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S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Milano, 2017

In un articolo uscito per l’Espresso nel maggio del 2017 , Roberto Esposito considerava il jihadismo una potenza in grado di mettere fuori gioco il nostro stesso modo di pensare. Ai suoi occhi, un fenomeno come il terrorismo restava pressoché non indagato da uno sguardo prettamente filosofico. Il filosofo italiano si concentrava sull’immediato presente dominato dall’ISIS e dall’incubo sanguinario e violento del Califfato. Tuttavia, sappiamo tutti che, prima di ogni foreign fighter a Raqqa o Mosul, c’è stato un altrettanto grande avvenimento che ha segnato radicalmente l’ingresso dell’uomo e della Storia nel nuovo millennio: l’attacco terroristico al World Trade Center dell’11 settembre 2001. Ritornare su questo tragico episodio ci fornisce la possibilità di guardare con una lente filosofica inedita un fenomeno come il terrorismo? Davvero, come dice Esposito, i filosofi sembrano non averlo mai pensato adeguatamente? Recentemente ripubblicato da Meltemi Editore, “Benvenuti nel deserto del reale” di Slavoj Žižek rappresenta un’occasione quanto mai fertile per poterci confrontare in maniera problematica con un avvenimento con cui siamo ancora oggi, a distanza di 7 anni, costretti a fare i conti. Nonostante una produzione bibliografica sempre più fitta, l’evento storico che segna traumaticamente l’ingresso nel XXI secolo resta per Žižek incompreso. Scritto e concepito come “saggio d’occasione” (a partire da un pamphlet uscito in Germania, a sua volta derivato da un intervento apparso in Internet), “Benvenuti nel deserto del reale” è un testo allo stesso tempo compatto e estremamente coraggioso dal punto di vista speculativo per la vastità dei riferimenti filosofici e culturali che mette in gioco. Come spesso accade nella sua produzione, Žižek tenta di padroneggiare uno stile “traboccante di impennate concettuali e di riferimenti concreti, con un movimento vertiginosamente oscillatorio che va dai rimandi teorici ai dati di fatto storico-politici, dai film di massa alla psicoanalisi lacaniana, e, in genere, dai richiami alla cultura popolare […] all’impiego di raffinati strumenti di analisi filosofica” .
Nel primo capitolo del testo l’autore recupera il concetto badiouiano di “passion du réel” legandolo specificatamente all’oggetto delle sue argomentazioni: il XX secolo sarebbe caratterizzato, a differenza del precedente, dal tentativo affannoso di ricerca della cosa in sé. Invece dei vecchi progetti utopici di costruzione di una società futura, oggi siamo continuamente proiettati nel Reale colto nella sua estrema violenza, nonché costretti a pagare continuamente un prezzo per poter esportare gli strati fuorvianti che coprono la realtà. Tuttavia, proprio questo pathos porta con sé un paradosso fondamentale che lo spinge sempre di più a sfociare nel suo opposto, in un vero e proprio spettacolo teatrale dominato dall’effetto spettacolare del Reale stesso. Viceversa, la passione per l’apparenza che caratterizza la società odierna finisce al contrario per sfociare in un violento ritorno per la passione per il Reale. Se si comprende questa relazione biunivoca fra realtà e spettacolarità, si è altrettanto capaci di cogliere il legame quasi simbiontico fra Virtuale e Reale che domina la nostra società. Per Zizek, “la realtà Realtà Virtuale non fa che generalizzare questa pratica di offrire un prodotto privato delle sue proprietà. […] La Realtà Virtuale viene vissuta come realtà senza pur esserlo” . Il rischio maggiore di questo processo consisterebbe quindi nel continuare a percepire questa stessa realtà come una gigantesca entità virtuale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, come le immagini del crollo delle Torri gemelle e della gente terrorizzata ci abbiano portato a rivedere nel Reale ciò che è stato oggetto di spettacolo in numerosissimi film catastrofici. Il richiamo alla cinematografia non è di secondaria importanza poiché, per il filosofo sloveno, il successo del film Matrix ha anticipato e, allo stesso tempo, portato all’estreme conseguenze questa logica. Nel film la realtà in cui viviamo è virtuale, generata da un computer al quale siamo tutti connessi. Quando il protagonista si sveglia nella “realtà reale” , vede un desolato paesaggio tipicamente post-apocalittico. Morpheus, il capo della resistenza, pronuncia le famose parole: “Benvenuto nel deserto del reale!”. Secondo questa prospettiva gli abitanti di New York avrebbero vissuto la medesima situazione essendo stati catapultati nella realtà più autentica mentre il resto del mondo continuava a notare parallelismi con immagini già viste sugli schermi cinematografici. Dunque, se tradizionalmente ha dominato l’interpretazione di un 11 settembre visto come ingresso della realtà in una quotidianità fatta di immaginazione mediatica, Zizek sostiene una tesi opposta: il crollo delle Torri Gemelle è stato piuttosto la realizzazione di una fantasia distruttiva alimentata da tanta cinematografia catastrofista. Questo evento ha rappresentato una materializzazione dei nostri incubi collettivi che ci risulta sempre più insopportabile poiché “non è successo che la realtà sia entrata sia entrata nella nostra immagine, ma che l’immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realtà” . Sciorinato questo nodo concettuale, è possibile quindi chiedersi effettivamente quali siano stati i risvolti etico-politici di questo avvenimento. I capitoli successivi del testo si pongono questo obiettivo intrecciando, in un’argomentazione densa e serrata, l’ingresso del logos filosofico nel Reale. Zizek attacca pesantemente il multiculturalismo oggi tanto in voga smascherandone gli elementi più contraddittori: sondare tradizioni culturali differenti è il modello sbagliato per poter comprendere le dinamiche politiche che hanno condotto all’attacco dell’11 settembre. Gli argomenti di cui si fanno portavoce i cultural studies ammettono indirettamente una lotta per l’emancipazione dei popoli oppressi collocandola in una dimensione interna all’ordine capitalistico mondiale. Tuttavia, questo aspetto sottintende una dimensione conflittuale in cui verrà in ogni caso riaffermata la fiducia verso la democrazia liberale americana. L’unico modo autentico per uscire da questa impasse consiste nel considerare l’attacco dell’11 settembre perfettamente calato nel contesto dell’antagonismo al capitalismo globale. Si tratta di resistere dunque a un duplice “ricatto” :
• Se ci limitiamo a condannarlo sosteniamo la tradizionale posizione ideologica del Male Assoluto incarnato dal Grande Altro. In questo caso noi occidentali saremmo vittime innocenti della violenza del Terzo Mondo.
• Se invece facciamo uso di strumenti di analisi socio-politica dell’imperialismo occidentali degli ultimi anni finiamo per considerare vittime gli stessi esponenti dell’estremismo arabo.
Al contrario, la prospettiva da adottare consiste nell’accettare la necessità della lotta al terrorismo, riformulando e ampliando la sua stessa definizione: “la scelta tra Bush e Bin Laden non è la nostra scelta: entrambi rappresentano Loro contro Noi” . I riferimenti messi in gioco dal filosofo sloveno conducono a uno fra gli aspetti più interessanti del testo: l’analisi di una nuova figura antropologica che si è venuta a determinare all’indomani delle guerre al terrorismo. Riprendendo assunti della dialettica amico-nemico di schmittiana memoria e aspetti dell’archeologia filosofica di Agamben, l’autore mette in evidenza come stia emergendo un nuovo modello di Nemico nel dibattito pubblico. Nello specifico, non si tratta di considerare il terrorista islamico il tradizionale soldato nemico o il criminale comune ma piuttosto un combattente illegale: ciò che emerge sotto la veste del Terrorista è proprio la figura del “Nemico politico” , escluso dallo spazio politico legittimato. Questa sfumatura riformula completamente la concezione stessa di conflitto, oramai radicalmente lontano dalla tradizionale visione di uno scontro fra stati sovrani. Per Zizek, al contrario, permangono oggi due forme di forme di conflitto:
• Esiste oggi la guerra fra gruppi di homo sacer, cioè conflitti fra soggetti che, per quanto considerati essere umani, non fanno parte della comunità politica. Gli esclusi di oggi, per Zizek, non sono soltanto i terroristi ma, più in generale, tutti coloro che stanno “all’estremità finale della filiera umana” , destinatari privilegiati di una “biopolitica umanitaria” . Questi conflitti non vengono conteggiati come guerre vere e proprie e richiedono sempre più frequentemente gli aiuti umanitari dei “pacifisti” occidentali.
• Esistono anche attacchi diretti contro le potenze occidentali i cui fautori sono “combattenti illegali” che resistono in modo criminoso alle forze che tengono insieme l’ordine globale. In questo caso una delle parti assume automatica il ruolo di mediatore – non essendoci più la tradizionale lotta fra due schieramenti – che sopprime i ribelli e fornisce aiuti umanitarie alle popolazioni locali. Scrive emblematica Zizek che “forse l’immagine perfetta del trattamento della popolazione locale come homo sacer è quella dell’aereo da guerra americano che vola nei cieli dell’Afghanistan: non si sa mai che cosa lascerà cadere al suolo, se bombe o pacchi di cibo…” .
Non è possibile in questa sede sviluppare un discorso che metta in gioco le innumerevoli questioni tirate in ballo dal filosofo sloveno. Tuttavia, possiamo provare a estrapolare delle conclusioni. Il testo è un tentativo senza dubbio coraggioso di tenere aspetti filosofici molto complessi e diversi fra loro per declinarli in una inedita analisi di un fenomeno quanto mai complesso come il terrorismo. A questo proposito, la postfazione a cura di M. Senaldi riesce a fare chiarezza su alcune presupposti e riferimenti del pensiero di Zizek che, se non chiariti adeguatamente, rendono particolarmente difficoltosa la lettura proprio per via degli innumerevoli riferimenti messi in gioco dall’autore. Superate le vertiginose digressioni, è possibile esaminare quella che è la tesi finale dell’autore: la vera catastrofe dell’11 settembre vede come protagonista l’Europa che ha ceduto al ricatto ideologico degli Stati Uniti sintetizzabile nello slogan “o con noi, o contro di noi”. “L’Europa dovrebbe muoversi rapidamente per assicurarsi un ruolo autonomo in quanto forza ideologica, politica ed economica dotata di sue priorità. […] E gli abitanti di New York? Per mesi, dopo l’11 settembre, era possibile sentire dal centro di Manhattan fino alla Ventesima strada l’odore delle torri bruciate. La gente ha iniziato ad affezionarsi a quell’odore, che – avrebbe detto Lacan – ha iniziato a funzionare come sinthome di New York, simbolo concentrato dell’attaccamento libidinale del soggetto alla città, così che quando sparirà si sentirà la mancanza” .

Jacopo Francesco Mascoli

Sulla sinistra “senza compagni e senza storia”: da Ezio Mauro a quel che sta accadendo a sinistra del PD

In un bell’articolo, che in realtà è un piccolo saggio, Ezio Mauro ha tracciato il quadro di questa sinistra “senza compagni e senza storia”. Ha ricordato che “l’inconcludenza politica e la tragedia tribale” esibite in Italia sono di tutta la sinistra di questo occidente, ormai, pressoché ovunque, sull’orlo dell’estinzione. Ne ha additato l’origine nella “frattura tra il mondo compatto del Novecento e l’universo frammentato della globalizzazione, che cancella le classi ma trasforma le diseguaglianze in esclusioni”, che sposta il “ceto medio tra gli sconfitti”, che fa del precariato la “moderna interpretazione del proletariato” e che, infine, produce una “nuova solitudine repubblicana, uno spaesamento democratico dove crescono i “risentimenti individuali incapaci di trovare traduzione collettiva … una Causa”. E ne ha evinto che l’ultima chance di quella che fu la sinistra sta “in un popolo disperso e dimenticato da riconquistare”, in uno “spazio sociale da riorganizzare”, e dunque in una “scommessa culturale da giocare per ridefinire la propria presenza nel secolo”.

C’è tutto, e detto nel modo migliore. Ma fa chiedere: chi può farlo e come si può fare, magari cominciando dall’Italia.

Tutto questo è avvenuto in forza di processi oggettivi e potenti che hanno cambiato il mondo, ma hanno cambiato con esso le sinistre che in un modo o nell’altro lo avevano governato nella seconda metà del “secolo breve”.

Piaccia o no, l’attuale PD è una formazione politica di centro, e lo è non dal tempo di Renzi. Non è certo un’ingiuria, ma solo una constatazione: non perché non è più anticapitalistica, ma perché ha finito per far proprio il pensiero unico, l’idea che ai fallimenti del mercato si ovvia solo con più mercato, e dunque, in primis, riconducendo il lavoro, tutto il lavoro, alla logica della merce. Ha provato, e prova, a salvare l’assistenza, ma dall’esterno, senza “disturbare il manovratore”. Renzi ha solo accelerato questo processo, abbandonando antiche prudenze con l’idea di sfondare a destra, una destra che all’epoca della sua ascesa appariva in disarmo.

Questo mutamento del PD potrebbe sembrare reversibile, se non fosse che è mutato con esso lo statuto antropologico del suo personale politico e dei ceti che questo personale coinvolge (il popolo delle primarie): il professionismo rampante in luogo della vocazione politica e la contiguità subordinata alle èlite in luogo del “popolo disperso e dimenticato”.

Questo fa sembrare improbabile che la costituzione di una nuova sinistra possa consistere in una ri˗collocazione del PD o, comunque, in una ri˗conversione che muova dal suo interno: piaccia o no, non è facile immaginare che un tal personale politico sia folgorato sulla via di Damasco o che possa essere scalzato, protetto com’è dalla sua estesa rete di piccoli patrocini. E fa pensare che le chance di una sinistra, che ripensi la propria “presenza nel secolo”, rimangano affidate, piuttosto, all’incerta e problematica costruzione di una nuova formazione politica che provi a ri˗coniugare il grande retaggio della solidarietà e della dignità con un mondo ormai dominato dalla tecno˗scienza. Il suo problema è: con quali parole si parla oggi di una nuova Causa (come la chiama Ezio Mauro) e come si recluta ad essa un personale che vi creda e che sia disposto a mettersi in gioco.

