Il MOTIVO EPIDEMICO/PANDEMICO E LA CRISI ATTUALE. Per un abbozzo di conclusioni

di Paolo Quintili

La riflessione «cartesiana» di Alain Badiou, seguita da una serie di numerose «repliche» di interlocutori critici, rimbalzata anche per « creative commons » nelle pagine web del «Rasoio di Occam» (Micromega), in sole due settimane ha avuto un’ampia risonanza, com’è giusto che sia per un pensatore attuale e discusso, che ha saputo (e sa) riassumere le istanze di un pensiero «marxofrancese» ancora ricco di suggerimenti critici utili, soprattutto oggi, a leggere la nostra realtà. La realtà di un presente estorto, martoriato nella quotidianità e nello stesso orizzonte di senso che quella quotidianità pare aver smarrito quasi del tutto, nel momento dell’«emergenza coronavirus». È inutile nasconderselo, per quanto il potere di persuasione dei media si sforzi di addolcire la pillola (#andràtuttobene ecc.), il «nulla di nuovo sotto il sole» – nel senso preciso che questa catastrofe è stata preceduta, e ampiamente annunciata da altre si meno gravi, ma numerose e lontane dall’opulento Occidente –, ha mostrato la vanità delle politiche recenti che l’Europa si è data per far fronte alla crisi climatica, alla devastazione dell’habitat naturale/umano e per chiudersi a riccio (ha tentato di farlo), da diversi anni, alle migrazioni e agli spostamenti di esseri umani. E nelle dinamiche della globalizzazione è finalmente un microrganismo letale a diffondersi, al di là di ogni frontiera, a dimostrarne la debolezza. Non c’è immunità che tenga di fronte alla contraddizione tra determinazioni naturali e determinazioni politico-sociali dell’evento, come ha mostrato con grande acume Badiou.

Accanto a ciò, la nozione di frontiera e la questione politica delle frontiere (al plurale) è un tema degno di più attenta riflessione. Il «motivo epidemico» – per etimologia: qualcosa (di estraneo?) che «attraversa (epì) il (un solo) popolo (dèmos)» – si è allargato a «pandemico», coinvolgendo tutti (pàn) i popoli (dèmoi). Il passaggio della frontiera – ciò che insieme divide, distingue e allontana – è un motivo legato alla pandemia, le frontiere (plurale politico) continuano ad esistere e anzi sono state oramai sigillate da ogni stato nazionale, ma la frontiera no, è da gran tempo caduta insieme alle illusioni securitarie e sovraniste che tentano di sostanzializzarla. Questa contraddizione dialettica è al cuore del ragionamento di Badiou attorno alla duplice determinazione, naturale e storico-sociale dell’evento pandemico. E mi pare sia la considerazione più perspicace dell’analisi della «situazione» generale in cui ci troviamo.

Il «modello» politico-economico capitalista iper-liberista non regge, si mostra del tutto inadeguato a sostenere la sfida dei tempi. Occorre una «disciplina» nuova dei rapporti sociali – il saggio di G. Cesarale affronta con grande finezza il problema – che possa immaginare un «capitalexit»[1] tale da consentire alla politica di entrare nella cabina di pilotaggio di quest’aereo suicida (l’iperliberismo) prima che vada a schiantarsi una volta per tutte. Non si tratta di catastrofismo, ma di sano, puro pessimismo della ragione, da riattivare con urgenza. Una buona parte degli interventi critici di risposta all’analisi di Badiou mi sembra vadano in questa direzione comune.

