Politica 4.0

Salvini domina la scena mediatica; Di Maio lo insegue a qualche lunghezza di distanza; Conte, il cui titolo sarebbe anche Presidente del Consiglio, annaspa; Mattarella, saggio custode dalla Costituzione, a volte è costretto a metterci una pezza. Berlusconi torna a salire o a scendere in campo; Renzi batte le ali e fa chicchirichì, Martina “regge”, Calenda inventa il Fronte Repubblicano, per scimmiottare i Francesi, solo che noi siamo una repubblica, sì, ma senza repubblicanesimo. Questa è la politica italiana 4.0, come si usa dire oggi, in uno scenario dominato dall’abbraccio Putin – Trump fatto per disarticolare, con mezzi diversi, l’Europa e farne evaporare financo l’idea.

Quella che sto per raccontare è una storia triste, che ai più darà fastidio, perché è sempre preferibile evitare fare i conti con la realtà. Ma la racconterò ugualmente per un altro “perché”: perché, per ricominciare a fare politica, occorre sapere da dove si viene.

La politica, che la mia generazione e molte precedenti avevano conosciuto con i suoi pregi e difetti, è finita. Aveva più di tre secoli sulle spalle. Nata con lo Stato moderno, territorio, confini, popolazione di appartenenza, articolatasi in Stato “assoluto” prima e “di diritto” poi, si è sviluppata secondo categorie capaci di interpretare, e quindi dare significato, all’agire degli uomini e delle generazioni: idee, progetti, decisioni.

La “categorie” sono, infatti, costrutti mentali, formati da astrazioni intellettuali, capaci di dare un nome, una identità, all’esperienza umana, consentendone, quindi, una interpretazione ed una direzione. Anche “esperienza” è una astrazione intellettuale, con la quale si definiscono quelle azioni della vita, individuale o associata, alle quali il soggetto assegna un significato; non ogni nostra azione, infatti, per ciascuno di noi assume il significato di “esperienza”; alcune segnano la vita, altre passano nell’indifferenza.

Ho fatto questo inciso, probabilmente un po’ noioso, per arrivare a dire che la fine della politica è determinata dalla estinzione di quelle categorie (nel senso che ciò che si è estinto è il concetto stesso di “categoria”, per ragioni che dirò di qui a poco), che ne hanno costituito la vita in quell’arco di tempo chiamato “modernità”. Ne nomino alcune: “popolo”, “nazione”, “borghesia”, “proletariato”, “classe”, “democrazia”, “dittatura”, “libertà”, “uguaglianza” e, infine, il binomio “destra / sinistra”. Non so se sono tutte, ma quelle che comunque voglio mettere in gioco, dal momento che hanno fatto la storia politica, sociale e culturale che abbiamo conosciuto.

All’origine di tutte queste “categorie”, ve ne è una che è stata il tratto distintivo della “modernità”: quella di “Soggetto”, che può essere individuale, associato, organico e collettivo.

Tralascio “popolo” e “nazione”, per arrivare subito alla borghesia come soggetto (ed alla sua scomparsa, ma di questo più avanti). Come soggetto storico, la borghesia non coincideva con la semplice detenzione del capitale, ma era un modo, soprattutto etico-culturale, di intendere il rapporto imprenditorialità – profitto. Non occorre scomodare Max Weber per saperlo, basta leggersi l’affresco contenuto ne “Il Borghese” di Franco Moretti (Einaudi, Torino 2017) per rendersene conto. “Borghesia” evoca altre due categorie che hanno segnato la storia tra Otto e Novecento: “classe” e “proletariato”. È Marx ad introdurre i due termini, l’uno generale l’altro specifico, come segni di una lettura scientifica della storia. Alla base vi è la categoria generale “soggetto collettivo” che viene denominato “Classe”; ne segue che borghesia e proletariato si specificano come “classi” nelle quali si articola la società ed alle quali viene ricondotto il conflitto che ha da sempre attraversato la società. Soprattutto, l’introduzione della “classe” è servita a dare un nome unificante a quella massa di umanità prima dispersa, senza nome, perché frantumata dalla condizione umana di operaio sottomesso alla classe borghese, titolare dell’impresa industriale. Una moltitudine dispersa che, in virtù del luogo ove svolge per intero sua vita, la “fabbrica”, acquista, così, un nome: “classe operaia”. L’operaio, nel momento che prende coscienza di sé, grazie alla materialità fisica della fabbrica e del suo stare gomito a gomito vicino all’altro, identico a sé, ed alle macchine, prende coscienza della sua dipendenza, ma anche della essenzialità del suo lavoro per il profitto dell’impresa. Acquista consapevolezza di essere non un semplice individuo, ma di costituire insieme a tutti i compagni di lavoro un soggetto unico, collettivamente identificabile. Capisce che ha di fronte a sé, come altro soggetto, il padrone della fabbrica, con il suo capitale e con il relativo profitto, che si genera però solo grazie al lavoro operaio. Secondo questa interpretazione, accanto alla classe operaia, anche la borghesia viene letta come “classe”, individuata dal rapporto impresa – capitale – profitto – lavoro.

La storia viene allora intesa, interpretata e raccontata come conflitto tra due classi: quella operaia e quella borghese e su questa contrapposizione si rimodellano categorie storicamente più antiche come quella di democrazia, libertà, uguaglianza, e ne nascono interpretazioni nuove come quella di socialismo e liberalesimo, che danno vita a quella dicotomia storica, che ancora oggi viene recitata nella retorica quotidiana, destra / sinistra.

