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PER UNA RICONFIGURAZIONE INTERCULTURALE DELLA FILOSOFIA

Non è possibile omettere i molti contributi orientati a rivisitare interculturalmente la storia della filosofia occidentale, considerata nel suo complesso, oppure in alcuni suoi momenti dimenticati, perché se riscoperti attraverso un’adeguata metodologia storiografica, possono inaugurare percorsi ermeneutici decisamente innovativi. Nella filosofia interculturale occorre dar voce ad un processo più che a un dato, ad una vera e propria configurazione inedita della realtà che Edmund Husserl ha descritto nei termini di una «costituzione di “mondi” di qualunque tipo, partendo dal proprio flusso di vissuti, con le sue varietà apertamente infinite, fino al mondo oggettivo nei suoi diversi gradi di oggettivazione» (Husserl 2017, p. 173). La rappresentazione della coscienza umana in termini di flusso, corrente continua, che troviamo formulata da William James (stream of consciousness) sulla scorta della filosofia spiritualista francese (in particolare grazie ai contributi di Victor Egger e di Henri Bergson), consente di ricostruire dalle fondamenta il primato ontologico ed etico del cogito cartesiano, laddove non si tratta più di esibire l’autoevidenza e la trasparenza di un soggetto-substratum, bensì di dar voce all’insolito e alla differenza secondo un’istanza etica temporalmente contestualizzata. Ciò significa aprire una fase più o meno duratura di conflitto simbolico dentro e oltre la «dialettica del riconoscimento». Si tratta, detto in altri termini, di far spazio ad un’espressione (più che ad una rappresentazione) inedita della soggettività che lo scrittore e poeta francese Édouard Dujardin, in apertura del suo «romanzo-monologo» del 1887 Les lauriers sont coupés, ha così descritto:

 

Una sera di sole al tramonto, di aria lontana, di cieli profondi; e folle confuse; rumori, ombre, moltitudini; spazi estesi all’infinito; una vaga sera… E sotto il caos delle apparenze, tra le durate e i luoghi, nell’illusione delle cose che nascono e si generano, uno tra gli altri, uno come gli altri, distinto dagli altri, simile agli altri, uno stesso e uno in più, dall’infinito delle esistenze possibili, io sorgo; ed ecco che il tempo e il luogo si precisano; è l’oggi, è il qui; l’ora che suona e, attorno a me, la vita (Dujardin 2009, p. 29).

 