Per costruirla questa nuova sinistra ci vogliono idee nuove e programmi inediti, ma ci vuole anche una soggettività politica iniziale che si proponga di accudirvi con una attitudine che guardi oltre la contingenza.

Ed è qui che appaiono i limiti di chi dichiara di volersi far carico di questo compito.

Il campo progressista di Pisapia non riesce ad andare oltre l’obbiettivo, un po’ patetico e alla fine velleitario, di ricondurre le pecore smarrite all’ovile: ma l’ovile non cambia di certo perché c’è dentro anche Pisapia, magari con un manifesto comune che parla di diseguaglianze e povertà (se non dice quanto si dà e da chi si toglie). Senza il PD oggi non si governa? Ma se non si immagina un discontinuità non si capisce a che serva costruirgli accanto un nuovo movimento. Soprattutto, se si pensa che si governa anche dall’opposizione e che l’opposizione non vuol dire affatto perdere il filo della responsabilità (si ricordi il PCI).

In questo hanno, di sicuro, ragione MDP e Bersani e D’Alema: prima si capisce e definisce cos’è questa nuova formazione e poi si discute da dove e come parla col PD. Ma inciampano anch’essi in due limiti. Il primo è che questo PD, la sua incorporazione del pensiero unico ed il suo reclutamento opportunistico sono figli loro. Sicché non basta a definire una nuova identità limitarsi alla critica di quel che ha fatto Renzi. La seconda è che lo svuotamento del PD e dei partiti che in esso sono confluiti si è prodotto a partire dalla loro riduzione a mero anti˗berlusconismo. Sicché l’anti˗renzismo promette solo lo stesso finale.

Mentre SI di Fratoianni e Vendola dovrebbe, infine, convincersi che dal crescere o diminuire di un punto ne va solo della sopravvivenza di una “nicchia”, che può conservare vecchie parole d’ordine e il personale che ad esse è legato, ma che, di certo, non giova alla sinistra e, soprattutto, al “popolo disperso e dimenticato” di cui dovrebbe curarsi. Sicché ha ragione Macaluso a dire che, dopo Livorno, non c’è stata scissione che sia andata oltre la rivendicazione di una “purezza” che lasciava soli gli ultimi e i deboli.

Occorrerebbe, piuttosto, che tutti si convincessero di tre cose.

La prima è che una nuova sinistra non si può presentare, ed autorappresentarsi, come supporto esterno del PD: una nuova formazione deve innanzitutto costruire la sua identità e definire la sua autonomia, e dunque concepirsi e proporsi in competizione (che non vuol dire guerra).

La seconda è che, tuttavia, un rapporto con il PD non sembra allo stato (specie dopo gli ammiccamenti “a destra” del M5S) abbia reali alternative e che la segreteria di questo partito è una questione solo sua: non conta chi lo guida, ma dove si rende realmente disponibile ad andare.

La terza è che deve farsi carico dei problemi di quel pezzo di società che è trascinata nella precarietà e deve farsene carico mostrando che il superamento di questa cifra della contemporaneità salvaguarda il futuro di tutti: dunque, pensando una politica, che muova dal disagio della società e dalle sue ragioni strutturali, che indichi come rispondervi già oggi seppur con il necessario gradualismo e che si interroghi sull’Europa sapendo che fuori non c’è il ripristino delle sovranità nazionali ma solo il dominio delle potenze globali.

LA QUESTIONE DELLA SFERA PUBBLICA EUROPEA

di Manfredi Camici

 

L’Unione europea, a seguito del crescente successo dei movimenti euroscettici e della volontà manifestata dagli elettori britannici il 23 giugno scorso, si trova oggi a navigare in acque poco floride. Il clima di forte contestazione e insoddisfazione nei confronti delle politiche europee ha spalancato le porte a scenari di “disintegrazione”, che per la prima volta vengono presi seriamente in considerazione e messi a tema anche da illustri pensatori come Wolfgang Streeck e Jan Zielonka[1]. Se l’Unione appare inadeguata nel far fronte alle problematiche poste in essere dalla crisi economica e dalle ondate migratorie – rimanendo in tal modo un attore secondario sul piano internazionale – ciò viene spiegato attraverso l’impossibilità costitutiva di dar vita ad una politica comune e condivisa dal momento che risulta assente l’elemento sul quale le politiche stesse dovrebbero istituirsi: il dibattito scaturente da una sfera pubblica europea omogenea. In generale, ad essere messa in discussione, è la possibilità che si venga a formare un ordinamento politico democratico a livello europeo data l’irrealizzabilità di una sfera pubblica che vada oltre i confini nazionali. Conseguentemente, la prospettiva stessa di una democrazia transnazionale viene valutata negativamente vista l’assenza di un demos europeo culturalmente definito.

Ad affermare l’impraticabilità di una sfera pubblica europea vi sono sia i nazionalisti, che intendono il demos come entità fondata su un’a priori storico-culturale, sia coloro che come Dieter Grimm e Philip Schlesinger ne sottolineano unicamente degli ostacoli pragmatici come la mancanza di una lingua comune e di mezzi di comunicazione condivisi[2]. In entrambi i casi, risulta impossibile fondare una comunità della comunicazione europea. Il presupposto che unisce queste due visioni e che accomuna gran parte della letteratura sulla sfera pubblica europea è che ad ogni Stato membro corrisponda una sfera pubblica nazionale. La sfera pubblica viene intesa come auto evidente, omogenea e stabile. L’idea soggiacente a questa visione è quella di una corrispondenza tra confine, cittadinanza, linguaggio, identità nazionale e interessi condivisi.

Definizione e funzioni della Sfera pubblica.

Prima di poter procedere oltre è necessario chiarire cosa sia una sfera pubblica, evidenziandone gli elementi fondamentali – seppure non ne esista una definizione condivisa universalmente – ed evidenziare il suo stretto legame con la democrazia. In senso più ampio, la sfera pubblica è lo spazio sociale che si viene a creare quando gli individui deliberano e discutono su questioni comuni. L’idea della sfera pubblica si radica nella disposizione discorsiva sviluppata dal filosofo tedesco Jürgen Habermas[3], il quale elabora una teoria deliberativa della democrazia. Alla base di tale teoria, infatti, si pone il superamento del riconoscimento della democrazia con i principi del voto, della maggioranza e di una concezione della politica quale regno della razionalità strumentale e spazio di aggregazione tra interessi irrimediabilmente contrapposti. Sebbene anche all’interno della teoria deliberativa vi siano molteplici varianti, queste sono accomunate dall’idea che la deliberazione pubblica tra i cittadini rappresenti l’unica fonte possibile di legittimità democratica. Una decisione può considerarsi legittima solo nel momento in cui viene assunta a seguito di un processo di deliberazione – ovvero un processo discorsivo fondato sullo scambio di argomentazioni razionali – a cui possono partecipare tutti gli individui coinvolti dagli effetti della decisione stessa. Una norma è ritenuta valida allorquando è stata precedentemente discussa e vagliata, all’interno di un dibattito libero a cui tutti gli interessati hanno pari possibilità di accedervi.

Alla sfera pubblica, inoltre, spettano le funzioni di scoperta dei problemi che affliggono la comunità, ma cosa ancor più importante, questa fornisce la giustificazione politica intrinseca alla democrazia. È alla base del concetto di legittimità e di sovranità quello di includere nel processo deliberativo tutti i potenziali interessati.

Lo sviluppo della sfera pubblica ha profonde implicazioni sulla concezione della teoria deliberativa. Coloro che governano sono obbligati ad entrare nell’arena pubblica per difendere le loro decisioni e cercare consenso. La sfera pubblica è critica del potere. Non vi sono corpi esterni alla deliberazione pubblica che possano giustificare l’autorità della legge. Vi è una transizione dal discorso del potere al potere del discorso. Unicamente il dibattito pubblico in se stesso ha il potere di stabilire le norme. Per questo motivo, la democrazia è divenuta oggigiorno l’unico principio di legittimazione dei governi, fondata su un’inclusiva sfera pubblica che consente a ciascuno degli interessati di prendere parte nella deliberazione sugli affari comuni. É nella sfera pubblica che avviene il contesto della scoperta, della percezione e la tematizzazione dei problemi. Per converso, le discussioni istituzionalizzate, come quelle parlamentari, aiutano a filtrare le priorità tra le rivendicazioni provenienti dai discorsi periferici che scaturiscono spontaneamente all’interno della sfera pubblica informale. É in questa interazione tra discorso istituzionalizzato e discorso non istituzionalizzato che prende forma il processo collettivo di autogoverno, in tale processo ha posto la politica deliberativa. Il principio della sovranità popolare può essere realizzato unicamente assicurando una libera sfera pubblica ed una libera competizione tra partiti, insieme a corpi rappresentativi per la deliberazione e la decisione.

Inoltre, grazie al ruolo dei media e alla critica pubblica, i politici devono definire il loro mandato sulla continua ricerca della sfera pubblica generale. In questo modello, affinché i temi possano arrivare dalla periferia informale al centro istituzionalizzato, è necessario che i mass-media siano permeabili alle istanze che provengono dall’esterno.

Questa visione ha suscitato numerose critiche circa la reale possibilità della sfera pubblica di non venir manipolata e colonizzata dai grandi strumenti di comunicazione di massa, piuttosto che da giochi di potere più o meno nascosti. La concezione habermasiana nega però l’immagine del consumatore massmediatico come unicamente passivo e culturalmente drogato. Nondimeno, anche nel caso in cui si volesse pensare ad una sfera pubblica manipolata e dominata dai mass-media, quest’immagine potrebbe essere riferita unicamente ad una sfera pubblica in condizione di riposo. «Nel momento in cui si mobilitano, le strutture su cui poggia l’autorità d’un pubblico capace di prender posizione cominciano a entrare in vibrazione. Allora si modificano anche i rapporti di forza esistenti tra società civile e sistema politico»[4].

La concezione deliberativa si differenzia tanto dalla teoria liberale, quanto dal concetto repubblicano di autonomia. Nella concezione liberale, il processo democratico si compie esclusivamente nella forma di compromessi d’interesse; in quella repubblicana la formazione democratica della volontà si compie unicamente nella forma dell’autogoverno.

«Se pensata discorsivamente, la democrazia non parte né dal principio di autonomia, né da quello di pari rispetto degli interessi, ma da qualcosa che li precede e li include entrambi, cioè dall’idea che non vi siano alternative razionali alla ricerca cooperativa e paritaria delle istituzioni e delle soluzioni che meglio consentano l’equa soddisfazione degli interessi e delle istanze di tutte le persone».[5]

 

La necessità di una sfera pubblica europea e la sua costitutiva impossibilità: I problemi del “nazionalismo metodologico” e del deficit democratico.

 

Se, come si è visto, le decisioni democraticamente legittime sono quelle che coinvolgono tutti coloro che ne sono influenzati, nel contesto attuale, lo Stato-nazione – a causa della crescente interdipendenza globale – non sembra più in grado di connettere coloro che decidono e coloro su cui ricadono gli effetti delle disposizioni. Emerge così il problema del deficit democratico, dal momento che in un mondo sempre più interconnesso – sul piano ecologico, economico e culturale – gli Stati combaciano sempre meno, nel loro raggio sociale e territoriale, con le persone e le sfere che sono potenzialmente coinvolte dagli effetti di queste decisioni. Basta pensare a come la decisione francese di ricorrere a 58 reattori nucleari per soddisfare il proprio fabbisogno energetico possa, in caso di disgrazia, ricadere anche su altri Stati che hanno deciso di rinunciare all’energia atomica.

La globalizzazione ha svolto un ruolo determinante, compromettendo lo stato amministrativo attraverso cui le società democratiche sono in grado di autogovernarsi, in quanto si sviluppano problematiche (ad esempio le tematiche ecologiche, il buco dell’ozono, la gestione del nucleare etc.) non più controllabili all’interno del singolo quadro nazionale. Lo stesso vale per le capacità di redistribuzione dei redditi all’interno del confine statale: l’accelerata mobilità dei capitali impedisce l’intercettazione dei guadagni così come la minaccia di trasferire all’estero l’impresa o il denaro mette in scacco il potere contrattuale dello Stato nei confronti del mercato. Senza la capacità dello Stato di garantire determinate politiche di welfare, un cittadino può perdere la capacità di esercitare i suoi diritti, rimanendo in tal modo escluso dalla possibilità di prender parte al dibattito pubblico. Pertanto, nel momento in cui i presupposti sociali in grado di garantire una partecipazione politica vengono compromessi, anche le decisioni prese in maniera pur formalmente corretta perdono la loro legittimità democratica e la loro credibilità. Alla luce di tali evidenze, la tematica europea e quella della transnazionalizzazione della democrazia diventano sempre più urgenti, a maggior ragione nel momento in cui alla fine del XX secolo è cresciuta in maniera esponenziale la complessità della società mondiale.

L’UE nasce propriamente con l’obiettivo di far fronte ai nuovi problemi che sorgono sull’asse globale-locale, imponendo un ripensamento della spazializzazione della politica. Ma come può un’istituzione transnazionale colmare la problematica del deficit democratico nel momento in cui è sprovvista di un demos, di una cultura condivisa, di mezzi di comunicazione comuni e di una sfera pubblica da cui trarre legittimità? Senza queste componenti risulta infatti impensabile dar vita ad una politica democratica e la strada verso il federalismo sembra preclusa in partenza.

