensioni private (in senso letterale e letterario). Ma, che si condivida o no la percezione di una simile congruenza fra pandemia e guerra sul piano personale, sul piano critico e politico credo che una simile equazione rischi di risultare ingenua, se non dannosa. Premessa la banale ma mai superflua constatazione dell’impossibilità di chiarire e distinguere definitivamente la gamma di significati che un fenomeno di tali dimensioni può assumere nel futuro politico globale, credo che stato di guerra e situazione pandemica si distinguano in un punto affatto significativo: laddove la guerra implica conservazione, la pandemia necessita di una rivoluzione. Con le parole di Annamaria Testa per Internazionale : «Non è una guerra perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare». Più o meno implicitamente, Testa suggerisce che guardando più a fondo nella questione vedremo che, sul piano delle aspettative, la dimensione del privato è nei due casi diametralmente opposta: conservazione di uno status da una parte, rivoluzione e ridiscussione assiologica dall’altra. In tal senso, mi rivolgo alle Sinistre: c’è qualcosa di rivoluzionario in questa pandemia ed è il modo in cui i luoghi privati della casa e le differenze che la abitano nella realtà concreta interrogano le politiche pubbliche. Negare o non riconoscere la portata di questo fatto non potrà che avere l’effetto di una “profezia che si autoavvera”.
Volendo scendere nei fatti, in Italia si sono effettivamente visti e divulgati provvedimenti che certamente non verranno dimenticati dalle realtà attive del territorio nazionale. Penso ad alcuni provvedimenti sulla violenza contro le donne, sia locali, come quello di Trento che costringe l’aggressore ad allontanarsi dal luogo domestico per rispettare la quarantena (e non più la donna a fuggire), che nazionali, come lo sblocco di fondi antiviolenza per 30 milioni di euro. A volte si tratta di azioni tutt’altro che positive, come il tentativo di sospendere il diritto all’interruzione di gravidanza negli USA o, senza andare in là, il blocco temporaneo di una parte della sanità italiana ricaduto anzitutto sulla salute e sul benessere delle donne. Ma ciò ha almeno l’effetto di avviare alcuni dibattiti largamente ignorati nella riflessione pubblica e televisiva. Lo stesso Badiou è convinto che «conserveranno una certa forza politica […] delle affermazioni e convinzioni nuove riguardanti gli ospedali e la salute pubblica, le scuole e l’educazione egualitaria, l’accoglienza degli anziani e altre questioni di questo genere». Ma minimizza quando scrive che «sono le sole che potranno essere eventualmente articolate con un bilancio delle pericolose debolezze messe in luce dalla situazione attuale». Mi chiedo perché dovremmo escludere che proprio le «questioni di questo genere» siano il motore di una eventuale nuova rivoluzione. Penso ancora alle Sinistre quando affermo che dovremmo smetterla di pensare per assiomi e riportare le realtà fattuali all’interno del nostro discorso, come più spesso – va detto – fanno i nostri avversari politici.
Ricalibrare la nostra osservazione con il piano reale concreto significa ad esempio chiedersi questo: nel ridefinire la nostra società globalizzata nell’ontologia della società liquida, non dovremmo anche ripensarne la logica strutturale e quindi il nostro modo di intervenire, di “agire il cambiamento”? Mi chiedo se nel modo di pensare le rivoluzioni non convenga riassettare anche il sistema di pensiero stesso; se l’azione rivoluzionaria oggi non faccia un percorso inverso al pensiero delle rivoluzioni di un intero (e integro) sistema: un percorso trasversale che va dalle logiche domestiche al sistema mondiale. Forse, ad esempio, oggi anche le rivoluzioni hanno un carattere liquido; forse grazie a internet e all’informazione rapida – capaci di disturbare gli schemi politici più rigidi – la rivoluzione è una specie di streaming che colleziona e mette in luce il fiorire di tante realtà locali dislocate che continuano a parlare (nelle case, nelle comunità, nelle piazze) attraversando (e non necessariamente omologando) le diversità nazionali. Quando le realtà locali intraprendono percorsi virtuosi e riescono ad attraversare Internet che per antonomasia è una Rete Internazionale, un evento come la pandemia può certamente fungere da interruttore di piccoli generatori materiali e mettere in moto una rivoluzione “liquida”.
Certo, non potendo qui procedere con chiarezza e distinzione, non c’è dubbio che converrà avere una visione d’insieme e una linea di azione, e forse la rivoluzione oggi sta tutta in questo monito: pensare globalmente e agire localmente (think global, act local), sia nello spazio che nel tempo.