In primis, l’innocenza «francocentrica» che assolve il governo Macron (e altri governi locali e nazionali europei) da ogni responsabilità nella gestione dell’emergenza: è apparsa quanto meno inappropriata (l’analisi di M. Reale mette bene il dito su quest’aspetto); accompagnata da una certa visione oserei dire «romantica» della borghesia europea di oggi, che sarebbe pronta a sacrificare di nuovo i suoi tenenti e capitani nella «guerra» in corso; non ci pare fedele allo stato dei fatti. Questa borghesia del secolo XXI è piuttosto post-moderna, pronta a mandare al macello i soli lavoratori e operai delle fabbriche, pur di garantire la continuità della produzione e degli scambi (nihil sub sole novum! ancora). E a tenere bene al caldo i propri «capitani», con annessa retorica di «eroi» e «martiri» della battaglia in corso (il popolo dei medici in prima linea). Indifferenza e cinismo dominano su questo fronte, altro che romantico sacrificio (pure temporaneo) all’Universale! Senz’altro è condivisibile  la critica di Badiou all’ingenuità dei gauchistes, francesi e non, i quali vedono all’orizzonte una palingenesi liberatoria che occorre solo sapere cogliere e assecondare al momento giusto. Il «nuovo» politico che avanza? No, certo, non da quel versante. La novità, come rileva bene V. Giacopini («una cosa così, inutile farla lunga, non s’era mai vista… cifre del 24 marzo 2020, due miliardi e seicentomila persone al mondo sono segregate in casa»), sta nella reclusione mondiale imposta – a forza e (medicalmente) a ragione – dalle autorità di tutti i paesi, secondo modalità più o meno anti-democratiche (Orban  docet). È questo il punto essenziale: tutto ciò che sta accadendo è una specie di messa in letargia della democrazia liberale. Divieti di spostamenti, isolamento e abbrutimento dei malati non di coronavirus (gli anziani nelle case di riposo, abbandonati a medici e infermieri, senza assistenza dei loro cari), controlli sulle app, droni, posti di blocco, elicotteri, sospensione di tutte le attività politiche e sociali non-parlamentari. A vantaggio del solo discorso economico del «come cavarsela» (alla fine, nella maniera peggiore: battendo moneta non coperta da attività lavorative e da valore reale). S’è calata l’intera popolazione mondiale nelle parti di una sceneggiatura che raggiunge e oltrepassa l’immaginario della fantascienza post-apocalittica;  i cittadini si ritrovano, loro malgrado, a interpretare il ruolo di survivors di un flagello planetario. I tiranni di mezzo mondo, qui, gongolano e alzano la testa. Che senso politico e filosofico dare dunque a tutto questo? Al di là del senso medico dell’emergenza?

L’insieme degli interventi qui raccolti offre, ciascuno a suo modo, una via di risposta a questa richiesta di senso. E, per restare nel quadro del pessimismo ragionevole/razionale comune, il problema resta quello di evitare, in ogni modo, l’attentato suicida dell’iperliberismo, con la sua rinnovata barbarie, alle torri gemelle del Pianeta. L’immenso lunapark casalingo dei «social» e dei canali televisivi offerto come svago alla noia dello stare-in-casa – la pubblicità è la marca più eloquente di ciò, aprendo alla rappresentazione dei vari comportamenti relativi alla «nuova condizione umana», legittimandola non come sola «emergenza» –  è una regressione universale alla minorità, morale, intellettuale e politica (rileggiamo, rimeditiamo il Kant del Che cos’è Illluminismo? per favore), del cittadino il quale torna ad essere il suddito obbediente che deve adesso limitarsi a «rispettare le regole». Si certo, rispettiamo le regole, per carità. Ma c’è una dimensione per così dire meta-regolativa dell’agire così e così che deve fare appello alle condizioni che hanno reso possibile la regressione in atto: «1/ la dipendenza anche mentale dal virtuale, dai social, dallo sciame della rete: nel momento del confino questa ‘irrealizzazione’ dei rapporti umani viene allo scoperto ma il lockdown non la crea, la conferma e la asseconda; 2/ stare chiusi in casa è, come dire, il contrario di vivere la polis e nella polis. Accettarlo tranquillamente significa rivelare l’inconfessabile. Alla polis non ci crediamo più» (Giacopini). Questo stato di cose, in effetti, non può dirsi, come pretende Badiou, «politicamente neutro», neanche dal suo punto di vista marxista, quello della lotta di classe.