Posizioni minoritarie, ma illustri, sostengono che la questione della legittimità democratica costituisca un falso problema. Giandomenico Majone[6], concependo l’UE nei termini di uno Stato regolatore afferma che l’unico problema delle istituzioni europee sia una crisi di credibilità. L’UE è chiamata a svolgere solamente una funzione di problem-solving, per questa ragione non ha bisogno di essere legittimata in forma diretta da una sfera pubblica, poiché il suo obiettivo è quello di perseguire un criterio di efficienza. In questo caso, la legittimità viene sottratta al versante della deliberazione pubblica (input) e collocata sui risultati (output). L’approccio intergovernamentalista, sostenuto da Alan Milward e Andrew Moravcsik[7], supera l’empasse ritenendo i processi decisionali dell’UE legittimati indirettamente attraverso gli Stati membri. Gli intergovernamentalisti concepiscono il processo integrativo come il risultato di un compromesso strategico tra gli Stati, orientati al perseguimento dei propri interessi nazionali. A ciò corrisponde un sottodimensionamento del grado di autonomia delle istituzione comunitarie, dal momento che queste vengono ritenute, in ultima istanza, controllate dai governi nazionali. Entrambe le soluzioni non sembrano però in grado di risolvere definitivamente il problema. L’interpretazione dell’UE nella funzione di entità di problem-solving fondata sul criterio dell’output incorre in due errori. In primo luogo, risulta impossibile stabilire dei risultati che possano essere ritenuti soddisfacenti indipendentemente dalla deliberazione di coloro che vengono influenzati dalle decisioni prese a livello sovranazionale. È solo all’interno dello scambio discorsivo che si possono stabilire criteri di accettabilità delle argomentazioni e trovare criteri di efficacia, dal momento che non vi sono norme sostantive che stabiliscano a priori quali posizioni possano essere accettate o escluse dal processo argomentativo. In altre parole, è solo all’interno dello scambio comunicativo che si possono rintracciare gli scopi della deliberazione e gli obiettivi sul quale vengono valutate le politiche dello Stato. In secondo luogo, l’efficienza dei risultati risulta una fonte di legittimità troppo debole per garantire stabilità ad un ordinamento politico, dal momento che qualora non si raggiungessero degli esiti soddisfacenti quest’ultimo verrebbe meno. Allo stesso modo, la teoria intergovernamentalista non sembra in grado di descrivere l’attuale configurazione del sistema politico europeo. L’espansione dei poteri delle istituzioni comunitarie e lo sviluppo di un diritto autonomo e sovraordinato a quello degli Stati membri, rendono quest’approccio insufficiente ai fini di una spiegazione comprensiva del sistema politico europeo che viene ridotto alla semplice interazione strategica. Infine, l’intergovernamentalismo non riesce a dar conto del forte sentimento di frustrazione e malcontento che si può facilmente riscontrare circa l’attuale stato del processo integrativo. Se l’Europa è ancora un continente di Stati nazione e l’UE unicamente un’organizzazione intergovernativa, allora il perseguimento dei singoli interessi nazionali, con l’utilizzo di qualsiasi strumento, essendo rimesso a ciascun singolo organismo statale e non invece compito precipuo dell’Unione, non dovrebbe essere fonte di critica per l’Unione stessa. Sia lo Stato regolatore, sia l’intergovernamentalismo si rivelano pertanto inadeguati nel fornire tanto una giustificazione esplicativa quanto una giustificazione normativa dell’UE.

Il dilemma rimane ancora aperto e apparentemente insolubile. Il rischio è quello di rimanere invischiati in una situazione di stallo: se da un lato sembra evidente la necessità di stabilire un ordinamento politico democratico transnazionale, dall’altro non si riesce a trovarne una fonte di legittimazione. Così, sono molteplici gli autori che sanciscono l’impossibilità della democrazia al di fuori dello Stato nazione, ritenendo che la sola e parziale soluzione possibile del deficit democratico sia la riduzione dei poteri politici dell’UE. Il rafforzamento della dimensione europea non farebbe altro che aggravare ulteriormente la situazione[8] poiché – vista la ormai acclarata assenza di un demos, di una cultura, di un linguaggio e di mezzi mass-mediatici condivisi, di partiti politici e di una sfera pubblica europea – le riforme istituzionali non riuscirebbero a fornire una legittimazione diretta delle istituzioni europee. Dello stesso avviso sono Andreas Follesdal e Simon Hix[9], per i quali il deficit democratico viene ampliato dal fatto che il processo integrativo favorisce un progressivo aumento del potere degli esecutivi rispetto ai parlamenti, anche a livello nazionale. Per tutte queste ragioni, i sostenitori dello Stato-nazione ritengono che l’integrazione conduca ad un gioco a somma negativa, dal momento che il deficit delle istituzioni europee viene trasmesso agli Stati nazionali acuendone le problematiche invece di risolverle. Ci troviamo così, come afferma Vivien Schmidt[10], con “politiche” europee prive di “politica”, laddove i Paesi membri vivono di “politica” senza “politiche”. Le “politiche” vengono intese, in questo caso, come la capacità di prendere decisioni che possano essere efficienti e per “politica” la possibilità di dar vita a decisioni legittime fondate sul discorso pubblico.

Sia la visione della disintegrazione, tanto l’integovernamentalismo, quanto la teoria dello stato regolatore e la visione federale non riescono a fuoriuscire del paradigma dello Stato-nazione quale unica forma politica possibile avente come fonte di legittimazione una sfera pubblica monolitica. Secondo Ulrich Beck, queste teorie sono deviate da un vizio di forma che affligge gli attori sociali e gli scienziati politici: il “nazionalismo metodologico”. La denuncia di Beck è condivisa anche da Habermas il quale afferma che dimenticandosi di essere in se stessa un prodotto artificiale, la coscienza nazionale si rappresenta nei termini di un prodotto naturale dato a priori rispetto all’ordinamento ricavato del diritto positivo e alla costruzione dello Stato. Appellarsi alla nazione “organica” significa così cancellare la contingenza e l’arbitrarietà storica dei confini politici, trasfigurandoli con un’aura di “sostanzialità contraffatta”.

Un necessario ripensamento della sfera pubblica europea:

Coloro che incorrono nell’errore del “nazionalismo metodologico” ritengono, dunque, impossibile realizzare una sfera pubblica pan-europea. L’inattuabilità di quest’ultima deriva dal fatto che viene pensata in base alle medesime caratteristiche delle sfere pubbliche presenti a livello nazionale. Questa è chiamata a soddisfare gli stessi requisiti: omogeneità etnica, culturale e linguistica. L’equivoco fondamentale in cui ci si imbatte, attraverso quest’interpretazione, è quello di identificare la lingua con la precondizione della deliberazione e della democrazia: la comunicazione. In questo modo non si fa altro che confondere il mezzo con il fine. Grimm ritiene – come altri d’altronde – che a causa della pluralità linguistica (24 riconosciute ufficialmente) i cittadini dell’UE non siano in grado di comunicare tra loro. Inoltre, non vi potrebbe essere alcun dibattito europeo senza mezzi di comunicazione condivisi quali giornali e televisioni. Grimm sostiene che:

« […] le perplessità sorgono dalla considerazione che una società in grado di intendersi discorsivamente sulle proprie questioni esiste in effetti a livello nazionale, non però in ambito europeo. Le strutture intermedie composte da partiti, associazioni, movimenti civici, media della comunicazione, senza le quali è impensabile un processo democratico vitale, mancano infatti in Europa, così che risulta assente anche quella sfera pubblica europea la quale rappresenta la condizione imprescindibile di tutti gli Stati democratici»[11].

Viene ravvisata così nel progetto europeo una politica guidata da élites, in cui risulta assente il popolo. In tal maniera, le differenze linguistiche rappresentano un limite invalicabile alla creazione di una sfera pubblica democratica in grado di oltrepassare i confini delle frontiere nazionali. La trasformazione dell’Unione Europea verso il paradigma di uno Stato federale porterebbe alla creazione di un’istituzione ancor più lontana dalla sua base sociale. «La legittimazione che ne deriverebbe sarebbe quindi solamente fittizia. Per uno Stato costituzionale europeo i tempi non sono ancora maturi»[12].

A ben vedere però, ciò che conta per la formazione di una sfera pubblica è la comunicazione e non la lingua. Come sottolineato da Kalus Eder e Cathleen Kantner[13], affinché si possa parlare di scambio comunicativo è sufficiente che vengano (1) dibattute le stesse tematiche allo stesso tempo e con la stessa attenzione, (2) utilizzati gli stessi criteri di rilevanza e di riferimento per dibattere. Se questi sono gli elementi costitutivi della comunicazione è dunque possibile pensare ad una sfera pubblica europea, non più in termini monolitici, ma come europeizzazione delle molteplici sfere pubbliche nazionali. Non è indispensabile che si condivida la lingua o i mezzi di comunicazione, ma è sufficiente che i singoli media nazionali parlino delle questioni europee contemporaneamente attraverso una prospettiva comune e condivisa. La soluzione non sta nella costruzione di una sfera pubblica sovranazionale, ma nella europeizzazione delle sfere pubbliche nazionali esistenti. «Queste, senza dover modificare profondamente le infrastrutture in vigore, possono aprirsi l’una all’altra. I confini delle sfere pubbliche nazionali diverrebbero in tal modo i portali di vicendevoli traduzioni».[14]

Ma questi criteri sono sufficienti affinché si possa parlare di sfere pubbliche europeizzate? Le funzioni svolte dalla sfera pubblica non si limitano ad una reciproca osservazione, così dunque non può bastare che i media nazionali discutano delle stesse questioni monitorandosi vicendevolmente. Ciò che caratterizza la sfera pubblica è il dibattito e la comunicazione che è alla base della formazione delle opinioni e della volontà di un ordinamento politico democratico. Ritorna così la problematica del soggetto chiamato a deliberare: il demos. La possibilità che si vengano a formare sfere pubbliche europeizzate è strettamente correlata alla questione dell’identità europea.

Larga parte della letteratura sulle sfere pubbliche ritiene che l’identità sia una precondizione ineliminabile, per queste ragioni si sostiene che non sia possibile una sfera pubblica europea. Il “nazionalismo metodologico” parte da premesse giuste, ma arriva a conclusioni sbagliate. È vero che la questione dell’identità è strettamente correlata a quella della sfera pubblica, ma identificando la comunicazione con la lingua si ipostatizza l’elemento identitario.

In realtà la relazione che intercorre tra identità e comunicazione è meno problematica dalla prospettiva della teoria deliberativa. Habermas non tratta infatti le sfere pubbliche o le identità collettive come qualcosa di dato. Le sfere pubbliche emergono nel processo stesso in cui le persone dibattono. Nel momento in cui si crea un dibattito su questioni comuni si reifica e reinterpreta la stessa comunità politica. Questo punto segue dall’affermazione di Craig Calhoun[15], secondo il quale le identità sono ridefinite nella sfera pubblica, il che le rende aperte al cambiamento. Sulla base di un concetto d’identità non esistenzialistico, Thomas Risse ritiene che si possa osservare anche l’emergere di identità europeizzate nella pluralità delle opinioni pubbliche europee[16]. La frequente interazione tra le persone e la condivisione di problematiche, come quella della crisi economica, connesse a simili esperienze di vita, sono in grado di incrementare il senso di comunità. È a partire dalla concezione della cittadinanza e della democrazia mediata discorsivamente, che la teoria deliberativa della democrazia include l’altro nella discussione pubblica, dal momento che la crescita esponenziale delle problematiche che influenzano la vita delle persone e che sfuggono al raggio d’azione degli Stati nazionali, compromettono la stessa possibilità delle persone di auto-organizzarsi sia come individui che come società. Laddove una concezione statica e culturalista dell’identità ritiene impossibile fondare una democrazia sulla partecipazione diretta dei cittadini europei a un dibattito transnazionale, adottando una prospettiva post-nazionale, che supera l’identificazione della comunità politica con la comunità di “destino”, lo sviluppo di uno spazio discorsivo europeo può fornire la base per una cittadinanza costituita da una pluralità dei demoi. La nascita di un’identità europea può perfettamente coesistere con quella nazionale. Detto in altri termini, non esistono identità monolitiche, ci si può sentire tanto europei quanto membri del proprio Stato. La globalizzazione ha infatti inciso anche sul sostrato culturale di solidarietà civica che costituiva le fondamenta dello Stato nazionale. L’integrazione politica di una società molto estesa, dal punto di vista di attuazione del processo di autodeterminazione democratica, è senz’altro il merito migliore della forma Stato-nazione. Tuttavia, sintomi di frammentazione politica sono oggi evidenti e mettono a nudo le difficoltà di una simile concezione della cittadinanza e della solidarietà. Per un verso, in virtù degli innumerevoli flussi migratori, lo scontro di diverse forme culturali e dei diversi mondi di vita porta a un indurirsi dell’identità nazionale, ma per altro, l’assimilarsi di una cultura globale smussa gli angoli delle sfaccettature che rendono uniche le singole culture autoctone e indigene, ammorbidendo il tutto. La solidarietà è sempre “solidarietà tra estranei” e questo vale sia nel contesto nazionale che in quello europeo.

Le sfere pubbliche, dunque, non sono date una volta per tutte, non preesistono alla comunicazione, ma soltanto all’interno di essa. Una comunità della comunicazione può essere costruita, decostruita e ricostruita tramite l’interazione intersoggettiva. Ciò che risulta indispensabile alla comunicazione è la condivisione del “mondo della vita”: ovvero di quel corpo comune di significati e di esperienze necessarie per comprendersi a vicenda. Siffatte ragioni spingono Risse ad aggiungere un terzo criterio – ai due proposti da Eder e Kantner – per poter parlare di sfera pubblica europea: (3) è lecito parlare di una comunità della comunicazione transnazionale solo nel momento in cui i parlanti (i demoi nazionali e i cittadini europei) si riconoscono come legittimi partecipanti al dibattito, inquadrando determinate questioni dalla medesima prospettiva[17]. Sia chiaro, adottare una prospettiva europea non significa adottare una medesima identità – intesa in senso forte – ma avere lo stesso quadro di riferimento per valutare la situazione ed essere consapevoli delle altrui posizioni.