La soggettività così espressa – che può anche essere intesa come il risultato storico di una «lotta per il riconoscimento», il cui limite, talvolta inemendabile, resta l’alienazione – denota l’emergenza di un vissuto mobile e fluttuante che si rivela essere vincolato più alla dimensione del tempo che a quella dello spazio, un vissuto radicato in esperienze affettive ed emotive, ma che, nel contempo, non può mettere completamente fuori gioco il supporto razionale assieme alla sua funzione «regolativa», kantianamente di condizione di possibilità dell’esperienza, perché altrimenti potrebbe far regredire il soggetto a situazioni di de-culturazione, isolamento o depersonalizzazione, come è accaduto con una certa lettura del postmodernismo (Cfr. Fistetti 2008, p. XV). Sempre Husserl, laddove affronta la questione del tempo, osserva che «l’“ora” che sta appunto per sprofondare non è più il nuovo, ma ciò che viene spinto via dal nuovo» (Husserl 1981, p. 92), e rileva come in questo flusso temporale digradante nel passato si costituisca un tempo «fisso, identico, obiettivo» custodito dalla memoria (Ivi, p. 94), ovvero la base solida, il punto di appoggio della nostra identità. Ripartendo da questi assunti fenomenologici, la filosofia interculturale può valorizzare lo «slancio» verso il futuro che dovrebbe essere costitutivo di una nuova conformazione dell’umano, come mostra bene, ad esempio, il socialismo africano di Léopold Sédar Senghor (1906-2001) – lettore, tra l’altro, dell’Évolution créatrice di Bergson – il quale intende valorizzare la nozione di prospettiva e non soltanto quella di pianificazione (Bachir Diagne 2011, pp. 61-62). La filosofia interculturale intende infatti promuovere l’idea di un tempo aperto, «futuribile», prodotto dall’interconnessione dinamica delle attività umane, senza dover trascurare quanto si verifica all’interno di ciascuna cultura, giacché, come si è visto accadere nel contesto iberoamericano, l’esperienza interculturale non è «una possibilità che si dà solamente fuori dalle frontiere della propria cultura», ma è anche «un’esperienza interna o, detto in modo migliore, una frontiera che si vive all’interno di ogni cultura» (Fornet-Betancourt 2006, p. 144). Da questo fronte internazionale della ricerca viene così auspicata un’«universalità concreta che cresce dal basso e che, appunto, può crescere a partire dalle particolarità che vengono rese solidali per il comune scopo di rendere possibile la vita per tutti, in un movimento che mondializza la tolleranza e la convivenza» (Ivi, p. 146), prospettiva che trova un ulteriore riscontro nella proposta «convivialista» intesa come un «socialismo radicalizzato e universalizzato», formulata da Alain Caillé assieme ad altri autorevoli studiosi di vari paesi, partendo dall’assunto che il progetto globalizzato di neoliberismo ha prodotto una democrazia non sempre dal volto umano, e che quindi occorre guardare a modelli alternativi, più umani, di convivenza, in grado di mettere a frutto le migliori eredità storiche e culturali (Caillé 2011, p. 75). Pur nei loro differenti orientamenti teorici, questi autori considerano il pluralismo mondiale come alternativo alla globalizzazione, facendo così spazio alla cordialità, all’ospitalità, alla simpatia, e operando concretamente «a favore della mondializzazione di un universo in cui tutte le culture si sanno rispettate come soggetti ed in cui, per questo motivo, possono trasformarsi vicendevolmente senza timore di essere colonizzate» (Fornet-Betancourt 2006, p. 146). In questo quadro, la giusta insistenza – lo si è appena ricordato – sulla centralità della simpatia nelle vite dei soggetti umani non si accompagna soltanto «a una visione del tutto naturalizzata e secolarizzata della nostra cultura, ma aiuta anche a delineare alcune ipotesi su come sono andate le cose fino adesso, e su quali sono gli elementi significativi della nostra situazione nel mondo per cercare di capire come andranno» (Lecaldano 2013, p. 170). Nell’Esquisse d’une théorie des émotions Sartre scriveva non a caso che l’emozione deve essere compresa come una vera e propria «trasformazione del mondo», in particolare quando i sentieri tracciati diventano troppo difficili o quando non vediamo alcun sentiero. La transizione, non necessariamente oppositiva, dal paradigma del multiculturalismo a quello dell’interculturalità (sul tema si veda, tra gli altri, Fistetti 2008, pp. 114-115), e finanche a quello di «multiappartenenza» formulato da Jacques Attali (Attali 2008), consente dunque di mettere al centro di una futura trasformazione etica e politica il problema della conflittualità tra le culture, al fine di costruire delle unità più plurali e dinamiche. «Capire il racconto degli altri» è tanto una prassi storica che uno sforzo ermeneutico (cfr. Cacciatore 2006). Si apre a questo punto della discussione un problema temporale, il cui corollario consiste nella perdita della sovranità «territoriale» delle culture. Alludo alla crescente indisponibilità a prendersi tempo «per comprendere e apprezzare l’altro, per percepirlo come soggetto che mi interpella a partire dal suo ordinamento o dalla sua relazione con la storia, il mondo e la verità» (Fornet-Betancourt 2006, p. 68). Tale «impotenza temporale» sacrifica il dialogo ed ostacola la riconfigurazione delle nostre società in prospettiva interculturale. Partendo dalla tesi secondo cui le strutture temporali collegano il microcosmo individuale al macrocosmo sociale, il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha recentemente evidenziato che «le società moderne sono regolate, coordinate e dominate da un rigido e severo regime temporale, che non si articola in termini etici» (Rosa 2015, p. VIII), in modo tale che il soggetto «può quindi essere descritto come condizionato in maniera minima da regole e sanzioni etiche, e quindi considerato “libero”, sebbene sia strettamente regolato, dominato e oppresso da un regime temporale per lo più invisibile, depoliticizzato, indiscusso, sottoteorizzato e inarticolato», regime che viene spiegato dalla «logica dell’accelerazione sociale» (Ibid. Si veda anche Roni 2017, pp. 152-154). Mostrando