Ho fatto questa rapidissima rassegna di termini carichi di cultura, per arrivare ad una riflessione: la “categoria” politica denominata “sinistra” è strettamente legata all’esistenza storico-interpretativa di un soggetto collettivo che acquista identità e vita per mezzo della materialità del lavoro consistente nel posto fisso in un luogo determinato: la fabbrica. Anche la “destra”, quella meritevole storicamente di questo nome, è legata alla stessa materia costitutiva ed alla esistenza della borghesia. Solo che le due vicende sono divenute, nei decenni recenti, diverse. La “destra” può ancora essere evocata con qualche riferimento, più che altro retorico, per la ragione che ciò che è ancora vivo e vitale è il nesso “capitale-profitto”. Nesso che è solo il simulacro materialistico della “destra”. Infatti, i capitalisti di oggi non possono più dirsi “borghesi”, poiché l’egoismo finanziario ha preso il posto dell’investimento produttivo, per l’inversione che si è determinata tra economia materiale e finanza. Di conseguenza: il “liberalesimo” che segnava lo spirito borghese si è deformato in “liberismo” e la concorrenza del “mercato” in “mercatismo”.

Con la fine di queste due categorie sono venuti meno anche gli strumenti propri della politica in quanto “pensiero”: la riflessione ed il progetto. Dicendo questi ultimi termini, pensiero – riflessione – progetto, metto in campo quella destrutturazione temporale prodotta dalla tecnologia elettronica, che ha sostituito la temporalità diacronica (passato – presente – futuro) con la a-temporalità dell’impatto. Questa sostituzione ha spostato l’agire umano dalla riflessione alla reazione; dal progetto all’immediatezza del risultato. Quindi “pensare”, che è una attività diacronica, è divenuta una attività se non impossibile, quanto meno inutile. E con il pensare sono venute meno le sue strutture costitutive: la ri-flessione e le “categorie” interpretative della realtà. L’algoritmo, che ha sostituito il pensiero, ha deformato l’oggi ed il domani, il presente ed il futuro, nella fredda immediatezza del risultato, nel quale ogni variabile è assorbita in un mero calcolo di percentuale di rischio.

L’affermarsi della dimensione dell’immediatezza è ciò che ha prodotto il domino della economia finanziaria sull’economia reale, del profitto immediato sull’investimento nel tempo, e tutto questo ha prodotto quella globalizzazione mercatista che ha esautorato lo Stato e con questo la effettiva pregnanza di ogni categoria politica. Nel mercato globale, ciò che fa la differenza è la riduzione dei costi di produzione; la fabbrica, allora, diviene una appendice del lavoro robotizzato ed il posto di lavoro non può più essere “fisso”. Senza fabbrica e privato del posto fisso, il lavoratore diviene un mero individuo, lasciato solo, in perenne competizione con altri per guadagnarsi la giornata. Il mercato globale e la finanza hanno frantumato, perciò, la pensabilità stessa di un “soggetto collettivo”. Tant’è che oggi l’unico soggetto che ancora può essere identificato con questo aggettivo, “collettivo”, sono i pensionati, perché è l’unico soggetto che può essere pensato unitariamente, in quanto ha una sua definita identità dovuta alla sua stabilità.

In un mondo fatto così, se la “destra” può avere ancora uno spazio, certamente non più ideale, ma materialmente legato al nesso capitale – profitto, la “sinistra”, privata della fabbrica, del posto fisso, ed insieme di un “soggetto collettivo” e, con questi, privata anche dell’idea di futuro, perde la sua stessa struttura costitutiva. Attenzione: con questo, non intendo dire che l’idea di “sinistra” sia necessariamente legata alla categoria del conflitto, poiché il soggetto collettivo non è, del pari “necessariamente”, dal punto di vista storico-politico, un soggetto conflittuale. Lo era nella lettura marxiana, ma questa non è l’unica possibile.

Voglio, invece, sottolineare un altro aspetto. La “destra”, pur perdendo il suo essere “borghese”, ma conservando il profitto, può sopravvivere alleandosi con i robot; la “sinistra”, invece, non può fare a meno degli uomini. Ed è da qui che occorre ripartire, facendo a meno del soggetto collettivo, per il quale sono venute meno le categorie intellettuali che lo costituivano, per tornare a cogliere, invece, l’origine di ogni dimensione esistenziale.

Occorre, cioè, tornare alla riscoperta pratica della struttura originaria del nostro essere uomini. È più semplice di quanto si creda. Basti soffermarsi solo un attimo su di un dato evidente, ma che troppo spesso sfugge: che ciascuno di noi, essendo un ente finito, ha necessariamente un altro IO accanto al suo, non uguale, ma sicuramente pari, in quanto IO. Ne segue che ciascuno di noi oltre ad essere per se stesso un “IO” è, allo stesso tempo, anche un “ALTRO” per l’IO dell’altro. E questo è un dato strutturale della soggettività, assolutamente non modificabile, poiché non modificabile è il nostro essere enti finiti. Possiamo ignorare questa nostra condizione umana: si può essere egoisti, individualisti, cinici, senza scrupoli, crudeli e violenti, ma queste scelte della persona non modificano la struttura della relazionalità intersoggettiva, anzi, la violano. Vale a dire che, poiché ciascun IO contiene in sé l’ALTERITA’, violare l’ALTRO è come violare quella parte del se stesso che costituisce, integrandolo, il nostro stesso IO.

In questo pensiero, che è una presa d’atto, risiede il germe di quella solidarietà che dovrebbe costituire la linfa e la bussola di una nuova sinistra: non più un soggetto organico, storico-collettivo, ma una “rete” costituita dall’erigere a sistema quella relazionalità intersoggettiva che costituisce l’essenza del nostro essere uomini sulla terra.

Bruno Montanari

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