Una comunità della comunicazione europea? La necessità di politicizzare l’UE

Se finora si è tentato di ricostruire il dibattito sulla possibilità della formazione di sfere pubbliche europeizzate, tuttavia non si è detto ancora nulla circa la reale esistenza di un’opinione pubblica europea.

L’attuale modello della governance europea ritiene che l’UE non possa che legittimarsi in base ai risultati raggiunti. Attraverso una concezione “paternalistica” dell’ordinamento sovranazionale le élite europee considerano – ricalcando così l’errore del nazionalismo metodologico – che vista l’impossibilità di una sfera pubblica non sia possibile politicizzare le questioni europee. Autori, come Stefano Bartolini[18], ritengono che la partecipazione diretta dei molteplici demoi nazionali alle politiche europee comprometterebbe la possibilità da parte dei governi dei Paesi membri di raggiungere un accordo sugli interessi comuni, trovando così risultati soddisfacenti.

La bassissima affluenza registrata nelle elezioni europee – passata dal 62% del 1979 al 43,09% del 2014 – viene interpretata dai sostenitori dello Stato regolatore come la dimostrazione del fatto che gli elettori non siano interessati all’UE dal momento che non si sentono europei. Sebbene sia indubbio che le elezioni europee vengano percepite come elezioni nazionali di secondo grado, anche i politici spiegano il loro focus “domestico” nelle campagne elettorali europee con il disinteresse dei cittadini. Di conseguenza, politicizzare l’UE in questo momento comporterebbe l’immediato fallimento del processo integrativo nell’istante in cui le singole comunità nazionali dimostrano di non riconoscersi a vicenda quali appartenenti alla stessa comunità politica.

Questa lettura contrasta con la circostanza che molti studi attestano come la maggior parte dei votanti voglia sapere di più sull’UE. L’assunto di fondo è che la crescita del sentimento anti-europeo sia legato alla mancanza del suo opposto. In quest’ottica, aprire alla politicizzazione vorrebbe dire incorrere nel rischio di una ri-nazionalizzazione, come dimostrerebbe emblematicamente anche il caso della Brexit.

Ad essere completamente rimossa è la possibilità che vi sia una crescente europeizzazione delle identità nazionali e che i cittadini possano giudicare le politiche dell’UE sul merito. Al contrario, la costante denuncia dell’esistenza di un deficit democratico a livello europeo, secondo Hans-Jörg Trenz e Eder[19], starebbe a testimoniare la nascita di una emergente comunità della comunicazione. Il deficit democratico non consiste nell’appropriazione da parte dell’UE delle competenze degli Stati membri, quanto nel non fornirne un degno sostituto a livello europeo. L’esito di questo processo è l’espropriazione della capacità di influenzare le “politiche” da parte della sfera pubblica informale. Il riferimento è rivolto alle scarsissime competenze legislative attribuite al Parlamento europeo dalla procedura di codecisione. Come se non bastasse, la crisi dell’euro ha contribuito ad aumentare la discrasia esistente tra le sfere pubbliche informali europeizzate, volte a politicizzare il discorso europeo e il centro amministrativo-istituzionale. Appare infatti emblematico il distacco tra i discorsi provenienti dalla Commissione europea, che hanno lo scopo di consentire la formazione di politiche sovranazionali senza “politica” e la contestazione emergente nella sfera pubblica. Il deficit democratico che ne risulta non è dovuto all’assenza del demos europeo, ma all’incongruenza esistente tra il luogo dove le decisioni vengono prese e quello dove queste agiscono. Tale contrasto ha fatto sì che le sfere pubbliche si risvegliassero assediando il centro istituzionalizzato, imponendo il loro dissenso vincolante al consenso permissivo che ha sinora guidato il processo d’integrazione europeo. Emerge così l’impreparazione dell’assetto istituzionale europeo ad affrontare la politicizzazione degli affari dell’UE. Le élite temevano che la politicizzazione dell’UE potesse condurre ad uno stallo politico, invero paradossalmente sta accadendo l’opposto: è la mancata politicizzazione del processo d’integrazione europeo a condurre verso il blocco dello stesso. La lezione che l’élite europea ha imparato dal proprio fallimento è stata quella di silenziare il dibattito pubblico, ma questi sforzi volti alla depoliticizzazione sono stati pagati a caro prezzo. Le questioni dell’UE sono rimaste visibili data la loro importanza. Temi come il cambiamento climatico, la politica monetaria, l’immigrazione, le politiche sociali, la sicurezza, gli interventi militari e l’ingresso della Turchia sono argomenti politici scottanti nella maggior parte degli Stati membri.

L’equivoco di base sta nel credere che sfere pubbliche europeizzate coincidano con il supporto verso l’Unione. La tesi che si vorrebbe provare a sostenere può apparire a prima vista inverosimile. Vale a dire, sottolineare il paradosso che individuerebbe nella crescita esponenziale dei movimenti euroscettici la nascita di un dibattito pubblico sulle questioni europee. Per questo, benché pericolosa, la politicizzazione è necessaria alla creazione dell’identità politica. Infatti, le persone sebbene non apprezzino le politiche europee, si identificano sempre più con l’UE. La fiducia nelle istituzioni europee non è mai stata così bassa, ma i livelli di riconoscimento sono cresciuti. Dibattere le questioni europee in quanto europei serve a costituire una comunità della comunicazione. Questo non significa consenso. D’altronde se per euroscetticismo si intende l’insieme di critiche volte all’UE allora euroscetticismo e politicizzazione sono la medesima cosa poiché ogni divergenza invoca un certo grado di disaccordo sulle politiche dell’UE. Il progressivo dissenso verso l’UE non fa che attestare la percezione che i cittadini hanno circa la rilevanza dell’ordinamento politico.

Dal punto di vista della teoria deliberativa e normativa della democrazia la politicizzazione è fondamentale. Controversie e discussioni sono ingredienti necessari per una sfera pubblica vivace e per un centro istituzionalizzato capace di trasformare gli impulsi provenienti dai processi comunicativi, posti alla periferia, in decisioni vincolanti. In questo modo, i dibattiti relativi alle questioni del processo integrativo e dell’identità europea, costituiscono il cardine di un’istanza di democratizzazione da parte della sfera pubblica. Il pubblico silente, attraverso il dibattito, si trasforma in pubblico capace di esprimere consenso o dissenso nei confronti delle politiche europee.

Comprensibilmente non è sufficiente che ci sia agonismo tra le parti, ma è necessario dar vita a politiche deliberative fondate sulla discussione e sul confronto. Il disaccordo è un presupposto necessario, ma non sufficiente alla nascita di un confronto discorsivo. Se il disaccordo non si articola in modo discorsivo rimane “contrapposizione” irriducibile e irrimediabile. Occorre, come si è detto, il riconoscimento dell’altro come appartenente alla medesima comunità politica. Ma esiste una simile agnizione tra le pluralità delle sfere pubbliche?

In questa prospettiva si può osservare la nascita di posizioni chiaramente europeizzate tra le diverse comunità della comunicazione. Il referendum greco, così come quello britannico hanno testimoniato come vi fosse una netta politicizzazione europea all’interno di ciascun Paese membro. Benché i quesiti fossero nazionali, le tematiche referendarie sono state dibattute all’interno delle molteplici sfere pubbliche informali come qualcosa che le coinvolgesse direttamente. In casi come questi, secondo Ruud Koopmans e Jessica Erbe[20], si può parlare di europeizzazione orizzontale. Laddove quest’ultima indica l’apertura di un pubblico nazionale verso gli altri, l’europeizzazione verticale sottolinea il rapporto che intercorre tra le sfere pubbliche europeizzate e l’UE. Un esempio può essere la tematica dell’austerity che viene posta in termini e prospettive comuni, proponendo una contrapposizione tra Stati debitori e Stati creditori che si riconoscono vicendevolmente come membri della medesima comunità politica. Allo stesso modo, si può individuare un nazionalismo cristiano e europeo contrario all’ingresso della Turchia. I movimenti “No-Euro” che sono sorti nell’eurozona avanzano delle istanze condivise e si riconoscono vicendevolmente come membri della stessa comunità e in quanto tali legittimati a prender parte al dibattito pubblico. Ciò viene attestato dal fatto che le posizioni espresse dalle singole sfere pubbliche, nei confronti di quelle degli altri Stati membri, non vengono più considerate ingerenze esterne. Appare dunque evidente la politicizzazione di queste linee di conflitto secondo prospettive europee. L’affiorare dell’opposizione alle “politiche” dell’UE implica necessariamente l’affermarsi di un soggetto in grado di muovere delle critiche: le sfere pubbliche europeizzate. Le rivendicazioni avanzate dall’euroscetticismo chiamano il centro istituzionale a giustificare le proprie decisioni nell’arena pubblica.

La discussione su quale Europa si vuole non può essere sottratta a coloro che ne fanno parte e ne subiscono passivamente le decisioni. Occorre prendere atto dalla politicizzazione – con la consapevolezza che è qui per rimanere – evitando che la prima decisione realmente deliberata dalle sfere pubbliche europeizzate possa essere quella di rinunciare all’Unione. I centri istituzionali hanno il compito di aprirsi alle istanze provenienti dalle sfere pubbliche europeizzate, dopodiché se ai cittadini informati non piace quello che vedono nell’UE, questo dovrebbe essere accettato come un normale e legittimo risultato espresso da un ordinamento democratico. Le élite sono chiamate a sostenere la loro visione dell’Europa all’interno del dibattito pubblico senza difendere l’UE al di là della forma politica assunta. Con il manifestarsi di sfere pubbliche europeizzate, l’era del consenso permissivo è probabilmente giunta al suo termine.

[1] Per approfondire la tematica della disintegrazione Cfr. W. Streeck , Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli Editore, 2013. e J. Zielonka , Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Bari, Editori Laterza, 2015.

[2] Cfr P. Schlesinger, Europeanisation and the Media: National Identity and the Public Sphere, in Arena 7 working paper, 1995. e D. Grimm, ‘Does Europe Need a Constitution?’, European Law Journal 1(3): pp. 282–302, 1995.

[3] Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013.

[4] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013, p. 425.

[5] S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi editore, 2014, pp. 126-127

[6] Cfr. G. Majone , ‘The Credibility Crisis of Community Regulation’. Journal of Common Market Studies, Vol. 38, No. 2, 2000, pp. 273–302. eThe European Commission: The Limits of Centralization and the Perils of Parliamentarization’. Governance, Vol. 15, No. 3, 2002, pp. 375–92.

[7] Cfr. A. Moravcsik, ‘In Defense of the “Democratic Deficit”: Reassessing the Legitimacy of the European Union’. Journal of Common Market Studies, Vol. 40, No. 4, 2002, pp. 603–34. e A. Milward, ‘The European Rescue of the Nation State, Routledge, 2005.

[8] Cfr. R. Bellamy , D. Castiglione , Legitimizing the Euro-“Polity” and its “Regime”: the Normative Turn in EU Studies, « European Journal of Political Theory», 2, 2003: pp. 7-34.

[9] Cfr. A. Follesdal, S. Hix, Why There is a Democratic Deficit in the EU: A Response to Majone and Moravcsik, Eurogov Paper, N. 05, 2005.

[10] V. A. Schmidt. Democracy in Europe: The EU and National Polities, Oxford University Press, 2006.

[11] D. Grimm, Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi di una Costituzione europea in, Diritti e Costituzione nell’Unione Europea , a cura di G. Zagrebelsky, Roma-Bari, Editori Laterza, 2005, p. 20.

[12] Ivi, p. 21.

[13] Cfr. K. Eder , C. Kantner, Transnationale Resonanzstrukturen in Europa. In Die Europaisierung nationaler Gesellschaften, edited by Maurizio Bach, Wiesbaden: Westdeutscher Verlag, 2000.

[14] J. Habermas , La democrazia ha anche una dimensione epistemica? Ricerca empirica e teoria normativa, in Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, p. 106. Per approfondire la tematica relativa all’apertura delle sfere pubbliche nazionali cfr. J. Habermas , Perché l’Europa ha bisogno di una costituzione?, in Tempi di passaggi, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, pp. 57-80.

[15] Cfr. C. Calhoun, Habermas and the Public Sphere, Cambridge, Mass.: MIT, 1992.

[16] Cfr. T. Risse., European Public Spheres. Politics Is Back, Cambridge University Press, 2014.

[17] T. Risse., A Community of Europeans? Transnational Identities and Public Spheres, Ithaca, NY: Cornell University Press., 2010, p. 156.

[18] Cfr. S. Bartolini, S. Hix, Should the Union be ‘politicised’ ? Prospects and Risks in Politics: The Right or the Wrong Sort of Medicine for the EU?, Notre Europe Policy Paper; 2006/19.

[19] Cfr. K. Eder , H. Trenz, The Democratizing Dynamics of a European Public Sphere: Towards a Theory of Democratic Functionalism, in European Journal of Social Theory 7, no. 1, 2004, pp. 5-25.

[20] Cfr. R. Koopmans , J. Erbe, The Transformation of Political Mobilization and Communication in European Public Sphere. Integrated Report: Cross-National, Cross-Issue, Cross-Time. Berlin: Europub.com, 2004.

 

L’EUROPA E LA SUA CRISI ORIGINARIA

Sul limes: tra “crisi d’Europa” e senso europeo della “crisi”.
Che la categoria di “crisi” faccia parte dell’attuale lessico politico è cosa certa. Altrettanto evidente è il fatto che, oggi più che mai, la crisi venga associata ad Europa. La nostra crisi è la crisi del sistema europeo, delle sue istituzioni, dei suoi valori, delle sue – più o meno mancate – decisioni politiche. Di questa crisi europea si sente ormai parlare abitualmente; dalle testate giornalistiche, ai programmi televisivi, passando per i dibattiti pubblici, la crisi d’Europa sembra essere ormai una realtà esistenziale[1]. Non è un caso che essa venga ormai ammessa tanto dai partiti euroscettici[2], quanto da quelli europeisti; con questi ultimi costretti ad accettare una lenta e continua disaffezione dell’opinione pubblica intorno il progetto di un’Unione Europea[3]. Non è qui possibile sviluppare una minuziosa genealogia delle cause che hanno portato a questa situazione. In questa sede ci si vorrebbe limitare a riflettere sul senso più teoretico di «crisi» e del suo rapporto con «Europa».