lo stretto legame che intercorre tra accelerazione del tempo e la conseguente alienazione sociale, Rosa punta il dito contro la mancanza di un «senso di connessione tra le strutture individuali del tempo e il nostro posto nel tempo storico» (Rosa 2015, p. 117), dovutamente alla pressione esercitata dalle norme temporali dominanti sulla volontà e le azioni, alla loro onnipervasività vincolante e soprattutto all’impossibilità di criticarle o combatterle (Ivi, p. 88). Credo che il problema del tempo – ovvero l’impotenza diffusa come diretta risposta alla sua accelerazione pianificata – risulti un aspetto centralissimo del dibattito interculturale, il quale ci impone di riconsiderare dalla base ogni «imperativo pragmatico». Pertanto, anche e soprattutto la riuscita del «dialogo interculturale complesso» non può non dipendere da un cambiamento radicale del modo di vivere il tempo, essendo esso una questione di comune interesse, alla base di ogni procedura dialogica (cfr. Benhabib 2005, p. 62). La risoluzione del problema temporale che investe le nostre società ci consentirebbe di metabolizzare meglio «l’aporia della resistenza concreta della differenza», e di assumere «come problema e fattore dinamico, irriducibile ed eccedente, il pluralismo e l’eterogeneità delle manifestazioni e delle espressioni culturali e politiche nelle quali si oggettivano, di volta in volta, narrazioni identitarie plurali» (Cacciatore 2017, p. 35). Poter disporre di un tempo più umano consente altresì di dar forma ad una prassi relazionale, critica e non oggettivante dell’integrazione tra culture differenti. La solidarietà, intesa come base cognitiva, etica e politica, si radica anch’essa in una concezione alternativa del tempo e dello spazio (cfr. Rodotà 2014). Eppure, malgrado i buoni propositi diffusi, la solidarietà è ancora una prassi molto debole nelle società contemporanee, la quale rischia di restare al livello di una prospettiva elitaria, auspicata soltanto da coloro che hanno un rapporto riflessivo con la propria o altrui cultura (cfr. Fornet-Betancourt 2008, p. 27). Per scagionare il rischio di una deriva «elitistica» dell’interculturalità, occorre fare i conti con le molteplici tendenze «signorili» prodotte dalle democrazie occidentali, laddove si assiste, come già preconizzavano Tocqueville e Nietzsche, ad un costante riemergere di individualismi da Occidente a Oriente (e viceversa), i quali favoriscono solo una crescita piramidale della società (cfr. Ricolfi 2014, pp. 155-163). Detto in altri termini, si sta assistendo sempre più spesso a tentativi reiterati di convertire la società orizzontale in quella verticale, regolata dalla rigida legge della competitività e del successo alimentato dalla distanza dagli altri. In questi casi non si allude più all’individualismo democratico che si sviluppa dal rapporto «transazionale» tra io e ambiente, come teorizzava Dewey (cfr. Urbinati 2009), bensì a quell’individualismo consumatore che si nutre della distanza e del respingimento del diverso, trovando nella società dei consumi agio, universo di significato e protezione. Questa società signorile di massa che sovverte ogni rigida distinzione di classe, diversamente da quanto troppo spesso si sostiene ricorrendo ad un’ideologia vittimistica e fuori dalla realtà, non genera solo masse anonime e perseguitate ma «signorini insoddisfatti», per riprendere un’espressione di Ortega. L’economia di mercato sta facilitando drammaticamente l’esportazione di questo modello individualistico signorile anche in altre culture (ad esempio in quelle eredi dirette del «socialismo reale»), nelle quali sembra attecchire facilmente. Se è vero, come si sostiene, che il proletariato mondiale, nelle sue diverse sfaccettature, non ha più lingua, né nazione – aspetto peraltro già ben chiaro allo stesso Marx – non sembra, almeno per il momento, prospettarsi alcuna prospettiva di liberazione dall’elemento signorile, se col termine «liberazione» intendiamo un’esperienza storica di riscatto etico e politico dai paradigmi «assimilazionisti». Sulla base di questo assunto, occorre sviluppare una controtendenza che sappia rimettere in gioco la diade natura/cultura su più livelli, onde poter ricostruire forme di convivenza nelle quali l’opposizione tra natura e cultura non fa più parte delle cose stesse, ma viene considerata indice di un problema prettamente «culturale» (sul tema, cfr. Giordano 2017, p. 263). Come scriveva Spengler, il tempo è una «scoperta» che facciamo solo pensando, perché appunto noi «siamo il tempo»; ma solo «sotto l’azione meccanicizzata di una “natura” e presso alla coscienza di una realtà spaziale rigorosamente regolata, misurabile, intelligibile, che la concezione del mondo delle civiltà superiori fabbrica il fantasma di un tempo, a soddisfare il suo bisogno di tutto comprendere, di tutto misurare, di tutto ordinare causalmente» (Spengler 2015, p. 193). Ancora oggi, sotto l’egida di questa spazializzazione planetaria del tempo si cela un «tormentoso enigma interiore», «enigma che si fa ancor più assillante per un intelletto ormai dominatore che da esso si sente contraddetto» (Ivi, p. 193). È lo stesso enigma, come rilevava con drammatica lucidità Nietzsche, che nelle grandi moltitudini genera nichilismi passivi, «come sintomo del fatto che i disgraziati non hanno più nessuna consolazione; che distruggono per essere distrutti; che, svincolati dalla morale, non hanno più nessuna ragione per “rassegnarsi” – che si pongono sul piano del principio opposto, e a loro volta vogliono la potenza, costringendo i potenti a essere i loro carnefici» (Nietzsche 2006, p. 17). Occorre ripartire con decisione da questi assunti nietzschiani dalla sorprendente attualità se intendiamo smontare definitivamente i modelli veicolati dalla società signorile di massa, e se auspichiamo che tale compito interculturale possa tradursi in un progetto alternativo di civiltà per le nuove generazioni, il cui orizzonte e la cui prospettiva si delineano su una scena ormai sempre più globalizzata.

 

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici essenziali

 

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