E cosa resta allora ?  Badiou fa cenno alla necessità di sfruttare in positivo il fronte avanzato di neo-keynesismo imposto dall’emergenza, per trarne delle avanzate democratiche radicali (se non socialistiche) : la sanità pubblica da rafforzare, la lotta alle disuguaglianze, il cui aspetto stridente viene alla luce in modo drammatico dallo «stiamo a casa» (e chi la casa non ce l’ha? O vive in 30 mq in cinque?), una politica di welfare esteso a livello sia locale che globale, l’emersione del lavoro nero, una maggiore attenzione all’ecologia ambientale, all’aria pulita ecc. Sono tanti i «fronti» di avanzamento dai quali occorre non tornare indietro. Per la prima volta il sistema «tecno-finanziario» (Ercolani) è sulla difensiva, ha ricevuto un sacro colpo (il finanziere Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia, pare abbia perso qualche decina di miliardi di euro con l’emergenza), ora occorre togliergli il dominio di parola e di valore che ha saputo conquistare negli ultimi decenni di espansione incontrastata. In tal senso il virus lavora come la «vecchia talpa», l’azione critica trasformatrice, e la può aiutare a riconquistare all’umano il primato sulla logica del profitto. Il covid 19 che «bussa alla porta della barbarie, non del socialismo», può comunque aprire altre porte: a un percorso non di solo sprofondamento nella «nuova barbarie» che Ercolani a ragione paventa – indicando casi inquietanti, ma non rari, di perdita secca d’umanità («stiamo già leggendo di cure rifiutate ad anziani e disabili, come anche a persone che non possono permettersi gli altissimi costi della sanità americana (un ragazzo di 17 anni è morto negli USA in seguito a ciò)») – né di avvio di una improbabile «terza fase» del comunismo; ma un percorso senz’altro di recupero democratico in senso sociale/socialistico, di quelle conquiste di diritto (del genere umano) che il capitalismo tecno-finanziario sta (stava) definitivamente affossando.

Al riguardo, l’analisi di A. Infranca ha il merito di dir chiaro che qui, il «modello» su cui si fonda il sistema iperliberistico, «è una concezione eugenetica della politica» di fronte all’emergenza. E tale risposta – quella, in un primo tempo, di Johnson e Trump, dell’«immunità di gregge» e della morte necessaria dei più deboli – di neanche più mascherata disumanità, segnala apertamente il deficit profondo di democrazia che affetta tale modello, «è la conferma che l’economia [iperliberista, n.d.r.] sconfigge la vita umana» (Infranca). E negli episodi numerosi di ribellismo sociale, in senso negativo ma significativo, «la vita umana si prende la rivincita sull’economia» (Idem). Il passaggio politico, allora, da una visione della situazione epidemica come «emergenza», a una visione-azione come «crisi» («della società umana», secondo Infranca; come compito d’azione programmatica, secondo Giacopini) mi sembra una prospettiva positiva che oltretutto supera e invera, hegelianamente, i propositi migliori contenuti nelle riflessioni di Badiou.

«Il malato è diverso», osserva D. Bilotti, per un «male» non nuovo, che è la «rimodulazione» (in peggio) della «grammatica percepibile delle relazioni sociali» (Idem), come fu già il caso, esemplare, della diffusione pandemica del virus dell’AIDS già quaranta anni fa, con milioni di vittime e logiche segregazioniste (un’«inumana segregazione») per i primi malati, «per almeno un decennio» (Idem), a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Oggi ci troviamo stretti tra due «malati» diversi, da una parte «l’irenica voce» dei rappresentanti del bene (non solo medico: «i cultori del buon senso, dell’umanità, di una bontà ufficiale oltre la quale può esserci solo la cattiveria dei non allineati al loro metro»), che ha «promosso le restrizioni e persino i lutti dell’epidemia come l’occasione antropologica di un ripensamento culturale basato sul benessere interiore e sulla riscoperta dell’intimità» (Idem), dall’altra «gli sciacalli» dell’odio per il diverso, che hanno colto l’occasione per «rinfocolare odi a base inter-razziale, di provenienza geografica e spesso anche direttamente di classe» (Idem). Sono le due risposte «immunitarie» che non portano ad altro che a riprodurre/garantire le logiche sociali precedenti la pandemia, con conseguente prosecuzione dell’«emergenza», senza «crisi». Quale nuovo universalismo laico (senza «buoni» ne «cattivi» moral-sociali), dunque, è possibile, che non stia lì solo a garantire la «difesa della proprietà, della rendita, del consumo»?

Un nuovo universalismo dei diritti umani negati, i cui lacerti sono oggi sotto gli occhi di tutti, incarnati nei milioni di persone che mancano dell’essenziale, è un imperativo che Bilotti ha ben saputo esprimere nelle metafore di questa «post-democrazia» (Crouch). Un universalismo che navighi a vista, certo, nella presa in conto dell’esigenza fondamentale di riconoscere (paolinamente, ma laicamente) che «non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno». Un’ingiunzione che va, con urgenza, tradotta in una nuova ortoprassi politica della crisi attuale.

[1] Lucien Sève, Capitalexit ou catastrophe. Entretiens, Paris, La Dispute, 2018.

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