Ad uno sguardo superficiale – ma non per questo meno veritiero – la crisi d’Europa si articola intorno due momenti tra loro differenti ma assolutamente complementari. L’Unione Europea è stata, prima di tutto, vittima della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Si tratta qui di una crisi che trova la sua ragione all’interno di un dispositivo squisitamente economico. A farne le spese, in termini sociali ed esistenziali, sono state tanto le classi deboli e meno tutelate, quanto la cosiddetta fascia media che, consapevolmente o meno, ha subito una proletarizzazione[4] della propria forma lavoro. Accanto a questa crisi è possibile registrarne una più ampia del Politico. Sono molteplici i fattori che evidenziano questa rottura: dalla dissoluzione dei partiti tradizionalmente legati all’eredità socialista, all’irruzione delle dinamiche globale nelle dialettiche interne gli Stati-Nazione, passando per il problema della rappresentanza democratica, fino alla dissoluzione della forma partito e al mancato ripensamento delle forme sindacali.

L’Europa vive oggi nel segno di questo doppio volto della crisi. Una crisi che, vista la sua natura sdoppiata, mutevole, ambigua, risulta molto difficile da sondare, misurare e infine risolvere. A poco sono serviti gli appelli al senso di responsabilità e ancor meno il giustificazionismo delle politiche di austerità. Sicché oggi l’Europa è in crisi. Tuttavia questo assunto non rappresenta alcun novus della modernità. Ad esempio, già Marx, riferendosi alle contraddizioni interne al capitale, notava come le crisi fossero l’espressione necessaria e, al medesimo tempo, la soluzione temporanea al cosiddetto problema della caduta tendenziale del saggio di profitto[5], tanto da ipotizzare la necessità di una loro sistematica ciclicità. Così, secondo Marx, la crisi non viene mai da fuori, non è contingenza e nemmeno errore di qualche scellerato borghese; essa è piuttosto una patologia interna al sistema:

 

«[…] le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato»[6],

 

ove l’equilibrio ristabilito è chiaramente quello capitalistico, lo stesso che consente il sorgere di nuove crisi. Ma cosa vuol dire più in generale crisi? Seguendo il dizionario etimologico di Salvatore Battaglia il sostantivo femminile «crisi» significa:

«Notevole e improvviso cambiamento […] che avviene in una malattia; fase risolutiva che coincide con la repentina caduta della febbre 2. Inasprimento o accesso improvviso, fenomeno violento, per lo più di breve durata 3. Figur. Profonda perturbazione nell’esistenza di una persona che produce effetti più o meno gravi e dolorosi incidendo sull’intera condotta morale e concezione delle cose – Essere in crisi […] Attraversare una crisi di coscienza, una crisi spirituale 4. Figur. Turbamento vasto e profondo nella vita di una collettività, di un gruppo, di una società, di uno Stato […]»[7].

 

Il dizionario sembrerebbe dunque confermare gli elementi espressi dalla proposizione marxiana: la crisi ha a che fare con un momento di profonda perturbazione, caratterizzato da un’intrinseca violenza di breve durata. Si tratta – e il riferimento alla febbre non è affatto casuale – di un lemma specialistico della medicina, ma che può assumere anche una portata politico-economica nel senso di una condizione negativa che riguarda un «deterioramento» e su cui sarebbe interessante riflettere a partire dal saggio Naissance de la clinique di Foucault[8].

Tuttavia, tornando a Marx, ciò che si voleva rendere manifesto va ben oltre l’etimo medico della parola. Infatti, il carattere interno di questo deterioramento fa sì che lo statuto epistemico della crisi non solo non rappresenti una novità né per la scienza economica, né per quella politica ma, ben al di là, esso delinea un vero e proprio topos sistematico dell’intera narrazione moderna. Ma – e qui sta il punto determinante – proprio in quanto topos e lemma originario, la crisi perde il suo carattere critico, instabile, perturbante, per divenire aspetto fondamentale, determinante, costitutivo della storia d’Europa. Così, per quanto patologiche, le crisi rimangono nel rassicurante orizzonte della dialettica come le fasi antitetiche dello sviluppo capitalistico[9]. Ed anzi, nel materialismo storico-dialettico di Marx la loro risoluzione è pensabile unicamente con l’avvento sintetico della società comunista, unico momento in grado di superare la contraddizione insita nel capitale. Ma cosa accade quando il sistema dialettico marxiano perde la sua partita con la storia? Cosa rimane di queste crisi quando il fallimento dei socialismi reali rende manifesta l’impossibilità del superamento comunista? Accade che la crisi diviene una nevrosi[10] che cessa di venir recepita come tale, come perturbamento o interferenza della salute, divenendo piuttosto il carattere cronico dello stesso corpo storico europeo. Sicché, il passo da Marx a Nietzsche è breve: “l’Europa in crisi” altro non sarebbe che la diagnosi del suo nichilismo fisiologico. La crisi non è più momento antitetico nel sistema dialettico, ma messa in crisi del sistema. Per Nietzsche infatti:

 

«La crisi non è un momento, come per i neoclassici. La crisi risulta costantemente dal Wille zur Macht – e nella misura in cui questo si ripete, essa non giungerà mai […] a una fine, a una sintesi perfetta, la crisi sarà il divenire stesso […]»[11].

 

Tuttavia, questa variazione implica un radicale mutamento di prospettiva: non si tratta più di disquisire intorno il “senso della crisi europea”, né dal punto di vista economico-finanziario, né da quello politico, si tratta piuttosto di dialogare intorno al “senso di crisi” che appartiene all’Europa, alla sua storia, al suo linguaggio. La domanda da porre non chiede più «che cosa sia la crisi europea», ma «che cosa sia la crisi per l’Europa»: Umwertung aller Werte.

Ciò implica che almeno il termine «Europa» ci sia chiaro; un po’ come quando chiediamo del significato profondo di un testo avendo precedentemente cura di indagare il con-testo nonché – e soprattuto – chi sia il suo autore. Dunque per capire cosa significhi «crisi» occorre chiedersi: “chi è Europa”? E, lo si noti di sfuggita, chiedere chi sia Europa ci pone già al di fuori di quel modo di interrogarsi che pone l’inevitabilità della res: già da questa domanda Europa non è una «cosa», non è un «prodotto», non è una «merce», un qualche cosa di cui si può disporre, o su cui ci si può imporre. Europa è un «chi», una vita, un volto e ciò ci spinge verso quella particolare filosofia che Nietzsche chiama genealogia. Quel che si vorrebbe proporre è quindi una mito-fenomenologia dell’originario «Chi» europeo; un’archeologia del nome attraverso cui tracciare una breve ed incisiva genealogia di una vita segnata dalla crisi, dalla nevrosi, dal nichilismo.

 

  1. Il tentativo mito-fenomenologico e l’Urgrund d’Europa.

Dunque, chi è Europa? Fin da subito ci si può imbattere in un cliché che la filosofia non ha fatto altro che invigorire: la Grecia e, più nello specifico, la Grecia classica sarebbe l’Anfang, l’Inizio della nostra “europeità”. La Grecia di Socrate ed Aristotele, di Pericle ed Euripide svolgerebbe così la funzione di principium individuationis europae. Nella Grecia risiederebbe il leibniziano principio di ragione che fonderebbe l’Europa, determinandone la Wesen. Secondo questa tradizione l’autenticità greca coincide con il λόγος o, meglio, con la pretesa del λόγος razionale di opporsi all’inautenticità del μύθος. La nascita della filosofia rappresenta questo punto di rottura che è, sin da Omero, frattura politica con l’Oriente, con l’Asia e con i suoi miti fondativi[12]. Ancor oggi questa lettura domina il paradigma culturale europeo e a poco sono serviti gli studi degli antichisti più avveduti che, come Bonazzi, invitano a riflettere sull’inquietudine della Grecia classica[13] o sull’importanza della tradizione “dionisiaca” nell’Ellade[14]. D’altro canto, nella più antica tragedia attica che ci sia giunta nella sua completezza – I Persiani di Eschilo – l’autore, per bocca della regina persiana Atossa, descrive così la Ionia:

 

«[…]Due donne m’apparvero: erano belle le loro vesti. Una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti doriche: le avevo davanti agli occhi, ed erano entrambe di statura imponente […]. Erano sorelle di sangue, della stessa stirpe, ma a una era toccato in sorte d’abitare la terra dell’Ellade, l’altra la terra dei barbari. Erano in contrasto fra loro, a quanto mi parve di vedere, ostili l’una all’altra: mio figlio se ne avvide e le teneva, cercava di ammansirle: ecco le lega entrambe ad un carro col giogo, ecco impone le redini sul collo. E una stava ritta come una torre, fiera di quei finimenti e prestava docile la bocca alla briglia; ma l’altra recalcitrava. Ecco con le mani le bordature del carro fa a pezzi, a forza si strappa: è senza morso; ecco spezza il giogo, a metà»[15].

 

E poco oltre, dopo aver portato le offerte agli antichi altari, Atossa incalza i suoi servitori:

 

«Regina: [..] dove dicono sia Atene, miei cari? In quale terra?
Coro: Lontano, verso Occidente, dove il Sole potente nel tramonto si strema. […]
Regina: E chi è il loro signore?
Coro: Si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi»[16].

 

Il λόγος greco-europeo rappresenta una forza liberatrice o, nella sua rilettura più radicale, quella potenza recalcitrante che scalpita, morde e, infine, rompe il mitologico giogo dei re-padroni, come lo sono tutti gli eroi fondativi delle civiltà orientali: dai persiani Dario e Serse, a Gilgamesh e ai faraoni dell’Egitto teocratico. Tuttavia la realtà dipinge un quadro più complesso, sia se si affronta la questione su un piano storico – e gli stessi barbari altri non sono che i popoli che parlano lingue differenti dal greco ma con cui proprio i greci hanno intensi rapporti economici, politici e culturali –, sia se la si affronta su un piano squisitamente critico-teorico. Per quanto concerne il primo aspetto basterebbe qui ricordare la fascinazione platonica per le dottrine egizie, la provenienza tracia del dio Dioniso, il florido commercio tra città della Ionia e della Fenicia etc. Per quanto riguarda il piano critico-teorico ci si vorrebbe limitare ad un rapido richiamo ad Ernst Jünger quando in I prossimi titani scriveva:

 

«Penso invece che i teologi e gli intellettuali che praticano oggi con tanto zelo la demitologizzazione assomiglino a un esercito di formiche entrate in una pingue cucina: divorano e distruggono tutte le leccornie che vi trovano, ma non smettono di raccontarsi quanto sono squisite»[17].

 

Detto altrimenti, la Grecia intesa come Ur-grund d’Europa rappresenta un dei miti più duri a morire dell’intera tradizione storico-filosofica. Eppure – proprio se non si pretende una radicale sconfessione del μύθος – ci si trova nell’ambito ove più è pertinente chiedere il “chi originario” d’Europa. Questo perché il nome proprio di «Europa» è effettivamente il nome di una persona o, per lo meno, di un personaggio della mitologica greca: quello della figlia dei reggenti di Tiro[18].

Nel mito, Europa – figlia del re fenicio Agenore e di Telefassa – passeggia con le sue ancelle sulle spiagge nei pressi della città. Qui s’imbatte in un muscoloso toro bianco che altri non è che Zeus. Tra i due s’instaura immediatamente un rapporto ambiguo; se per un verso è evidente la diffidenza di Europa, per un altro verso ella guarda al toro con gli occhi di Eros. Ed è precisamente in questo momento inquieto che Zeus mette in atto il suo piano d’amore, rapendo la fanciulla e gettandosi velocemente in mare.

In Le nozze di Cadmo e Armonia, Roberto Calasso riflette molto su questo momento del mito chiedendosi se, vista l’ambiguità dell’incontro, la fanciulla venga effettivamente rapita o se piuttosto non ne approfitti per fuggire. Ciò che appare chiaro a Calasso è che nella mitologia il dispositivo ratto-fuga costituisce un vero e proprio architrave della narrazione mitica, tanto da venir usato come escamotage con cui legare miti tra loro molto distanti. Sicché, se per un verso Europa viene effettivamente rapita, per un altro ella approfitta del καιρός per fuggire dalla propria Vaterland, dall’Heimat, dal grembo dell’oikos.

Dunque, i due si dileguano rapidamente per giungere infine a Creta ove consumano il loro rapporto sessuale. Da questa relazione nascono tre figli, Minosse[19], Radamanto e Sarpedonte; ma è solo alla morte del primo – molti anni dopo i fatti narrati – che i Greci, per onorare la stirpe regia, decidono di dare il nome «Europa» al continente che si trova a nord di Creta.

Un’altra variante del mito specifica anche che, a portare la buona novella, sono proprio i fratelli minori di Minosse. Si può presumere che il loro viaggio sia lungo – ed infatti compariranno in miti ben più recenti come fondatori di città in Lidia e in Boezia –, ma anche travagliato dal momento che il loro è un peregrinare in terre di cui non si conosce né storia, né estensione. Di queste terre i greci sanno unicamente definire l’indefinibile: l’assenza di un nome che le qualifichi e la riduzione del regnum all’indefinitezza di un punto cardinale. Delle nuove terre d’Europa si conosce solo l’insondabile, l’indicibile, la dismisura: l’insecuritas.

Dunque, ciò che ci è consentito desumere da un’interpretazione fenomenologica del mito è che non solo il nome Europa rimanda chiaramente ad un passato orientale, fenicio, per nulla greco[20], ma, ancor di più, il nome identifica tutte quelle terre a Nord che, fino a prima dell’omaggio a Minosse, erano senza nome[21].

Le origini non-europee del nome Europa rinviano tanto al rapporto con l’Asia e con l’Oriente quanto ad un’origine che è un movimento nomade di sradicamento che dalla Vaterland porta alle terre dell’insecuritas, del senza-nome-proprio. Radicalizzando l’indagine si potrebbe dire che l’autentica origine d’Europa è questo movimento che lacera il rapporto con la terra, tradisce l’Urgrund, fugge verso l’ignoto. Questo non può che essere l’Occidente, lì dove il sole viene rapito e, tramontando, lascia spazio alla notte dove ogni ente è nel buio, nell’indecifrabile, in quel senza-nome che è già l’incertezza del dubbio filosofico nel cuore del mythos.

Ed è in questo crepuscolo occidentale che l’emergere sfumato del fenomeno si fa autentica thaumazein, tragico attimo d’incontro ove il senza-nome vuole ora esser detto, vuol esser nominato dalla voce di qualcuno capace di deciderlo, di dargli un τέλος e un valore. L’approccio mito-fenomenologico evidenzia quindi uno scarto tra il comune modo d’intendere l’origine, il puro Grund che tutto fonda, ἀρχή come sacra fonte sorgiva, e l’ οὐσία d’Europa, originariamente lacerata da un movimento di sradicamento, impura, sempre diveniente, già da sempre decisa, discussa.

C’è poi da fare un’ulteriore precisazione, questa volta etimologica, legata all’origine d’Europa; c’è quindi da chiedersi cosa significhi filologicamente “Europa” per i greci che ascoltavano il suo mito. La proposta del filosofo francese Jean-Luc Nancy – apostrofata da Rodolphe Gasché in Europe, or the Infinite Task come «obiettivamente discutibile»[22] ma «ricca di suggestioni» – prevede un doppio etimo. Il primo deriverebbe dal termine semitico pre-greco «ereb», con il significato di «oscurità»[23], con cui i fenici indicavano tutti i territori dove “tramonta la luce”. La seconda si troverebbe in Omero – e successivamente anche in Erodoto – dove l’uso dell’aggettivo ϵὐρύοπα riferito a Zeus sembrerebbe derivare dall’unione di «εὐρύς», «ampio», e «ōp», «occhio», col significato di «ampio sguardo». L’ampiezza non è tuttavia da concepirsi come un’apertura orizzontale dello sguardo ma come un oltre, un al di là del banale osservare; uno sguardo penetrante e perforante. Ma, come osserva Gasché, in Nancy queste due etimologie si coappartengono:

 

«Concordemente con questa origine il nome “Europa”, per citare Nancy, “significa: colei che guarda nella distanza” […]. Ma Nancy mette in campo anche l’ altra possibile etimologia della parola, determinando così lo sguardo di Europa come un “guardare lontano nell’oscurità, nella propria oscurità”»[24].

 

Insomma, per quando possa destare perplessità, la ricerca di Nancy, traducendo il nome di Europa in uno sguardo prospettico che mira oltre, al di là di sé, verso il confine, verso la radicale alterità del senza-nome, ha il merito di arricchire ulteriormente la “frattura” di un Urgrund certo, «chiaro e distino». Europa segna un divenire: un provenire da origini dimenticate e un volgersi oltre, verso l’ignoto delle terre crepuscolari dell’Occidente. Così il nome “Europa”:

 

«[…] non disegna “niente”, solo una separazione originale da ciò che è nativo, una fondamentale apertura al mondo e una trascendenza originale verso ciò che essa non è»[25].

 

A tal riguardo è possibile ricavare dal mito e dalla riprova filologica due ulteriori spunti di riflessione. Il primo riguarda l’«ereb» d’Europa, la sua essenza crepuscolare. Qui il mito infrange un altro cliché tipico di una certa retorica illuminista; quello che vorrebbe la filosofia come conoscenza diurna, come scienza del dato, della res auto-evidente, come forza luminare che dilegua le ombre delle mitologie. Ci basti qui osservare che esiste una parola greca capace di sconfessare questo mito e che, di rimando, sembra proprio rimarcare l’essenza crepuscolare d’Europa.

Questa parola è ἀλήθεια, tradotta dai latini con la parola Veritas. Aletheia non però indica la certezza, la vis, della veritas ma, piuttosto, lo svelarsi, lo scoprirsi. L’ἀλήθεια indica una pratica tutt’altro che diurna; essa è la phronesis di coloro che vivono le terre di Eraclito, detto l’oscuro, che anticamente sentenziava: «La natura ama nascondersi». Nelle terre europee la natura si cela nella notte, i fenomeni perdono la loro certezza, i colori sfumano, così come i loro limiti, qui nessuna luce squarcia le tenebre dell’erebo. Quel che i greci sanno bene è che ἀλήθεια è la pratica degli animali notturni quelli che, come athene noctua – la nottola di Minerva che spicca il volo al calar del sole – , possiedono quello sguardo penetrante capace di discernere nell’insecuritas. Vi è qui un’intima vicinanza al mito. Come l’Urgrund d’Europa coincide con un fuga della propria Heimat e, cioè, con uno s-fondamento, con uno s-radicamento, così l’aletheia procede per negazione nel senso in cui si apre con un’«α» privativa: verità non è il dato certo, ma la pratica che s-vela, che s-copre.

Quanto detto consente di approfondire anche l’ultimo aspetto degno d’interesse del mito. Infatti, solo se l’ente viene prima esperito nel suo nascondersi, nel suo oblio, «solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento» è possibile che l’uomo si metta in cammino verso la verità. Ma ciò è quanto viene testimoniato dal viaggio di Radamanto e di Sarpedonte, coloro che portano la verità del nome “Europa” in quelle terre anguste la cui essenza è l’oblio. Oblio e abisso – in tedesco Abgrund, ovvero senza Grund, privo di fondamento – hanno chiaramente a che fare con Φόβος, l’angoscia, il vivere in una situazione di incertezza, di dubbio costitutivo. Ed è esattamente attraverso questi vocaboli che il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, teorizza il suo concetto di Unhemlichkeit, il perturbante, il patologico[26].

Ancora una volta si ha a che fare con un lemma che si apre nei termini di una negazione: Unheimlichkeit può essere tradotto, in senso letterale, come «ciò-che-è-senza-patria» o, meglio, «lo spaesante». Si faccia ora attenzione: poco sopra, parlando del viaggio dei fratelli di Minosse, si era osservato che il loro viaggio è un peregrinare nei luoghi crepuscolari e senza-nome, nel regnum dell’oblio e del nascondimento, lì dove manca la misura che fonda la certezza, la res «chiara e distinta» di Cartesio. Queste terre sono l’Unheimlichkeit: in questo Welt nulla ci è più prossimo, più vicino e più domestico dello spaesante[27], la qual cosa equivale a dire – con Nietzsche – che «nel fondo del Greco c’è la mancanza di misura, la caoticità»[28].

Se la casa rappresenta il luogo del nostro quieto vivere, dell’intimità dell’abitare e se la sua legge è quella dell’oikonomia, del disporre ed imporre di ogni realtà in quanto conosciuta, individuata, r-assicurante, allora la «casa europea» è lo spazio che nega ogni economia in quanto gli è intimo il perturbante, il patologico, l’innominato. Parlando in termini non dissimili Massimo Cacciari afferma che Europa:

 

«[…] si riconosce perciò soltanto giunti alla sua “soglia”, al suo confine, là dove, cioè, esso si fa cum-finis, vicino, prossimo, contiguo all’altro da sé dove rivela qualcosa di communis con l’altro. Europa è là dove essa “tocca” l’estraneo, lo straniero»[29].

 

Ma con ciò non si è tornati all’inizio? Non sono proprio questi i sinonimi con cui ci si era riferiti alla crisi d’Europa? Non sono l’insecuritas, l’assenza d’origine, la Stimmung crepuscolare e lo spaesamento esistenziale i tratti con cui ci si era riferiti alla krisis? Non erano proprio l’intimità della patologia e la domesticità della crisi a spalancare le porte del nichilismo?

Ma, se così stanno le cose, non solo si è trovato ciò che si cercava – ovvero il significato autentico di crisi attraverso la domanda sul “chi originario”– ma, ben più in profondità, si è trovata la sostanziale equivalenza tra il significato d’Europa e il significato di krisis: Europa è la crisi, la frattura del principium individuazionis, l’angoscia che abita la domus, la decisione che scompagina e recide l’ ἀρχή. In tal senso l’origine europea si oblia, si svincola da qualsiasi tentativo di riduzione in Grundsatz: cercare il “chi originario” è trovare la crisi.

Da ciò residua, ineludibile, un’ultima domanda; quella del «più inquietante fra tutti gli ospiti», quella che chiede del nichilismo: infatti, se vi è corrispondenza tra Europa e crisi, bisogna ammettere che Europa è la patologia e la sua storia è il nichilismo. Ben al di là delle crisi marxiane congenite al capitale, qui è l’intero edificio narrativo che rischia di entrare in una crisi totale, in una krisis che già da sempre gli appartiene e che ora mostra il suo volto totalizzante. Europa e nichilismo, dunque: che fare?

 

 

 

  1. Decostruzione della Respublica e pratiche di sinisteritas.

In precedenza ci si era riferiti al dizionario di Salvatore Battaglia per qualificare la crisi come lemma medico il cui campo semantico definiva l’attimo patologico della negatività, del deterioramento. Tuttavia, questa definizione rappresenta un’acquisizione abbastanza recente che risulta da un graduale spostamento semantico del termine dal suo significato più originario. Crisi deriva infatti dal greco κρίσις, utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività di separazione del frumento dalla paglia. Da qui deriva il suo significato di “separare”, “dividere” e che risuona anche nell’origine recisa d’Europa di cui si è trattato. Ad uno sguardo più vasto krisis significa anche “scelta”, “giudizio”, “valutazione”. Il passaggio tra le due significazioni appare giustificato se si pensa all’intimo senso di “decisione”, dal latino de-cedo, ovvero, ancora una volta, tagliare, separare e dunque scegliere tra frumento e fieno.

Europa è così quella regione che, di volta in volta, ritorna eternamente come luogo della krisis originaria, come spazio dell’eterna decisione, come confine del suo rinominarsi. Presentare Europa nella luce opaca della notte, definire la sua abitabilità come spaesatezza, è pensare ad un Grund formalmente anarchico, che non riesce mai a concludere il proprio scopo – che è precisamente quello di fondare – in quanto il suo essere non è, ma diviene nella forma di una crisi: l’origine d’Europa è decisione, lacerazione, fuga dal principium e rapimento dall’archè, la sua identità diviene alterità, la sua intimità lo spaesamento, la sua certezza il dubbio. La tradizione d’Europa altro non sarebbe che il suo costante scegliersi, decidersi, tradursi, di volta in volta, in modi specifici del tradimento rispetto il suo stesso pretendersi “cosa certa”. La tradizione d’Europa è la crisi, in quanto solo attraverso essa Europa risulta fedele a sé stessa.

Se, a differenza dell’accezione moderna, il deterioramento della krisis non è patologia «soltanto temporanea» – in quanto momento contraddittorio interno alla sintesi dialettica –, ma forza attraverso cui la violenza della negazione tende a decidersi, come imporre ad Europa una de-finizione? Come risolvere la crisi originaria d’Europa? Come disporre della certezza del suo esser-Stato, della sua identità, se essa è provenienza e tensione aneconomica, trascendenza ed eccedenza perturbante, frattura originaria?

Queste domande portano al limes estremo dove la Respublica, l’essenza pubblica della “cosa-Europa”[30], si scopre negata, deposta, indisponibile, addirittura opposta, alla crisi che la costituisce. Se in apertura si affermava che Europa non è una “cosa”, ora si può ulteriormente dedurre che Europa è la messa in crisi di ogni “cosa”, di ogni fatto puramente auto-evidente, di ogni fenomeno preteso come dato certo, misurabile, amministrabile, sfruttabile e dominabile. Europa è veramente la forza “recalcitrante” di cui scrive Eschilo; ma non in quanto libera, piuttosto poiché vincolata alla sua criticità, alla sua contraddizione instancabile ed irrisolvibile. Nel pubblico, la res di tutti viene discussa, decisa, messa eternamente in crisi in quanto cosa certa:

 

«Fino in fondo, vita è contraddizione e conflitto. […] Ciò che eternamente ritorna è la contraddizione chiaritasi nel mondo effettuale-temporale dell’operari e del Macht. Il conflitto è degno di ripetersi. Il Ritorno non consola né accorda – ribadisce […] Nel tempo del Dasein esiste soltanto conflitto-contraddizione – esiste crisi soltanto. E il tempo si sviluppa attraverso queste crisi – è un ciclo eterno di crisi, un Eterno Ritorno di crisi»[31].

 

Una conflittualità che resta all’esterno della dialettica senza per ciò stesso cadere nel nichilismo. Qui la crisi vive nel detto eracliteo[32]: «Polemos è signore di tutte le cose». Bisogna fare però attenzione: rendere originaria la crisi, trasformare l’Europa nella terra dell’Unheimlichkeit, apre effettivamente alla possibilità di un orizzonte nichilistico. Il rischio di trovarsi in un territorio ove è il Letztemensch nietzscheano a farla da padrone o, il che è lo stesso, in un territorio filosofico-politico dove dominano relativismo, oggettivismo e psicologismo – le scienze discusse dall’intera tradizione fenomenologica –, è certamente alto.

Eppure, quel su cui si vorrebbe insistere è il carattere razionale di questa filosofia della crisi. Si tratta cioè di continuare a porre la crisi come irriducibilmente anti-dialettica senza, con ciò stesso, farla naufragare nel nichilismo. Ma come ottener ciò? Ed è precisamente su questo punto che il discorso, per così dire, frana nuovamente sul versante politico, quello a cui ci si riferiva in apertura parlando del doppio volto della crisi europea. Rivolgendosi ad un attento studioso di nichilismo, come fu Franco Volpi, possiamo affermare che:

 

«Il nichilismo della cultura contemporanea non è soltanto crisi dei valori […]: è anche il fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del “qui e ora”. Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo»[33].

 

Decaduta la promessa sintetica dei socialismi reali, la prospettiva di un Aufheben della crisi si rende impossibile; tuttavia essa non viene eliminata ma, al contrario, ribadita come patologia, nevrosi cronica, nichilismo fisiologico che inchioda al puntiforme «qui ed ora», trattenendo – τὸ κατέχον[34] – nell’Augenblick qualsiasi politica del novus, della trascendenza, della differenza. Da questo versante la crisi-patologia diviene un dispositivo atto a frantumare ogni immagine critica ed organica sul mondo, aprendo a quella deriva relativistica che altro non è che la forma dietro cui essa dispiega la sua coercizione, la sua violenza normativa, la sua messa fuori legge di concetti quali quelli di rivoluzione, Geist der Utopie[35], adveniens del Politico.

Insomma, dal lato patologico, crisi del politico e crisi economica non solo sono conniventi ma proprio lo Stesso. Le due fasi altro non sarebbero che «qui ed ora» della medesima e sistematica forza. Nel tempo economico la crisi mostra il suo volto feroce, violento, temporaneo, nel tempo politico il suo volto di “nichilismo di Stato”, di norma reattiva e di governo della décadence. Nonostante ciò, Volpi ricorda anche un secondo carattere del nichilismo:

 

«Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare»[36].

 

Ecco così che il nichilismo insegna anche la decostruzione della res-publica certa, chiara e distinta; di quella “cosa” dogmatica che ogni potere politico – anche il potere annichilente della crisi – usa per fondare sé stessa, per rendersi incontestabile, in-criticabile e che lega la res alla sua insindacabile reālitās. Ed infatti, sempre con Volpi:

 

«Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà»[37].

 

Come è evidente, da quest’altro versante il nichilismo palesa la sua forma di autentica krisis, di radicale decisione, di pura contesa. Il «qui e ora» si trova per così dire redento, nessun potere frenante ci inchioda; nell’Augenblick lo spirito della contesa si fa ek-stasis, fuoriuscita da sé, dalla sua situazione, pura tensione, differenza, alterità. Lo spazio-tempo di questo differente modo d’intendere il «qui ed ora», l’evento, è lo stesso spazio in cui si trova Europa, la principessa del mito che insegna l’aletheia, l’Unheimlichkeit, il cumfinis. Qui la temporalità trattenuta nell’istante, la cronicità del Neuzeit, si trasvaluta in un «qui ed ora» che altro non è la tensione decisiva del καιρός. Epoché dello “stato di fatto”, l’attimo dalla crisi-decisione si dilata nel tempo del καιρός; nulla della crisi è risolto, tutto è da decidere.

Qui il pensiero si arma, si fa contesa e ingaggia la sua battaglia sul crinale più pericoloso – quello della reificazione del nichilismo, del tramutarsi in patologica della crisi, del suo divenire potere e sistema – perché è in questo pericolo mortale che esso scopre il suo καιρός, il giusto momento. Qui la crisi d’Europa è filosofia anarchia, non governo della res. Anarchica è l’origine come decisione, sovversiva quella aletheia che è prassi nel dubbio, contesa quella conoscenza che sta sullo sfumare della veritas, rivoluzionario quel «qui ed ora» che sospende ogni autorità dello stato di cose per affidarsi all’autorevolezza della crisi. Europa è la sua crisi originaria: questa la maledizione del senza-nome.

Maledizione in latino si dice sinisteritas[38]. La sinisteritas non solo indica la «parte maledetta» – come lo sono il suono sinistro di un fantasma, il colpo mancino che non ti aspetti – ma l’errore, il contraddire, il procedere per contraddizioni: l’affermazione – direbbe Zarathustra – che la realtà è falsa. Ma in questo dire contra della crisi originaria si apre lo spazio stesso di una politica; ad essere aurorale è polemos. Certamente una simile maledizione non potrà mai farsi res normativa, mai divenire reālitās su cui erigere il proprio regnum – pena il suo divenire maldestra, poco retta [rectus], cioè impreparata a reggere [rĕgo] il potere. Ma qui è in gioco proprio la possibilità di una sostanziale messa in crisi del potere attraverso una krisis che lo costringa, come Europa, al suo s-fondarsi, al suo rinominarsi, al suo decidersi: ἀναρχία dell’aletheia, καιρός dell’Unheimlichkeit.

 

 

[1] D’altro canto lo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker afferma che: «La Ue non è in gran forma. Sono cambiate tante cose. Possiamo parlare di crisi esistenziale» in Ue, Juncker: “Europa in crisi esistenziale. Non è abbastanza sociale. Ma patto di stabilità non è patto di flessibilità”, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016.

[2] In una recente intervista Matteo Salvini ha dichiarato che: «L’Europa perde i suoi valori, vengono a mancare sicurezze, perde l’identità e non ha più orgoglio, […] Mai nella sua storia l’Europa è stata rammollita come oggi!» in “Das Problem ist die Kultur des Islam”, Die Welt, 3 Gennaio 2017.

[3] Ed infatti Matteo Renzi osservava come: «l’Europa non può essere solo vincoli e spread, non solo parametri, ma deve riscoprire la sua anima: serve una scommessa ampia che vada oltre la risposta alla paura» in M. Giro, Serve una leadership visionaria per ritrovare l’anima dell’Europa, Huffpost, 22 Giugno 2016.

[4] A tal riguardo si rimanda alla prima parte di Bloch E., Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano 2005.

[5] Si rimanda al Capitolo tredicesimo, Libro III de Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, pp. 271-297.

[6] Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, p. 319.

[7] Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, vol. III, Torino, UTET, 1971.

[8] Foucault M., Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, trad. it di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 1998.

[9] Per una attenta analisi del rapporto tra il materialismo storico e dialettica hegeliana si veda Finelli R., Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 e il successivo Finelli R., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

[10] Il termine vuole essere un chiaro riferimento a Nietzsche e, più in particolare agli studi genealogici più tardi e contenuti in F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1968 e in F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968

[11] M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, p. 51.

[12] Ad esempio si veda il celebre riferimento di Hegel ad Omero in G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6.

[13] Bonazzi M., Atene. La città inquieta, Torino, Einaudi 2017.

[14] Il riferimento non è al dionisiaco nietzscheano ma a quello ripensato da Colli in Colli G., Apollineo e Dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010.

[15] Eschilo, I Persiani, a cura di M. Centanni, Milano, Feltrinelli 1991, p. 39-41

[16] Ivi, p. 43.

[17] Gnoli A., Volpi F., I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997, p. 94.

[18] R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.16.

[19] Secondo re di Creta, nonché unico successore dopo la morte del padre adottivo Asterione.

[20] Non a caso Gasché ricorda un passo tratto da Le Storie (Libro IV, 45.) di Erodoto in cui lo storico afferma che Europa «era di origine asiatica e non giunse mai in quella regione che ora i Greci chiamano Europa», in R. Gasché, Europe, or the Infinite Task, R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 39.

[21] Una mancanza espressa anche da R. Calasso: «Ma come era cominciato tutto? Europa, verso l’alba […] aveva avuto un sogno strano: si trovava tra due donne, una era l’Asia, l’altra era la terra che le sta di fronte, e non ha un nome» in R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.17.

[22] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 40.

[23] R. Gasché, Alongside the horizont in On Jean-Luc Nancy. The sence of philosophy, Routledge, Londra, 1997, p. 136.

[24] Ibidem. «According to this origin the name “Europe”, to cite Nancy, “would mean: the one who looks in the distance” […] But Nancy brings to bear the other possible etymology of the word, thus determining Euryopa’s glance as a “look far into the obscurity, into its own obscurity” […]». Traduzione mia.

[25] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 43.

[26] S. Freud, Il perturbante, in Opere 9 a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, pp. 70-115.

[27] Si rimanda a E. Ferrario (a cura di), Oikonomia, Roma, Lithos, 2009. Preme qui sottolineare un passaggio tratto dall’Introduzione; passo che permette di comprendere tanto il carattere di Anspruch, quanto quello di dominio/organizzazione dell’oikonomia. Dopo aver fatto riferimento alla Politica di Aristotele (1261 a) si afferma che «Il passo è notevole […] perché sottolinea il carattere plurale, differenziato proprio della polis. In secondo luogo, perché indica come caratteristica dell’oikonomia una certa non politicità; e cioè il tendere, insito nell’economico, a una […] “unificazione del molteplice” […] quale quella che opera nell’ “amministrazione familiare” […]» (p.12). Se l’oikos-nomia tende all’unità erodendo la molteplicità è proprio perché il sentirsi-a-casa annulla le distanze, distrugge le differenze, arresta il divenire. Ma se questi sono i termini dell’oikos non è proprio l’Europa quel margine scucito che permette di pensare la possibilità di uno spazio al di là della pretesa di dominio dell’oikonomia?

[28] F. W. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, p. 16.

[29] M. Cacciari, Europa o Filosofia, in Filosofi per l’Europa. Differenze in dialogo, a cura di L. Alici e F. Totaro, EUM, Macerata, 2006, pp. 21-22.

[30] Per una più completa rilettura della “cosa” in quanto tradizione politica d’Europa si rimanda – nonostante l’estrema differenza d’impostazione e di vedute – ai classici di Severino come Severino E., A cesare e a Dio. Guerra e violenza in controluce,                    Milano, Rizzoli, 2007; Severino E., La potenza dell’errare, Milano, Rizzoli, 2013; Severino E., Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002.

[31] Cacciari M., Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977, p.12. Per una rapida lettura storica del “pensiero negativo” e delle sue ricadute politiche si rimanda a Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012; Gentili D., Stimilli E., Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Roma, Deriviapprodi, 2015.

[32] Per una attenta indagine fenomenologica del momento polemico come origine della filosofia e della politica si rimanda a due allievi di Heidegger: Jan Patočka e Hannah Arendt. Si vedano quindi: Patočka J., Platón a Evropa, tr. di G. Grigenti, Platone e l’Europa. Vita e pensiero, Milano 1998; Patočka J., Kacirske eseje o filosofii dejin, tr. di G. Pacini, Saggi eretici sulla filosofia della storia. Giulio Einaudi Editore, Torino 2008; Arendt H., The human contidion, tr. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Torino 2001.

[33] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 145.

[34] Immagine ormai classica della teologia politica. Per una visione più completa si rimanda a Metzger P., Il Katéchon. Una fondazione esegetica in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Nicoletti M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Il concetto di katéchon in Carl Schmitt in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Cacciari M., Il potere che frena. Adelphi, Milano 2013.

[35] Il riferimento è chiaramente a Bloch E., Der Geist der Utopie, trad. it. V. Bertolino, Lo spirito dell’utopia, Milano, BUR, 2009. Per quanto concerne il rapporto politico tra Utopia ed Europa si rimanda a Cacciari M., Prodi P., Occidente senza utopie, Bologna, Il Mulino, 2016.

[36] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 178.

[37] Ibidem.

[38] Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012, pp. 12-14.

“Ricercare” l’Europa

Pensare un oggetto impone sempre una sua costruzione e una sua definizione preliminare. Pensare, ed osservare, l’oggetto ‘Europa’ ‒ ciò a cui questo spazio intende contribuire ‒ impone, poi, uno sforzo aggiuntivo. Esso, infatti, non è né palpabile, né tantomeno prevedibile. L’Europa è un processo di cui non si conosce la direzione ed ogni scenario futuro è dunque possibile. Storicamente, poi, è noto, l’Europa è stata “inventata” dagli “europei” per definire quel lembo di terra finale ad ovest del continente asiatico, centro della civiltà umana all’inizio della storia (la «piccola propaggine dell’Asia», come l’ha definita Paul Valéry). Oggi, molto tempo dopo, siamo ancora alle prese con la stessa questione: definire quello spazio che ostinatamente continuiamo a chiamare Europa, ma i cui contorni appaiono poco definiti, spesso confusi con quelli dell’Occidente o della cultura giudaico-cristiana. Del resto, non è forse vero che il rilancio del processo di costruzione europea, iniziato oltre cinquant’anni fa con i Trattati di Roma, avveniva con l’obiettivo di mettere pace e armonia su di un territorio dilaniato dalle divisioni e dalle guerre e per dar vita ad un entità presente forse già nelle premesse (come per quasi tutti gli stati-nazione europei)? Non era forse questo il progetto dei primi europeisti, di quelli del Manifesto di Ventotene ‒ con Spinelli, Rossi e Colorni (e, prima ancora, Einaudi) ‒ nonché di uomini come Churchill, Monnet e Schumann, che hanno fatto sì la storia dell’Unione europea, ma il cui principale obiettivo era allora contenere la forza devastante della Germania da un possibile eterno ritorno? Ecco dunque il problema: quale è il progetto di costruzione dell’Europa, se costituzione di una nuova entità geografica, politica, economica e sociale, con una sua specifica identità culturale o più semplicemente un progetto asettico, limitato alle sole dimensioni funzionali alla sua amministrazione, o peggio di cinghia di trasmissione del turbocapitalismo imperante oramai nel globo, in cui la risultante identitaria e culturale sia solo appendice a margine e del tutto insignificante del progetto?

L’identità europea, perché di questo si tratta, sembra per ora stagliarsi solo lontanamente all’orizzonte. Essa appare come una nube fitta che stenta a diramarsi per lasciare definire i contorni del paesaggio che copre. Un’identità difficile, come in molti l’hanno definita, la cui dimensione culturale parte da molto lontano, addirittura dal mito di Europa raccontato dagli antichi greci. Una storia millenaria che percorre tutto l’impero romano, con la centralità del Mediterraneo, l’impero carolingio, i piccoli principati e le grandi monarchie, gli stati-nazione, i Trattati di Roma del ‘57, l’Unione europea, l’Euro e che si arricchisce nel tempo – stratificandosi – di sempre nuovi elementi culturali. Una lunga narrazione che fa del comune codice culturale del cristianesimo, a sua volta elaborato da quelli greco e romano, la cornice generale entro la quale verranno nel corso del tempo costruite nuove identità politiche particolari. Perfino i conflitti, sia quelli “interni” all’Europa, sia quelli con i “non europei” contribuiscono alla sua identificazione. Il conflitto con i musulmani, ad esempio, ha contribuito a trasferire lentamente a Nord il centro della civiltà europea, verso i franchi e i germani, e ad abbandonare progressivamente il Mediterraneo, rimasto centrale per tutto il periodo greco-romano (è questa, ad esempio, la tesi di M. Bloch, ripresa dal suo allievo L. Febvre, secondo la quale «l’Europa sorge quando l’Impero romano crolla»). La scoperta dell’America, ci ricorda T. Todorov, ha poi svolto un compito importante nel processo di costruzione dell’identità europea e della modernità. Aprendo le vie delle Americhe, Cristoforo Colombo non solo dà un apporto notevole, anche se involontario, al definitivo declino del Mediterraneo nella geo-politica europea, ma permette agli europei di fare la conoscenza di un «altro» profondamente diverso, sul quale riflettere per prendere consapevolezza di sé. Una identità, quella europea, che ancora si nutre di questa riflessione.

Dunque, una lunga storia, quella dell’Europa, che fa sentire tutto il proprio peso sulla costruzione di una identità collettiva, la cui radice, innegabilmente comune, non è tuttavia sufficiente al processo di costruzione di uno spazio unico europeo. Formalmente, esistono dei confini geografici: ora sono quelli dei 28 paesi che comprendono l’Unione, con una geografia politica e culturale molto diversa e che rendono ancora più frastagliato lo spazio comune europeo. Paesi come la Svezia o la Danimarca condividono un territorio istituzionale (ma non l’Euro) che include anche Cipro e Bulgaria; e domani forse anche l’islamica Turchia siederà al tavolo del Consiglio Europeo a discutere di norme e a sottoscrivere trattati con le cattoliche Portogallo, Spagna, Italia e con l’ortodossa Grecia, nemica di vecchia data. All’inizio certo era tutto più facile. I sei paesi fondatori della Comunità economica erano tutti cristiani e democratici, il terreno comune era molto più esteso e definito. Oggi, e domani ancor di più, le basi comuni si restringeranno e lasceranno spazio ad una ancor più difficile, astratta, definizione dell’identità comune. Se è vero, come di fatto sta accadendo, che i confini politici dell’Europa tendono sempre più a spostarsi verso est e ad includere paesi slavi, ex comunisti e ortodossi di religione, è chiaro che la linea politica diventerà sempre meno quella dell’integrazione sostanziale e sempre più quella della integrazione formale. Cosa potranno avere in comune gli europei occidentali «cristiani», gli europei musulmani del sud e gli europei slavi cristiano-ortodossi dell’est? Forse, come afferma Habermas con il suo patriottismo costituzionale, si potrà avere sempre meno una identità culturale e sempre più (forse) un senso delle istituzioni europee?

Puntare sulla formazione di una società europea tramite il processo formale di integrazione ha però i suoi rischi e non è detto che ciò possa produrre risultati positivi, come dimostra l’inconsistente risultato dell’integrazione economica realizzata con l’Euro e con le istituzioni economiche che ne governano il funzionamento (Banca Europea, trattati del libero scambio). D’altra parte è innegabile che vi siano tentativi lungo la direzione di una più profonda trasformazione verso l’integrazione sociale e culturale degli europei. L’Unione possiede di fatto una normativa in graduale sviluppo e una Corte di giustizia in grado di amministrarla. Non solo, ma una serie di misure adottate già con il Trattato di Maastricht (cittadinanza europea, euro, accento sull’importanza dei diritti dell’uomo, tutela della cultura come patrimonio dell’umanità) hanno di certo determinato uno spostamento di attenzione dell’opinione pubblica europea e l’assunzione di aspettative più stringenti nei confronti del progetto costitutivo europeo. Se da una parte si chiede più Europa, e meglio, allo stesso tempo quel meccanismo ha pure contribuito ad accentuare gli atteggiamenti più euroscettici, quando non propriamente antieuropei. Così che certi comportamenti individuali e pubblici, come il ‘no’ di Francia e Olanda del 2005 all’adozione del “Trattato che istituisce la Costituzione europea”, lasciano più di un dubbio sul consenso in corso nei confronti del ‘progetto Europa’. Perché l’Europa, viene detto, non può essere solo utile ma deve essere anche riempita di significati. In altre parole, senza un’anima, che Europa è?

Da questo punto di vista, uno sforzo di comprensione e di orientamento viene chiesto proprio alle scienze sociali, e alla sociologia in particolare. È indubbio infatti che nel corso di pochi decenni, il tema dell’Europa si sia prepotentemente affermato in diversi settori disciplinari. In sociologia, poi, non si è trattato solo di capire quali siano i termini di una possibile società europea in divenire e se e quanto questa sia o meno in procinto di costituirsi in una forma più integrata. La ricerca ha riguardato a fondo gli stessi fondamenti della disciplina, mettendo in risalto i limiti di un approccio secolare fondato sulla metodologia e sui concetti improntati su di un nazionalismo metodologico e di un’ontologia dello stato-nazione. Fino al punto che, non v’è dubbio, non è errato ritenere oggi la sociologia nel bel mezzo di una disputa epocale, allo stesso tempo epistemologica e metodologica, che contrappone coloro che ritengono la comparazione tra società nazionali ancora lo strumento conoscitivo principe per comprendere le trasformazioni in atto oltre e dentro gli stati nazionali e i nuovi adepti di quel «cosmopolitismo metodologico», per i quali invece è necessario inforcare occhiali diversi, aderire ad un approccio globale dei processi sociali per rilevarne composizione e intrecci complessivi. Quello che in questo momento manca alle scienze sociali, questo è almeno il nostro pensiero, è sia schemi generali di pensiero per interpretare processi complessi in atto in Europa e nel mondo e inquadrare avvenimenti ‒ come appunto il ‘no’ di Francia e Olanda di cui si diceva ‒ sia più ricerche e meglio mirate su specifici oggetti transnazionali. Occorre cioè promuovere ancor di più la ricerca sull’Europa, almeno in Italia, dove questa latita.

La ricerca sociologica sull’Europa ha bisogno di indagini empiriche, ma anche di riflessioni più generali. Innanzitutto, occorre domandarsi cosa significa parlare di società europea e se questa esista o meno; in secondo luogo, bisogna capire se le categorie di analisi finora utilizzate per le società nazionali possano ancora andare bene per quelle sovranazionali. La questione, viene affermato, è che la sociologia è stata sempre abituata a ragionare in termini di società nazionali. Lo ricordavamo anche poc’anzi. Essa ha sempre parlato di società italiana, francese, tedesca e mai di società europea, asiatica, africana o globale e nemmeno di società padana, catalana, basca e così via. La perplessità dei critici è quindi legittima. Inoltre, negli ultimi tempi, il dibattito ha riguardato perfino il canone classico della sociologia, quello dei suoi padri fondatori. Stabilito che il mondo in cui viviamo oggi è manifestamente diverso da quello in cui vivevano i padri fondatori della sociologia, anche il loro pensiero, viene affermato, deve essere, di conseguenza, inattuale. Ad essere sotto accusa è soprattutto l’efficacia di questo canone, quanto e se esso sia ancora adeguato ai fini di una appropriata comprensione del mondo di oggi, caratterizzato da un alto livello di connettività globale, da una certa opacità dei confini geografici e da una condizione cosmopolita di vita sempre più accentuata dalla interconnessione tra locale e globale.

In particolare, l’accusa rivolta alla sociologia classica sembra avere una duplice natura, sebbene intrecciata. Da una parte, ad essere criticata è una visione della società che avrebbe eluso ‒ dicono i contemporanei ‒ la problematizzazione del rapporto tra lo spazio sociale e quello geografico di una nazione, arbitrariamente delimitato da confini politici e giuridici, e dunque di aver operato una conflazione concettuale tra stato-nazione e società con la conseguente riduzione epistemologica, teoretica e metodologica della realtà. Dall’altra, l’accusa – operata per lo più da storici del nazionalismo ‒ va invece nella direzione di rimproverare ai classici della sociologia di non aver avuto una chiara consapevolezza dei processi di costituzione degli stati nazionali di allora, del fenomeno etnico, del nazionalismo e della loro relativa interconnessione a livello globale, o, quando presente, di aver inteso la società nazionale alla stregua di un contenitore compatto di relazioni sociali stabili e definite dentro confini definiti (arbitrariamente), finendo così col ‘naturalizzare’, potremmo dire, lo stato-nazione. In questo ultimo caso, ad essere disapprovata è la perfetta coincidenza tra lo studio rivolto alla società (nazionale) del loro tempo e la solidarietà sociale (nazionale). Un assunto, inoltre, non solo esplicitamente dichiarato errato da alcuni studiosi, tra cui il sottoscritto, ma che, soprattutto, ha finito col legarsi inevitabilmente all’altro nodo del problema, rafforzandolo. Nel momento in cui si afferma infatti che i classici della sociologia hanno mancato l’obiettivo di differenziare il costituirsi nel tempo delle società e delle nazioni (a discapito di quest’ultime), è anche inevitabile sostenere che gli stessi avrebbero confuso lo spazio sociale con quello geografico. Con ciò contribuendo a irrobustire il giudizio circa la validità, loro contestata, di ‘nazionalismo metodologico’. Le due critiche, cioè, si rafforzano a vicenda.

Il problema epistemologico per le scienze sociali, qui appena richiamato, è dunque semplice, addirittura banale. La domanda è la seguente: come può questo tipo di sociologia – che si muove su di un certo ordine di realtà ‒ comprenderne un altro che le è superiore, almeno dal punto di vista sistemico? E tuttavia anche la risposta non può che essere banale. A differenza dei suoi critici, si può certamente affermare che è almeno da tre decenni che la sociologia, e le scienze sociali in genere, hanno preso consapevolezza con i caratteri della globalizzazione e cominciato a vedere il mondo come un contesto storico di eventi degno di essere osservato come un oggetto specifico di studi. Si tratta di una circostanza che tuttavia non esclude il fatto che le interconnessioni su scala più o meno globale fossero un fenomeno reale già nel passato più lontano o riconosciute come tali e pertanto segnalate già da molti degli autori classici (Marx ed Engel, solo per fare un esempio, nel Manifesto del Partito Comunista parlavano già all’epoca di scambio e di interdipendenza ‘universali’ e di come ‘l’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili’; Durkheim, dal canto suo, discuteva di civiltà insieme al nipote-allievo M. Mauss).

Oltre l’idea di Europa e la costruzione di griglie operative, c’è la realtà dell’Europa e la strada da compiere lungo il cammino dell’integrazione sociale europea è lunga. Su questo non ci sono dubbi. Tra l’altro, non è detto che questa strada abbia una fine e, soprattutto, che questa sia quella che noi vorremmo per essa. Per quello che ci riguarda, riteniamo di indubbia utilità cominciare comunque a rilevare il modo in cui l’Europa si sta realizzando, sia istituzionalmente che nella teste delle persone. Come cioè, si «diventa europei». C’è un termine che designa tutto questo, ed è ‘europeizzazione’. L’europeizzazione – accorre in nostro aiuto Sergio Fabbrini ‒ è un processo che segnala un approfondimento qualitativo del processo di integrazione europeo. In altre parole, esso designa ‒ almeno tra gli studi politologici dove il concetto ha maggiormente trovato applicazione ‒ la diffusione e la penetrazione, graduale e differenziata, nei singoli paesi di valori, norme e direttive specifiche generati dalle istituzioni di governance europee. In pratica è una misura dell’adattamento dei sistemi subnazionali al sistema normativo e politico europeo. Da una parte c’è una istituzione politica, l’Europa, che lavora per coordinare le singole istituzioni nazionali; dall’altra ci sono quest’ultime e gli organismi territoriali più piccoli (province, contee, aree metropolitane, comuni), con i loro uomini in carne ed ossa ed i loro interessi corporativi che reagiscono a questa pressione. L’europeizzazione è la risultante del loro adattamento reciproco.

Sarebbe però un errore limitare il significato di europeizzazione al solo adattamento istituzionale. La sociologia, ad esempio, la intende e la impiega in maniera assai più estensiva della ricerca politologica. Europeizzazione qui diventa ad esempio sinonimo di congruenza tra schemi di significati esistenti in un paese e quelli che si affermano a livello europeo oppure di estensione progressiva di uno spazio sociale europeo con concomitante diffusione di codici culturali e stili di vita comuni. Con approcci di sociologia culturale o istituzionale, poi, l’europeizzazione è giunta addirittura a designare la graduale, seppure nebbiosa, costruzione di una identità europea. Quando poi si è occupata, come abbiamo fatto noi, di europeizzazione istituzionale, essa non ha mancato di intendere il cambiamento domestico, come questo viene elaborato, alla luce di dinamiche di adattamento cognitivo e di logiche interattive. Con un approccio che si rifà, nel complesso, al costruttivismo sociale. Questa è la specificità dell’europeizzazione dal punto di vista sociologico. Così facendo, poi, esso probabilmente evita di cadere nell’errore di scambiare ogni processo di integrazione sistemica con uno di tipo sociale e di pensare che esista una logica sequenziale tra l’europeizzazione istituzionale e quella sociale e culturale. Da questo punto di vista – come già per i concetti di modernizzazione, modernità e sviluppo ‒ i concetti di Europa, europeizzazione e Unione europea rischiano di apparire come termini lineari di una sequenza evolutiva che dalla vecchia Europa arriva fino alla nuova. Al contrario, l’Europa sociale e culturale segue processi suoi propri, lunghi e complessi. Per quanto la ricerca sociologica non sempre riesca a decifrarli adeguatamente.

 

Tratto dall’Introduzione di Tra sogni e realtà, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012